di Valeria Dell’Orzo
Se è storicamente assodato che la storia umana dei continenti è frutto dell’insieme inscindibile di spostamenti, mescolanze, impegno e sfruttamento, è altrettanto evidente che la terra d’Africa continua più di tutte a pulsare di un violento potere attrattivo e repulsivo: richiama con forza i fenomeni coloniali e respinge con pari violenza chi rimane schiacciato dalla macina dello sfruttamento.
Col passare dei secoli la forma assunta dall’attuazione di un fenomeno antico come il colonialismo è mutata, non possiamo più pensare a vascelli e carovane pronte all’avanzata trionfale, all’innalzamento di bandiere tronfie sul suolo occupato. Da un colonialismo classico non ne risulterebbe che un’anacronistica eccentricità, col solo effetto di sollevare il polverone della condanna internazionale, ma se un uguale risultato viene raggiunto attraverso un percorso di simulato equo scambio e riconoscimento reciproco, allora rientra nel gioco dell’economia globale e non è più soggetto alla condanna dell’universo politico e al biasimo societario.
Affievolitosi, almeno nelle evidenze ufficiali, il colonialismo europeo in Africa, da anni un altro impero economico ha concretizzato il suo interesse verso la ricchezza di questo continente. È la Cina, oggi più di altri, che con un ingente dispiegamento di mezzi e uomini ha posizionato basi e stilato accordi occupando il mercato locale e rilevando intere aree [1], dove progressivamente hanno preso forma città complete in ogni dettaglio, ma disabitate e sospese, in un’inquietante immobilità d’attesa.
Le città fantasma che la Cina ha creato sul continente africano richiamano alla mente le immagini, sia pure più suggestive e suadenti, di altre città ormai disabitate che il colonialismo si è lasciato alle spalle [2], scheletri di un abitare che non c’è più, rimasti a fare mostra di sé in un’alluvione di sabbia da una parte, e dall’altra sequenziali palazzi svettati al margine di strade illuminate e deserte, linee di congiunzione tra scuole afone e uffici vuoti. Frammenti urbani di un suggere avido che ha da sempre dilaniato l’Africa.
Quel che sta accadendo nel continente delle risorse, è la rappresentazione di un mutare profondo che va ben oltre la ricchezza del muoversi e del conoscere, è la creazione di uno spazio avulso dal contesto, una bolla surreale che estende il diorama di una città in scala reale, ma è altresì una base pronta per quei lavoratori trasformati in milizie in marcia dell’espansione affaristica, poiché anche il colonialismo prevede al suo interno un fenomeno migratorio dal profilo ampio e polimorfo, ed è facilmente intuibile una futura delocalizzazione di coloro che seguiranno il trasferimento estero delle proprie imprese, come dimostrano i settecentocinquantamila cinesi che negli ultimi dieci anni si sono già stabiliti in Africa.
I rapporti tra la Cina e il più ricco dei continenti, sono di lunghissima tradizione ma dichiaratamente stretti, nell’attuale forma, quindici anni fa, e hanno visto un costante aumento degli investimenti cinesi sul suolo africano; si tratta di fondi destinati alla crescita locale, incentivi all’economia e allo sviluppo sociale, vincolati al do ut des che vede come reale oggetto di attenzione le innumerevoli risorse di cui l’Africa è ricolma.
È il cosiddetto sistema win-win, accordi dai quali entrambe le parti dovrebbero uscirne vincenti, così ripete la Cina e così le fanno coro i despoti africani maggiormente coinvolti, nella realtà però eccellenti e indispensabili materie prime vengono cedute in cambio del dilagare di prodotti a basso costo di fabbricazione cinese nel mercato africano [3].
Vi è, inoltre, una dissonanza rispetto alla consuetudine di queste relazioni: negli accordi africani stipulati tra Cina e rappresentanti locali, tra i più avidi e feroci, sono totalmente omesse le clausole di tutela ambientale e sociale, convenzionalmente abituali nella stesura dei rapporti internazionali. Durante il Forum sulla Cooperazione Africa-Cina tenutosi nel dicembre 2015 a Johannesburg, per la tutela ambientale, socio-sanitaria e culturale e per lo sviluppo industriale, agricolo e infrastrutturale, il presidente cinese Xi Jinping ha previsto per l’Africa sovvenzionamenti ingenti, pari a 60 miliardi di dollari, ma non vincoli operativi circa il loro effettivo utilizzo. Il mese scorso, a settembre del 2016, si è nuovamente tenuto il FOCAC, questa volta in Cina, destinato all’incontro tra investitori, funzionari dei governi, e imprenditori, volto ad accelerare e rinsaldare gli scambi tra l’Africa e la Cina, suo maggiore partner economico: anche questa volta la destinazione degli investimenti ceduti non è stata garantita.
Le formali assicurazioni di libertà e salute pubblica, del tutto dimenticate nella sfera attuativa di queste collaborazioni, preparano di fatto il terreno alle consolidate pratiche dello sfruttamento, della violenza, dell’usurpazione, generando quella diffusa disperazione che non lascia altra via che la fuga, tentata, disperata, strumentalizzata, diretta verso mete frastagliate di barriere, mura e filo spinato, checkpoint militari e sacche di permanenza forzata.
Un calvario per intere popolazioni, che ancora una volta prende le mosse dall’enorme seduzione che le innumerevoli risorse africane esercitano sul mondo del potere e dei soldi e si conficca, ferita su ferita, nelle vite di milioni di vittime esauste, costrette all’esodo, annichilite da una condizione continua di pericolo e vessazione, destinate a divenire nuova fonte di guadagno sul suolo europeo, la terra degli accordi umanitari e delle politiche sociali dove troppo spesso si perpetra quella speculazione feroce che annulla l’uomo e ne cancella ogni dignità.
Il fenomeno cinese che attraversa e pervade l’Africa si presenta con la maschera del mercato globale, come viene ripetuto più volte nei vari accordi e nelle dichiarazioni pubbliche delle parti interessate; i rapporti tra la Cina e i vari Stati africani vedono il ripetersi della formula del baratto falsamente paritario: fondi privi di vincoli affidati alle mani dei governanti locali come legaccio di un accordo, infrastrutture, prodotti a basso costo che dilagano lungo i mercati locali, e manodopera qualificata in cambio di un più agevole o esclusivo accesso alle risorse locali, risorse di cui l’Africa trasuda, e che l’hanno da sempre resa irresistibile preda dei propri tiranni e delle potenze straniere.
I rapporti, serrati tra rappresentanti ufficiali o ufficiosi, escludono nella pratica effettiva la grande massa della popolazione che, seguendo un copione ormai tristemente solito, rimane intrappolata tra le maglie violente e crudeli di un dispotismo politico e militare spaventoso dal quale liberarsi equivale di fatto a scappare. Questa fuga è riflessa con nitidezza nell’esodo della grande migrazione europea, ma qui purtroppo, invece di trovare respiro, per gli esuli inizia un nuovo drammatico percorso, fatto di stalli, respingimenti, tensioni e sfruttamento, un viatico che disillude e mortifica le speranze di quanti chiedono al nostro continente niente di più che riparo, asilo e protezione.
Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016
[1] Sono attualmente coinvolti in maniera diretta e principale: Guinea Equatoriale, Nigeria, Ciad e Sudan, al nord; Angola, Zambia, Zimbabwe e Mozambico, al sud. Una disposizione strategica che di fatto delimita gran parte dell’Africa centrale. La lista completa dei Paesi che hanno stretto accordi minori con la Cina si estende, invece, fin quasi a coprire l’intero continente, come attestano i reports periodici di China Business Review. (in foto) http://www.chinabusinessreview.com/
[2] Il riferimento è a Kolmanskop e ai suoi residui strutturali di fasti abitativi, nell’estetica meno gelidi del susseguirsi ritmico dei parallelepipedi della nuova Kilamba.
[3] Basti pensare alla marca di smartphone più diffusa in Africa e tra i migranti giunti in Europa, spopolata qui solo successivamente e con la produzione di linee di più alto profilo, destinate a un mercato più ricco al quale si è reso possibile accedere grazie agli enormi proventi ottenuti dal mercato africano; o all’arma bianca più diffusa nel continente e legata indissolubilmente, nell’immaginario collettivo, all’efferatezza delle incursioni e dello sfruttamento.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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