di Mario Sarica
Fa’ circolare il vino vecchio, dorato, e bevi da mane a sera: bevi al suono del liuto e dei canti degni di Ma’ bad! Non c’è vita serena, se non all’ombra della dolce Sicilia Sotto una dinastia che sopravanza le cesaree dinastie del re.Ci siamo affidati agli struggenti versi del poeta musulmano Abd ar-Rahman di Butera, espressione eloquente della nobiltà del bere vino in età normanna sulla scena regale siciliana di Ruggero II, per incamminarsi sul sentiero delle vendemmie siciliane, alla scoperta, assieme all’immagine nostalgica delle cronache etnografiche, delle radici culturali più profonde dalle quali riaffiorano, per fortuna ancora oggi, la vigna siciliana e il suo frutto inebriante, il vino.
Un vero e proprio topos antropologico, al pari del grano, quello della vite, “innestata” fin dalle più lontane origini della civiltà mediterranea di simboli e valenze rituali. E spingendo così lo sguardo a ritroso nel tempo e nello spazio, ecco il vino come “scioglitore delle membra e degli affanni”, dalla doppia e temibile natura allucinogena e liberatoria, celebrato da Dioniso e dalla sua sfrenata corte di baccanti, menadi e sileni perduti nei suoni trasgressivi di aulos, tamburi a cornice e sonagli. Ma agli eccessi rituali rischiosi del consumo di vino, i Greci, sempre alla ricerca di “armonie e consonanze”, oppongono un consumo “apollineo” del vino, che si ispira alla temperanza e al “matrimonio” fra vino e acqua (9 parti di acqua, 1 di vino e miele), che trova nel simposio la sua massima espressione cerimoniale e simbolica, nutrendosi anche di poesia. A dominare visivamente la scena cerimoniale “alta”, anche della Magna Grecia, il cratere, contenitore raffinato della divina bevanda, ampiamente raffigurato nelle pitture vascolari, che assurge a simbolo iconografico per eccellenza del sensuale liquido, e soprattutto ad inequivocabile espressione conviviale che risalda “legami e patti di vita” fra gli uomini.
Riportandoci ora nuovamente sulla scena siciliana in epoca normanna, ecco il vino riemergere come elemento costitutivo del vissuto individuale e collettivo, nel doppio registro di bevanda sacra e profana. Un antidoto, il vino, per fronteggiare «l’angoscia dell’uomo medievale, la tensione che lo animava fra vita, morte e resurrezione». Luoghi elettivi del consumo di vino le taverne, giunte fino a noi anche in ambito urbano messinese contemporaneo come “putii i vinu”. Un consumo diffuso e democratico, quello del vino, collettivo e solitario insieme, che abbatte barriere sociali e differenze di censo, fronteggiando così le paure e le incertezze del quotidiano, proiettando gli uomini in una dimensione “altra”. Il vino era una «bevanda in grado di inondare il corpo – annota l’indimenticato medievalista Salvatore Tramontana – dilatarne i confini, scioglierne, disarticolarne e ricomporne gli elementi materiali e spirituali». E al di là delle valenze sociali, ma anche simboliche e religiose del vino, senza trascurare le sue proprietà terapeutiche, a noi pare opportuno, dentro la cornice storica di lungo periodo, annotare le fortune del vigneto siciliano. E a tal proposito, ancora l’illuminato storico Tramontana, ci fa sapere della «presenza di vigneti fin sotto le mura della città o lungo le fiumare che, a Messina per esempio, attraversavano il territorio urbano». E, inoltre annota, che di «terre coltivate a vigneti, e di palmenti e di attrezzi necessari alla trasformazione del mosto, tutt’attorno alla città dello Stretto, si parla in una pergamena greca del settembre del 1234». E poi, di quanto Federico II amasse il vino peloritano, ecco una sua ordinanza al secreto di Messina, «perché gli fossero immediatamente inviati in Arezzo, dove in quel periodo risiedeva la Corte, centum barrilia de bono vino de galloppo».
Centralità del vino, dunque, nella storia del Mediterraneo, che, dalla originaria terra mesopotamica, giunge a contatto con popoli diversi, coniugandosi ai diversi contesti cerimoniali e rituali. E così, dai riti orgiastici del greco Dioniso e del romano Bacco, inebrianti di vino, «bevanda che faceva dimenticare gli affanni, che portava gioia nei banchetti, e induceva al canto e all’amore», giungiamo al mitico “mamertino”, vino siciliano d’origine milazzese, apprezzato da Giulio Cesare e noto anche a Plinio il Vecchio, intorno al I sec. d. C.
E secolo dopo secolo, il vigneto autoctono della terra madre isolana, giunge fino ai nostri giorni, affidandosi soprattutto ai saperi della cultura contadina di tradizione orale. Un saggezza popolare plurisecolare, nella doppia accezione di forme materiali ed immateriali, dai tanti luminosi riflessi, quella coniugata al paesaggio della vigna siciliana, troppo presto azzerata, in nome di una malintesa modernità e di irresistibili e seducenti aggiornamenti tecnologici ed enologici.
Certo, è sempre rischioso il ricordare, il rileggere e il raccontare il passato, c’è il rischio, appunto, di scivolare con facilità sul registro nostalgico consolatorio, e basta. Di certo, quello della civiltà contadina siciliana, declinata alla sapiente cura del vigneto, di memoria millenaria, con i suoi fascinosi legami mitici e leggendari, è da rubricare nei tanti “mondi per sempre perduti”. Eppure, sono profondamente convinto che, oltre l’iconografia idilliaca e consolatoria, è possibile ancora oggi nutrirsi di valori sostanziali, che sgorgano segreti da questa antica pianta di vita, da sempre in armonia fra uomo e natura. Basta fare silenzio e ascoltare questa nobile storia antica di tradizione, impastata di fatica quotidiana e di sacralità, che è l’anima profonda della coltivazione della vite e della trasformazione dell’uva in vino, che ha plasmato lo stare al mondo di tante generazioni di uomini e donne, prima che la terra e il cielo andassero per sempre in frantumi. Il vigneto, infatti, riflette l’antica pratica dell’addomesticamento dolce della natura da parte dell’uomo. Il “sabbaggiu”, l’uomo, saggio e di esperienza, lo rende infatti “mansu” , così come avviene con la paziente pratica dell’innesto’ nella vite.
La vigna, poi, a differenza dei cereali e anche di molte piante da frutto della campagna siciliana, non è una coltivazione immediatamente produttiva. «Piantare una vigna – scrive Enzo Bianchi, fondatore e priore della comunità monastica di Bose – è come fare un matrimonio con la terra, e gesto di grande speranza, che non a caso la Bibbia pone come il primo gesto compiuto da Noè dopo il diluvio. Significa – prosegue il carismatico Bianchi – stipulare un’alleanza con un pezzo di terra, una sorta di patto nuziale tra l’uomo e la natura, senza il quale non può nascere la ‘civiltà’. Ma il vero e ultimo frutto della vigna non è l’uva ma il vino, ricco di doni concreti e denso di rimandi simbolici. Da sempre, dai tempi di Noè accanto al pane del bisogno, il pane che sfama, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa, una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, l’amicizia ritrovata, bevanda che invita a cantare la vita, ad immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire sì alla vita», fino a sublimarsi a simbolo della morte e resurrezione del figlio di Dio.
Ed ora siamo in vista della vendemmia siciliana, così com’è giunta a noi dai nostri padri cresciuti nel rispetto e condivisione dei valori fondanti, e così come emerge dai tanti documenti etnografici ricolmi di voci, suoni e sapori, frammenti di vissuto che reclamano spazi vitali nel nostro cangiante e frenetico presente.
Nel calendario stagionale contadino, in un ritorno ciclico confortante, la vendemmia si ergeva come scadenza “forte”, particolarmente attesa e sentita dalle comunità rurali, perché legata al benefico ciclo del vino che, dall’ambito domestico, con i suoi profumi forti e i suoi generosi effetti, si irradiava come “vettore” primario, decisivo, anche sotto il profilo economico, per le sorti di tutte le comunità rurali. Emblematica appare, dunque, la scena della vendemmia, nell’occasione quella dei Peloritani, che, dai filari dei vigneti sulle “rasule”, risuonanti di voci, canti e suoni, di uomini e donne, eccitati dalla raccolta dei “gravidi” grappoli d’uva, ci conduce, seguendo la lunga teoria di “cofinara”, guidati dal suono orgiastico del “ciaramiddaru”, al palmento, dove, il ritmato pigiare degli uomini scalzi sugli acini, libererà l’aspro mosto che tutto tinge, infine riversato, “ca quartara du parmentu”, col “pista en butta” o dopo circa 24 ore di fermentazione, nelle otri di pelle, di memoria omerica, per essere sollecitamente conservato “al buio delle botti”, perché si compia l’atteso “miracolo” della “trasmutazione” del mosto in vino, spillato nel giorno di san Martino, “quannu ogni mustu è vinu”.
E così, il ciclo della vite, dall’uva al vino, fuori dal tempo e dallo spazio, si erge come esemplare metafora della vita, e del suo perenne dibattersi fra il bene e il male, che è insito e costituivo della Natura e del suo infinito caleidoscopio di vita, e del suo perenne morire e rinascere, dentro un mistero denso di stupore e meraviglia. “Nuiatri cristiani semu nasciuti sarbaggi e cci nnistaru quannu ci fìciru u bbattiscimu”, recita un verso di tradizione ricolmo di verità, offrendoci una profonda riflessione sulla straordinaria avventura dell’uomo sulla terra, da sempre drammaticamente contesa fra la luce della verità e le tenebre della morte.
A vendemmiare fra le “rasule” dei peloritani
Cui zappari sapi, zappassi la so vigna./ Cui voli aviri bonu mustu,/Zappassi la viti ad agustu. Attingiamo dal grande Giuseppe Pitrè, bardo e cantore della millenaria civiltà contadina siciliana, di cui ricorre quest’anno il centenario della morte, pochi ma preziosi versi di saggezza popolare, per entrare sulla scena di una vendemmia peloritana di tanti anni fa, così come emerge dal racconto di vita vissuta dal caro e compianto Bruno Villari, appassionato studioso di storia locale e “fervido” garibaldino.
Iniziamo, dunque, questo viaggio nella memoria, risalendo la Valle di san Filippo, quello dei quaranta mulini a ruota verticale, fino al Casale “Superiore”, dalla storia millenaria. E su, in alto, quasi in bilico, sugli scoscesi pendii, ecco i “cofinara”, i portatori d’uva. Uomini forti e resistenti alla fatica, che vanno su e giù per tutto il giorno dai vigneti ai palmenti a fondo valle in paese, con il loro afrodisiaco carico d’uva, oltre 80/90 kg,, negli enormi “cofani”, disegnando così un profilo straordinario di homo faber in armonia con l’aspro e cangiante paesaggio peloritano.
«Spesso – scrive Villari, originario proprio di san Filippo Superiore – la lunga fila di “cofinara” che si snodava lungo le sottili strisce dei viottoli tracciati a festoni sul costone scosceso delle colline, era preceduta da uno zampognaro, che scandiva il ritmo di marcia dei portatori». E che spesso aggiungiamo noi, svolgendo una precisa funzione di compensazione alla fatica e dunque fornendo “energia nervosa” agli uomini con il suono, sosteneva il canto a più voci, detto, “a cofinara”, su testi lirico-amorosi. «Durante il percorso si sostava dove si potevano appoggiare i “cofani” o ci fosse una penna d’acqua per spegnere l’arsura e detergere la nuca tormentata dallo strofinìo della “baddedda” (il caratteristico basto umano, imbottito di paglia e indossato come un copricapo e appoggiato come un materassino sulla punta della schiena che consentiva, ad alcuni eccezionalmente forti, di trasportare anche due o più cofani)». E tra i portatori più valenti e poderosi fisicamente, si ricorda il mitico Peppinu Trenu. Altre gesta memorabili di portentosi “confinari”, come quelle di un giovane Sostene Puglisi, pastore-suonatore di Mili San Pietro, oggi ottantenne, si ricordano in altre contrade peloritane, come a Tipoldo, qualche valle più a sud del casale di Mezzogiorno di san Filippo Superiore.
La “ciurma” dei “cofinara”, formata abitualmente da 10/12 uomini, si «fermava di consueto o nella spianata di confluenza del Fiumarello col torrente, o davanti al palmento, dove ci fosse un fazzoletto di terra, formava un cerchio e, al suono della zampogna inscenava un balletto propiziatorio, che era insieme un’esibizione di resistenza fisica, credibile soltanto per chi ne è stato testimone. E, incredibile nell’incredibile, alcuni di loro, trovavano perfino il fiato per cantare stornelli e mottetti improvvisati. Molto speciali erano i fratelli Vinci, Paolo, Peppino, Liu e Jacopo, che suonava alla grande la zampogna». A documentare questa scena che ci riporta dritti dritti agli antichi baccanali, un raro documento filmato del 1950, girato proprio a san Filippo, dove si riconoscono fra gli altri Santo Mangano alla zampogna, e Liu Vinci nel ruolo di “cofinara” danzatore.
«Nel palmento – prosegue la vivida cronaca di Villari – dove si versavano i cofani ricolmi, gruppi di ragazzi volontari, i piedi nudi e i calzoni rimboccati fino alle cosce, si divertivano a pestare aritmicamente sui mucchi d’uva. Poco dopo un fiotto di mosto denso e scuro si scaricava nella vasca sottostante insieme a raspi e manciate di chicchi. I vicoli del villaggio odoravano di mosto e dolciastro. I muri delle case si coloravano di rosa e anche le persone portavano sui calzoni e sulle camicie le inconfondibili macchie di mosto. Le mosche infestavano i palmenti e segnavano il tracciato dove passavano i “cofinara” e gli “utrara” che trasportavano il mosto dal palmento alle cantine in contenitori di pelle di capra».
La festa della vendemmia si rinnovava tutti i giorni per oltre un mese, fra settembre e ottobre, e coinvolgeva tutto il paese. Le donne e i bambini venivano impegnati nella raccolta dell’uva che era una festa nella festa. Si partiva la mattina molto presto, in maniera che la raccolta cominciasse alle prime luci. A sera, quando si tornava al villaggio stanchi e col fardello di una cesta piena d’uva, si pensava solo alla cena successiva. Una cena a base di maccheroni arrotolati fatti in casa e lasciati asciugare come i panni sui fili distesi in tutti gli angoli della casa. Maccheroni al sugo, naturalmente, un sugo di concentrato di pomodoro, con l’aggiunta di tritato e cotenne di maiale. A tavola si era in tanti, ma gli occhi erano puntati sui “cofinara” a cui spettava una “spillunga” stracolma, equivalente ad almeno sei porzioni medie. Si mangiava, si parlava e si beveva tanto. Dopo i maccheroni si passava alla salsiccia, al castrato, al pecorino piccante di Cesarò, alle olive salate, alla “suppissata”, e ancora vino rosso, pesante, spaccabudella. Quando gli uomini, a sera tardi, si alzavano sazi e barcollanti, e brindavano in versi in onore della padrona che aveva preparato, e se ne andavano cantando e tenendosi sottobraccio, voleva dire che erano soddisfatti e lo avrebbero detto in giro a onore e vanto dell’anfitrione. E soprattutto, sarebbero ritornati volentieri l’anno successivo. Cu zappa, zappa a so’ vigna,/ Cu bona a zappa, bona vinnigna!
Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).
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