di Michela Mercuri
Il fronte del jihad, nella storia recente del Mediterraneo, sembra costantemente ridefinirsi attraverso nuove direttrici. Da alcuni Stati del Nord Africa verso altri teatri, come quello afghano e iracheno – e più di recente siriano – e da qui, di nuovo, verso i Paesi di “partenza”. Il fenomeno del radicalismo, con le sue evoluzioni e i suoi rischi, deve essere interpretato muovendo dai territori di origine, tenendo in considerazione il ruolo dell’Islam e il suo complesso prisma di interrelazioni con i vari regimi che si sono succeduti al potere.
L’affermarsi di sistemi dittatoriali in epoca post coloniale, con tutto quello che ne è conseguito in termini sociali, politici ed economici, ha condotto alla graduale marginalizzazione dell’Islam politico e, di conseguenza, anche di fette crescenti della popolazione, in particolare di quella giovanile. Alcuni hanno, così, trovato nei movimenti del fondamentalismo l’amalgama ideale su cui rielaborare la propria identità. In questo contesto le rivolte arabe, con le conseguenti crisi di legittimità interna, possono essere considerate fattori di ulteriore stimolo verso queste manifestazioni, dimostrando come i partiti islamisti possono consolidarsi quale risposta al fondamentalismo solo quando riescono a rappresentare un argine alle spinte più radicali e, soprattutto, a soddisfare i bisogni, in costante mutamento, della popolazione.
Il caso della Tunsia è emblematico. Qui, come in altri Paesi, come ad esempio Egitto e Libia, l’Islam politico ha subito una costante marginalizzazione. I vari regimi che si sono succeduti al potere non hanno però saputo offrire un’alternativa capace di incanalare il consenso sociale. Una delle conseguenze è stata l’affermazione dei movimenti radicali. Nonostante il Paese sia considerato il solo esperimento di successo (quantomeno parziale) delle rivolte arabe, permangono numerose criticità, legate alla minaccia fondamentalista, che l’impegno dei governi che si sono succeduti al potere non è riuscito ad arginare. Comprenderne le motivazioni e le possibili evoluzioni può aiutare a ipotizzare possibili soluzioni, anche per gli altri Paesei che stanno vivendo instabilità simili.
Repressione dell’Islam politico ed emersione del radicalismo nella Tunisia contem- poranea
Per capire l’evoluzione dell’Islam e delle sue forme più radicali in Tunisia è necessario fare un passo indietro nella storia del Paese, per lo meno a partire dai tentativi di modernizzazione impressi da Bourguiba fin dal 1957. Il leader del post indipendenza tunisina, non appena salito al potere, nella sua “riforma modernizzatrice”, operò un’aspra critica nei confronti degli ulema [1], accusati di non avere compreso lo spirito dell’Islam e l’interpretazione del Corano, alla luce delle nuove necessità che modernità e progresso avevano apportato. Inizia così la “sacra lotta” del primo Presidente tunisino al diffuso sottosviluppo presente nel Paese, una missione che egli stesso considera come puro jihad. Bourguiba si autodefinisce “leader spirituale dei musulmani” [2], le cui funzioni e responsabilità, come Capo dello Stato, gli permettevano di interpretare la legge religiosa. Partendo da questa concezione del potere, impose la superiorità dello Stato sulla religione e attuò riforme radicali alle istituzioni islamiche tradizionali, in numerosi ambiti del “vivere sociale”. Così volle modernizzare la società tunisina che era, a suo dire, sofferente per gli sterili dogmi imposti dalle incompetenti istituzioni religiose tradizionali. Un percorso simile a quanto accaduto in Libia durante il quarantennio gheddafiano e, prima ancora, nell’Egitto di Nasser. Tali idee portarono Bourguiba a gesti a dir poco eclatanti, come quando, in un giorno di Ramadan, nel marzo del 1964, si presentò in televisione bevendo un bicchiere di aranciata, in diretta, davanti ai telespettatori allibiti. Non poteva tollerare, disse, che l’intera economia del Paese sonnecchiasse per un mese intero perchè i lavoratori digiunavano e non avevano la forza di lavorare.
La “rivoluzione culturale”tunisina del post indipendenza ha prodotto una generazione di giovani insoddisfatti che, non trovando validi riferimenti islamici all’interno del Paese, decidevano di “emigrare” per poi rientrare in patria e perseguire opere di proselitismo. Tra questi, Rachid Ghannouchi, futuro leader del partito al-Nahda e “uomo forte” nella Tunisia post rivolte arabe.
Negli anni il fenomeno acquisì via via maggior rilievo,in conseguenza del fallimento della politica del Presidente, che non aveva portato i risultati promessi: l’indipendenza economica, l’uguaglianza sociale e la creazione di un nuovo sistema di valori. Solo l’Islam rimaneva come richiamo culturale dal quale trarre quei simboli che avrebbero potuto rispondere alla duplice questione dell’identità collettiva e dell’ineguaglianza sociale [3]. Forti di questo “vuoto”, all’inizio degli anni Settanta, Rashid Ghannushi, Abdelfattah Mourou e Fadhel Beldi decisero di fondare l’embrione del Mouvement de la Tendance Islamique (MTI). Il Movimento, nel corso del tempo, dimostrò una straordinaria capacità di mobilitazione intorno al progetto di profonda trasformazione della società tunisina, in conformità ai principi puri dell’Islam. La crescita di consensi fu vista dal Presidente come una ferale minaccia al suo potere e, soprattutto, al progetto di quella Tunisia laica e moderna che fin dall’indipendenza aveva difeso. Per questo, la repressione contro coloro che definiva dei “fanatici barbuti” fu severa. Vennero via via arrestati i dirigenti del Movimento e vietata la legalizzazione della stampa e delle organizzazioni islamiste. Così, potremmo dire, si conclude ogni rapporto tra i movimenti islamisti e la Tunisia di Bourguiba.
Le cose sembravano poter cambiare qualche anno più tardi, nel 1987, con il golpe medicale che portò al potere Ben Alì. Il nuovo Presidente tunisino si sforzò di presentarsi quale salvatore di un Paese allo sbando, guidato da un uomo che lo aveva condotto verso l’indipendenza ma che, nel corso degli anni, si era arroccato su posizioni anacronistiche, precludendo alla popolazione le possibilità di partecipazione politica [4]. Ben Ali annunciò, almeno sulla carta, di voler ripristinare i principi democratici [5] con un programma di changement. Le elezioni dell’aprile del 1989, confermarono la vittoria del suo partito, il Rassemblement constitutionnel démocratique (RCD), che ottenne più delll’80% dei voti, ma risultò evidente la crescita di consensi nei confronti del Movimento islamico, che venne così consacrato come la sola forza di opposizione al nuovo Presidente.
Davanti alla minaccia di un contro-potere di matrice islamista, Ben Alì utilizzò il consenso ottenuto nelle consultazioni per giustificare l’irrigidimento nei confronti dei “concorrenti” che, nei mesi successivi, accentuarono il tono dello scontro, con l’organizzazione di manifestazioni ela recriminazione di ulteriori rivendicazioni. Giocando abilmente sulla dialettica del ritorno alla violenza islamista, il Presidente tunisino aumentò la morsa repressive,decapitando il Movimento nell’arco di pochi anni. Ciò ha inevitabilmente contribuito al radicamento di gruppi estremistici. In particolare, va menzionato il Gruppo Combattente Tunisino (GCT) che è stato uno degli attori principali della stagione di attentati a cavallo della guerra civile algerina, per diventare poi una delle anime alla base della formazione di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), in cui la presenza tunisina è sempre stata seconda solo a quella degli algerini.
Seppure represso dalle autorità tunisine, il GCT ha continuatol’opera di reclutamento e proselitismo, soprattutto nelle carceri del Paese e i suoi leader sono stati i più attivi nel territorio dopo la rivolta del 2011. Solo per fare un esempio, uno dei suoi fondatori, Ben Hassine, tornato in patria dall’esilio londinese durante le proteste di piazza, è stato una delle “anime” di Ansar al-Sharia in Tunisia. Detta in altri termini, il “lavoro” di Ben Alì è stato pensato nell’ottica di una lotta contro gli islamisti integralisti. Questa lotta è ben presto degenerata in una caccia alle strege, con arresti arbitrari, torture e prigionie in condizioni inimmaginabili. Con il pretesto di limitare il pericolo islamista, il rais ha esercitato il potere in modo dittatoriale, diffondendo la paura nel Paese, vietando la stampa straniera e perseguendo gli oppositori.
La crescita economica e la stabilità interna, ottenuta dalla repressione, hanno fatto di Ben Alì il baluardo contro il fondamentalismo islamico, un uomo indispensabile per l’Occidente. E così, per più di due decenni, egli, sotto lo sguardo benevolo del mondo, ha sottoposto il suo Paese a una dittatura in cui il cittadino aveva ben pochi diritti e la Tunisia era poco più che una “faccenda privata”. Tutto ciò ha contribuito ad un forte radicamento del jihadismo nella società, capace di infiltrarsi, dopo la caduta del rais, nelle fragili maglie della sicurezza del Paese, soprattutto nelle periferie in cui povertà e disoccupazione hanno spinto molti giovani verso i movimenti più radicali.
Le rivolte del 2010. Il ritorno dell’Islam politico e i rischi di derive jihadiste
Il 23 ottobre del 2011, circa dieci mesi dopo lo scoppio delle rivolte che hanno defenestrato Ben Alì, la popolazione tunisina si è recata in massa alle urne, dimostrando una partecipazione democratica esemplare. Il partito islamico al-Nahda [6], grazie alla sua grande popolarità, alla capillare diffusione nel Paese e al fatto di essere la forza maggiormente organizzata, come la Fratellanza Musulmana in Egitto, ha vinto le prime elezioni libere tunisine. Proprio questo fattore, però, è stato alla base di un aspro confronto interno tra coloro che propendevano per un atteggiamento più “politico”, che in qualche modo si ricollegasse al partito islamico di governo, e i miliziani che invece hanno continuato ad appoggiare la lotta jihadista tout court. Anche da questa frattura è nato il movimento Ansar al-Sharia, nella sua declinazione tunisina, che è stato fin da subito il punto di incontro tra la vecchia generazione di jihadisti locali e i giovani radicalizzati delle periferie di Tunisi e dell’entroterra rurale del Paese [7]. Ansar al-Sharia si è subito contraddistinto come un movimento salafita dal duplice volto. Da una parte l’anima combattente, che ha preso di mira le istituzioni tunisine e ha cercato di ostacolare il processo di ricostruzione istituzionale al quale aveva preso parte al- Nahda [8]. Dall’altra, l’anima più sociale, che ha interpretato il jihad, non quale lotta armata, ma come incremento del proselitismo, attraverso il supporto sociale alla popolazione delle aree più disagiate.
Ansar al- Sharia è riuscita, per certi versi, a sostituirsi allo Stato centrale quale erogatore di servizi assistenziali, dall’educazione alla collocazione lavorativa, all’assistenza sanitaria, favorendo, così, l’identificazione di molti giovani nell’organizzazione e non più nello Stato centrale. Inoltre, grazie all’esperienza della propria leadership, si è subito inserita nel network internazionale del jihadismo. La roccaforte nel Paese è stata individuata nei pressi del Jebel Chaambi, nel governatorato di Kasserine, al confine con l’Algeria, teatro di vari attacchi terroristici, come quello del febbraio 2015, in cui sono state uccise quattro guardie di frontiera tunisine. Ansar al-Sharia, ma anche altre realtà jihadiste, utilizzano quest’area come santuario e corridoio per il traffico di armi e il passaggio di miliziani dalla Libia all’Algeria, fino al nord del Mali [9], confermando così i legami con altre organizzazioni dell’area.
Lo Stato islamico e il “terrorismo di ritorno”
La progressiva penetrazione dello Stato islamico in Tunisia ha avuto inizio nel 2013. Il suo sviluppo, negli anni successivi, è legato ad alcuni fattori tra cui l’indebolimento di Ansar al-Sharia, il ritorno dei foreign fighters dai teatri levantini e la crescita dell’instabilità in Libia, con l’affermazione di Isis a Derna e a Sirte nel 2014.
Per quanto riguarda il primo punto, la massiccia campagna anti terrorismo del governo di Tunisi, specie dopo gli attentati a danno dei turisti nel Paese, è riuscita a ridurre la presenza territoriale di Ansar al-Sharia, causando una frammentazione all’interno della sua leadership. L’organizzazione ha cercato, dunque, di elaborare una efficace strategia di rilancio, tentando la “carta Isis”. A riprova di questo avvicinamento, basti ricordare la dinamica della morte di Ben Hassine, ucciso proprio mentre era in Libia, probabilmente per stringere alleanze con le strutture locali dello Stato islamico.
Ad alimentare la corrente filo-Isis sono stati, poi, anche i foreign fighters rientrati nel Paese a partire dalla fine del 2012. Questi hanno avuto un ruolo rilevante nell’economia del jihadismo tunisino. Grazie alla loro esperienza nei campi di battaglia della Siria e dell’Iraq, hanno contribuito ad alzare il livello “qualitativo”del radicalismo ideologico tunisino, favorendone la dimensione internazionale ed anti-occidentale. Oltre a ciò, le accresciute capacità operative e logistiche, hanno favorito l’innalzamento dell’expertise nelle tattiche di guerriglia e di conduzione degli attentati.
Infine, occorre sottolineare come i foreign fighters abbiano funto da trait d’union tra il network di Isis in Tunisia e quello in Libia. Si tratta di un collegamento nato, probabilmente, sui campi di battaglia mediorientali, dove i combattenti stranieri erano integrati in specifiche brigate ad essi dedicate. Una volta rientrati nelle rispettive terre d’origine, i miliziani dei due Paesi sono rimasti in contatto, consolidando le proprie attività [10]. Da questo punto di vista, va ricordato come l’instabilità libica – dovuta alla mancanza di un governo centrale, alla frammentazione del Paese, al peso delle milizie nel contesto locale e all’assenza di un controllo capillare del territorio – abbia permesso ai miliziani tunisini di trovare rifugio in Libia per sfuggire alla repressione delle autorità di Tunisi e per proseguire, così, le attività addestrative. Il rafforzamento di Isis a Derna e a Sirte – che ha avuto la sua massima espressione nel 2014 – ha offerto ai miliziani tunisini un ampio retroterra logistico ed addestrativo per il raffinamento delle proprie capacità.
Per comprendere l’ influenza che il conflitto libico ha negli affari interni del Paese, basta analizzare l’intensificarsi degli attentati del triennio 2013-2015, ossia dopo il progressivo ritorno dei combattenti stranieri dal Medio Oriente e dopo l’intensificazione dei contatti con la rete libica del Califfato [11]. In questo periodo, infatti, hanno avuto luogo gli omicidi dei due leader socialisti, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, attribuiti a due militanti di Ansar al-Sharia in contatto con Isis, l’attacco al Museo del Bardo di Tunisi, del 18 marzo 2015, costato la vita a 24 persone e l’assalto al Riu Imperial Marhaba Hotel di Port el-Kantaoui, del 26 giugno 2015, che ha causato la morte di 38 turisti stranieri. Tutti i terroristi avevano ricevuto addestramento a Derna.
Conclusioni. Il post rivolte arabe. Tra speranze e rischi di instabilità
La Tunisia è considerata da molti l’unico Paese in cui, dopo la primavera araba, è stata avviata una transizione politica di successo. Nonostante ciò, ad oggi, il bilancio del percorso post-autocratico appare contraddittorio e denso di incognite. Vanno evidenziati alcuni elementi incoraggianti. Il popolo e la classe politica tunisina hanno dimostrato una grande maturità nell’accettazione delle procedure democratiche. Nel gennaio 2014 l’Assemblea costituente ha approvato con un’amplissima maggioranza un testo costituzionale ottenuto grazie a un’effettiva volontà da parte di tutti gli attori politici di giungere ad un compromesso. Dopo le elezioni dell’ottobre 2014, in un momento di estrema difficoltà economica e securitaria, i principali partiti nazionali, gli islamisti moderati di al-Nahda e i laici di Nidaa Tounes, hanno saputo accantonare le divisioni e le diffidenze per dare vita a una politica di “larghe intese”, necessaria per rispondere ai problemi del Paese.
Il ruolo attivo dei sindacati e delle associazioni di categoria ha permesso una certa rappresentanza delle istanze popolari, favorendo la partecipazione della società civile al processo di transizione politica. D’altro canto, l’establishment emerso all’indomani della rivoluzione è risultato inadeguato nell’affrontare le maggiori criticità che affliggono la società tunisina e in particolare la stagnazione economica – con i conseguenti problemi legati alla disoccupazione, specie quella giovanile – e la proliferazione di fenomeni di matrice islamista radicale. Gli attacchi al museo del Bardo di Tunisi e l’attentato di Sousse hanno spazzato via l’illusione del “miracolo tunisino” post rivolte arabe, riportando alla luce i mai sopiti problemi di sicurezza nel Paese.
Da questo punto di vista la Tunisia deve preoccuparsi soprattutto del “terrorismo di ritorno”, laddove il Paese dei gelsomini più di ogni altro ha esportato foreign fighters sui fronti di Iraq e Siria. Secondo fonti interne, sarebbero quasi 5.000 i tunisini partiti per combattere il jihad all’estero; cifra che rende il Paese quello con il più alto numero di combattenti stranieri, sia in termini assoluti che in proporzione alla popolazione. Alla base di tale radicalizzazione c’è anche il sentimento di marginalizzazione da parte di molti giovani, che i governi che si sono succeduti alla guida del Paese non hanno saputo arginare. I combattenti, arruolatisi in molti casi anche a causa delle condizioni di fragilità economica e sociale, che permangono nel Paese a più di cinque anni dalle rivolte, potrebbero tornare in patria da militanti radicalizzati edesperti combattenti, con tutti i rischi che ne potrebbero derivare [12]. Nel 2015, secondo stime nazionali, erano circa 600 i miliziani tornati in Tunisia da diversi fronti. Il problema si fa ancora più pressante alla luce dell’azione intrapresa dalle milizie di Misurata, fedeli al Governo di Accordo Nazionale libico, contro la roccaforte dello Stato islamico a Sirte. Secondo il Ministro della difesa tunisino, Farhat Horchani, sarebbero, infatti, al momento, circa un migliaio i tunisini combattenti inseriti nelle fila dello Stato islamico, ora in fuga, che potrebbero decidere di fare ritorno in Tunisia. Se da un lato, dunque, è plausibile ipotizzare che l’indebolimento del Califfato in Libia potrebbe comportare anche un allentamento dei legami con gli affiliati tunisini, dall’altro vi è il rischio che molti combattenti possano rientrare nel Paese.
In sintesi, la Tunisia, ritenuta da molti “l’eccezione felice” delle rivolte arabe, pur continuando a fare progressi nell’ambito del suo processo di transizione politica, dovrà lavorare senza sosta per una maggiore stabilizzazione e una concreta ripresa economica, precondizioni indispensabili per tentare di arginare la fascinazione jihadista, soprattutto nei giovani delle periferie. Nel contempo dovrà mantenere costantemente aperto il dialogo con le rappresentanze dell’Islam politico e con le istanze della società civile. In questo contesto, però, la fragile Tunisia, con i suoi porosi confini, dovrà fare molta attenzione a ciò che accadrà nei Paesi vicini, Libia in primis [13]. Fintanto che la Libia resterà un failed State, sarà pressochè impossibile per il governo tunisino attuare una politica comune con le autorità libiche, necessaria per arginare in maniera concreta il fenomeno del terrorismo, ivi compreso quello “di ritorno”. Nel frattempo i vertici della sicurezza del Paese dovranno accontentarsi di misure temporanee come, ad esempio, cercare di rafforzare la sorveglianza alle frontiere e proseguire con le misure di emergenza, a tutto detrimento della stabilità interna.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
[1] I depositari e tutori della legge religiosa.
[2] Discorso di Habib Bourguiba, 19 aprile 1964, citato in, D. Abassi, Entre Bourguiba et Hannibal. Identité Tunisienne et Histoire depuis l’indépendance, Karthala Editions, Paris, 2005: 30.
[3] N. Salem, Habib Bourguiba, Islam and the creation of Tunisia, Croom Helm, London, 1984.
[4] C. Roggero, “Rivolte e rivoluzioni nella storia contemporanea tunisina”, in M. Mercuri e S. M. Torelli (a cura di), La Primavera araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente, Vita e Pensiero, Milano, 2012: 33-57.
[5] Legge sulla stampa, sui partiti, concessione della grazia ai detenuti politici, riforma del partito, sottomissione dell’accesso alla presidenza della Repubblica a elezioni quinquennali.
[6] Al Nahda – nato dale ceneri del MTI – vince le prime elezioni libere tunisine. Il suo leader Rashid Ghannouchi, dopo le rivolte del 2011, è rientrato nella scena politica tunisina, dopo un esilio politico imposto dal vecchio regime e durato venti anni.
[7] A. Wolf, “Tunisia: Signs if Domestic Radicalization Post-Revolution”, in Combating Terrorism Centre, 14 gennaio 2013.
[8] Questo atteggiamento, a detta di alcuni, è stato condiviso anche dalla parte più oltranzista dello stesso al- Nahda, i cui rapporti con Ansar al-Sharia non sono mai stati limpidi. Vedi: International Crisis Group (ICG), “Tunisie: Violences et défi salafiste”, in Rapport Moyen-Orient/Afrique du Nord,n.137, 13 febbraio 2013.
[9] P. Batacchi, L’attacco di Tunisi: le dinamiche, Rivista Italiana di Difesa, 19 marzo 2015.
[10] M. Di Liddo,Il fronte jihadista in Tunisia, Centro Studi Internazionali (CeSI), n. 58, marzo 2016.
[11] A. Falcioni, Tunisia: Genesi e sviluppo del fenomeno terroristico, in: www.ifiadvisory.com.
[12] S. M. Torelli, La transizione politica in Tunisia: opportunità e sfide, ISPI, Osservatorio di Politica internazionale, n. 54, gennaio 2015.
[13] P. Markey e T. Amara, Homegrown jihadists with Libya ties target Tunisia’s democracy in Reuters UK, july 7, 2015.
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Michela Mercuri, insegna Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata dal 2008 ed è editorialista per alcuni quotidiani nazionali. Ha partecipato a numerose pubblicazioni collettanee per Etas e Egea e presso riviste specializzate. Di recente ha curato, con Stefano Maria Torelli, La primavera araba. Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente, edito da Vita e Pensiero.
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