di Stefano Montes
Sembrerebbe che i cinesi se la ridano da matti quando sentono che noi occidentali portiamo a passeggio i cani, li teniamo al guinzaglio, gli facciamo fare il bisognino, raccogliamo (talvolta) il risultato delle loro urgenze fisiologiche, ci lasciamo strattonare con pazienza o li rimbrottiamo amorevolmente per la loro fretta smaniosa: i cani sono cani e non hanno bisogno della nostra sollecitudine e cura – sembrerebbero pensare i cinesi – e sono, semmai, buoni da mangiare. “Che carne prelibata!”, direbbero, privi di titubanza.
Se ci proiettiamo dall’altra parte del mondo, nella giungla amazzonica, veniamo alle prese con gli achuar che sembrerebbero, invece, attribuire una forma di interiorità agli animali mentre le loro donne, ancor di più, sembrerebbero trattare le piante come fossero dei bambini; detto questo, gli achuar non si sognerebbero mai di dover proteggere in prima persona gli animali. “Un animale si protegge da sé e non ha certo bisogno di un qualche attivista o ecologista!”, direbbero. Piuttosto, sostengo io, l’animale gli achuar se lo mangiano e poi gli dedicano un rituale al fine di evitare la ‘collera’ del suo spirito vendicativo. “Che carne prelibata, ma facciamo attenzione alle rappresaglie, mettiamo avanti il rispetto ritualizzato per metterci al riparo!”, affermerebbero gli achuar.
Insomma, per essere breve, i modi di stare al mondo di alcuni non sono di certo quelli di altri; le ecologie degli uni non sono indubbiamente quelle degli altri (Descola 2011). “Ma è sempre necessario andare così lontano, in posti esotici?”, direbbero i miei studenti. “Ebbene, non sempre, anche se i va-e-vieni, ivi compreso quelli d’ordine metaforico, sono talvolta illuminanti”, ribadisco io, come al solito. Accontentiamoli comunque. Rimango allora, a titolo di esempio, nella prossimità della famiglia (quella mia), rimango nel mondo occidentale (quello degli americani): i miei figli erano stupiti di vedere, questa estate, gli scoiattoli scorazzare per New York senza attirare l’incredulità dei passanti; i miei figli, da bravi italiani con un vissuto cittadino, sarebbero rimasti ore ed ore ad osservarli a bocca aperta, a cercare di attirarli e accarezzarli, visto che li hanno da sempre visti in televisione o in gabbia, ma mai in ‘piena libertà’, soprattutto in uno spazio urbano, verticalizzato e pesantemente onnipresente come quello di un’imponente metropoli. “Papà, che bello vedere gli scoiattoli in libertà!”, mi ha detto il piccolo. E io ho pensato senza osare pronunciare parola, per non fare il guastafeste: “ci sono tante forme di libertà e non so bene se questa basti agli scoiattoli, ma è pur sempre meglio che stare in gabbia, ed è vero che ormai si sono abituati a vivere in città”.
Anche in natura esistono gli automatismi (e io, parlando di abitudine, pensavo a me stesso, instaurando una strana comunità di sentire con gli scoiattoli). Ed è altresì un automatismo vedere gli americani passeggiare incuranti degli scoiattoli. E lo diverrebbe, un automatismo, forse pure per i miei figli, se vivessimo a New York. Altra reazione suscitano invece su di loro i gatti, i quali, a bizzeffe per le strade di Palermo, sono parte integrante del paesaggio urbano, ‘animandolo’ giorno e notte, con i loro miagolii e le loro pose incantatrici. È un problema di automatismi, di distanza straniante e prossimità coinvolgente. E allora insisto, per differenze, e rimango ancora un po’ in America. Mio cugino, italoamericano residente a New York, da piccolino si stupì, all’epoca, di sapere che hen (la gallina che sgambetta) e chicken (il pollo che si mangia) erano in buona sostanza la stessa cosa: si era reso così conto, con meraviglia paralizzante, che mangiava tutto sommato l’animale che sgambettava, debitamente ucciso, cucinato, servito a tavola. “Gli inganni della lingua!”, si dirà. È pur vero che dall’animale che sgambetta all’animale ammazzato e spennato che mangiamo nel piatto – magari con coltello e forchetta per mantenere una qualche distanza – c’è tutto un processo, sovente implicitamente ritualizzato, che spesso lo rende commestibile, anche simbolicamente, e che la lingua tende giustamente a sottolineare con le sue discretizzazioni soltanto in apparenza ingannevoli.
Prendersi cura degli altri (umani e non-umani, insetti, piante e persino oggetti visti come animati), proteggerli o ucciderli, accarezzarli o mangiarli, dedicare loro una poesia o metterli in gabbia, significa intrattenere con loro relazioni di un certo tipo che, nell’insieme, ci situano all’interno (o all’esterno, se non lo condividiamo o veniamo da altrove) di un sistema di pensiero e di vita complesso e pluri-articolato che non è forse ben catturato da espressioni (pur utili e ricorrenti oggi) quali multinaturalismo e multiculturalismo.
Per rendersene conto, per rendersi conto delle differenze culturali, apprezzarle pure, se possibile, oppure per sminuire le nostre categorie – sovente ciecamente accettate, in modo stereotipato – è sempre efficace applicare uno sguardo da vicino e da lontano ai nostri (e altrui) modi di vivere e modi pensare: compararli, inquadrarli nel loro insieme complesso, avvicinarsi per coglierne i dettagli con una sorta di lente di ingrandimento e ritornare a compararli con maggior capacità introspettiva, esplicativa. Questo ‘andirivieni epistemologico’ è un valido strumento di smussamento di biechi autocentramenti e di esasperati etnocentrismi. Si può senz’altro dire che non «sarebbe possibile nessuna conoscenza se non si distinguessero i due momenti [da vicino e da lontano]; ma l’originalità dell’indagine etnografica consiste in questo va-e-vieni incessante» (Lévi-Strauss 1988: 214). Mi piace molto questa idea di Lévi-Strauss secondo cui prossimità e distanza vanno distinte topologicamente ai fini conoscitivi; mi piace, ancora meglio, il principio implicito che Lévi-Strauss propone secondo cui conta più il dinamismo che l’osservazione statica. Naturalmente, almeno per quanto mi riguarda, il va-e-vieni non ha a che vedere – soltanto – con uno spostamento fisico in un luogo lontano ed esotico, ma, soprattutto, con l’attitudine dinamica alla comparazione, con il duplice movimento gnoseologico dato dal ‘trasporto’ del proprio sguardo indagatore nella prossimità dell’oggetto studiato (che amplifica i dettagli a scapito dell’insieme) e poi nella lontananza da esso (che consente invece, in modo complementare, la saisie della visione d’insieme a scapito del dettaglio).
Non sono certo che questo mi renda più incline a mangiare i miei cari, per darne degna sepoltura nel mio ventre, come facevano i guayaki (Clastres 1980); non sono nemmeno certo che mi renda più propenso a dedicare spassionati elogi poetici ai buoi come facevano i nuer con i loro beneamati animali (Evans-Pritchard 1975); non mi metterei neanche, spinto dalla rabbia, a cacciare teste come erano usi fare gli Ilongot (Rosaldo 2001). Sicuramente, mi aiuta a capire quanto si riposizionino le frontiere dibattute tra nature e culture diverse, quanto spazio epistemologico guadagnino – giuste o sbagliate che siano – altre categorie, più utilizzate oggi, quali interiorità e corporeità oppure oggettualità e intersoggettività. Un fatto è comunque garantito per quanto mi riguarda: così facendo, passeggiando tra concetti e digressioni, non mi sento il centro del mondo, non mi sento l’asse conoscitivo da cui si dipanerebbe una riflessione, poiché, del tutto piacevolmente, in questo modo, «il mio lavoro si fa pensiero in me a mia insaputa»” (Lévi-Strauss 1980: 16).
Mi decentro allora e sono più consapevole, propongo digressioni e mi decentro. Essendo consapevole della vastità della questione riguardante l’alimentazione e lo sguardo sugli animali, intendo allora, più modestamente, parlarne obliquamente, facendo qui un breve elogio dello sguardo da vicino e da lontano in un campo di primo acchito dissimile: le ragioni dell’adozione di una lingua o l’altra (il francese o il ceco) da parte di uno scrittore quale Milan Kundera. Che c’entra uno scrittore? Non si evade forse la questione? Il mio umor mutevole ha, in questo, la sua parte e lo ammetto: mi sono alzato oggi col piede sbagliato e prendo le cose al contrario. Ammetto pure, però, anticipandolo, che mi servo della digressione come strumento cognitivo e di analisi interculturale: me ne servo per mettere spassionatamente in atto un andirivieni epistemologico. Non prendo le cose per il verso giusto proprio per ritornarci con la dovuta distanza. Diciamo dunque che – oltre l’umor vario, il piede sbagliato, la modestia e la passione per la letteratura – sono spinto a occuparmi di Kundera anche perché desidero utilizzare il potere della digressione come strumento di migliore comprensione (ivi compreso la questione animale e la sua cura o meno da parte degli umani).
D’altronde, non è forse la digressione un potente mezzo di applicazione dello sguardo da lontano che, per l’appunto, dopo di ciò, si riavvicina al soggetto inizialmente posto, per meglio trarne conclusioni decentrandosi? Insomma nell’andare lontano (la questione della lingua in Kundera), capisco anche altro a me vicino ma più clandestino e controverso (prendersi cura degli animali o mangiarseli, che richiede in fondo anch’esso il posizionarsi di lingue e adesioni). L’andirivieni di cui parla Lévi-Strauss è secondo me un principio della conoscenza che trova nel potere della digressione una realizzazione esemplare anche per un’altra ragione: mette in rilievo il lavoro di chi si serve di pezzi e resti di una riflessione (e/o di una cultura) applicata a campi in apparenza diversi – qui l’adozione di una lingua e la cura degli animali – procedendo per bricolage più che per progetti, procedendo per composizione di un mosaico rivelatore più che per piani preliminari da rispettare ingegneristicamente. La lingua e la letteratura sembrano campi troppo lontani dalla cura degli animali? Tanto meglio, il bricolage conoscitivo sarà più efficace! D’altronde, lo stesso Lévi-Strauss ne fa, del bricolage, un principio estetico e linguistico, oltre che conoscitivo, in un’opera letteraria complessa, in apparenza disordinata, ma in sostanza rivoluzionaria e profonda quale la Ricerca di Proust: «Vi sono circostanze in cui bisogna lavorare con i ‘resti’ e i contrasti diventano più visibili. Alla fine del Tempo ritrovato, Proust paragona il proprio lavoro a quello di una sarta che confeziona una veste utilizzando pezzi già tagliati nella debita forma; o, se l’abito è troppo usato, lo rattoppa. Allo stesso modo, nel suo libro egli affianca e incolla tra loro frammenti […]» (Lévi-Strauss 1994: 10).
Io cosa faccio qui di più (o di meno) rispetto a quello che dice e fa Lévi-Strauss? Invece di applicare il principio del bricolage in versione più paradigmatica (per classi di opposizioni de-narattivizzate) lo metto in pratica attraverso la sintagmazione (sotto forma figurativa di digressione che avanza mettendo in opera linearità senza dimenticare le asperità, senza trascurare l’ordine sintattico comunque portatore di differenze). Sospendiamo quindi per qualche pagina l’Amazzonia, la Cina o l’America e rimaniamo in Europa, con Kundera e la sua scelta di andare in esilio in Francia e di continuare a scrivere in ceco e poi, d’un tratto, inspiegabilmente, in francese. Si tratta di una scelta di vita. Si tratta di lavorare con i resti. Si tratta di sospendere, procedere nella digressione, porre il quesito in forma negativa, in quanto difficoltà da risolvere: non è infatti semplice risalire alle ragioni per cui Milan Kundera ha incominciato a scrivere in francese dopo aver vissuto per anni in Francia e aver utilizzato il ceco come lingua letteraria, nei suoi romanzi. Si può avanzare la tesi secondo cui lo scrittore ceco, avendo abbandonato per motivi politici il Paese natale, ha dovuto adottare la lingua del Paese d’adozione. Inevitabile? Forse. Si può ipotizzare che la nuova vita in Francia, le acquisizioni linguistiche e le costrizioni di una nuova lingua abbiano meccanicamente, per automatismi vissuti, influito sul libero fluire del suo pensiero e sulla tecnica di scrittura: in definitiva, sarebbero stati i dispositivi della lingua in cui è stato costretto a esprimersi quotidianamente, il francese, ad aver scacciato l’attitudine naturale a comunicare in ceco, la lingua del suo passato e delle radici identitarie.
Nonostante queste ipotesi siano accettabili, si deve ammettere che il caso di Kundera è più complesso di quanto appena detto, se non altro dal punto di vista della sua storia di vita. E le storie di vita contano non poco in antropologia, danno rilievo e sostanza alle scelte in apparenza immotivate! Effettivamente, in fuga dal proprio Paese, invaso dallo straniero, egli è stato costretto a vivere altrove e ha dovuto rinunciare alla propria patria. Nel 1975, si stabilisce in Francia e lascia definitivamente la Cecoslovacchia. L’esilio è imposto dalle sue convinzioni e dalla situazione politica: «Quand les Russes ont occupé, en 1968, mon petit pays, tous mes livres ont été interdits et, d’un coup, je n’ai plus eu aucune possibilité légale de gagner ma vie» (Kundera 1981: 9). La scelta era estremamente limitata: l’esilio o la rinuncia alle proprie idee. Kundera ha optato per la libertà del pensiero e della scrittura, anche se ciò ha voluto dire abbandonare l’amato paese natale. Io avrei fatto lo stesso, non ci avrei pensato due volte. Il fatto strano è che, dopo la caduta del regime comunista, Kundera sceglierà di continuare a vivere in Francia. E, nonostante il rapporto con la madrepatria non sia dei più semplici, continuerà a scrivere in ceco. Kundera usa il francese per la scrittura saggistica (L’art du roman, 1986 et Les testaments trahis, 1993) e, solo con La Lenteur (1995), si apre all’uso del francese nella scrittura narrativa. Vive quindi in Francia per anni e continua a scrivere in ceco (prima di passare al francese); potrebbe tornare in Cecoslovacchia e rimane invece all’estero. Un enigma dunque!
Ci si può quindi chiedere legittimamente il perché di queste scelte apparentemente conflittuali che, almeno nel suo caso, non riguardano più, unicamente, un’opzione linguistica, ma coinvolgono tutti gli altri aspetti associati alla vita di un individuo, all’impegno politico, al credo sociale e perfino all’esplorazione, incessante e approfondita di tecniche di scrittura narrativa sempre più affinate, fondate sull’equilibrio di moduli semantici ‘riformulati’ e varianti tematiche ‘rielaborate’. A fronte di questo enigma esistenziale e artistico, un’altra ipotesi potrebbe farsi strada: la flessibilità della scrittura letteraria è difficile da acquisire in una lingua (o comunque nella seconda lingua), anche in autori comunemente considerati quasi bilingue come Kundera. E ciò spiegherebbe la ragioni per cui Kundera ha esitato per anni prima di passare al francese. Tuttavia, nonostante l’inconfutabile trasparenza dell’affermazione precedente, la lettura dei suoi testi orienta verso un’altra interpretazione, giustamente confortata dalla riflessione saggistica e dalle dichiarazioni rese dallo stesso Kundera.
La vita e le opere dello scrittore ceco sono inestricabilmente legate (intenzionalmente, sovente anche al di fuori della sua esplicita volontà) e insieme sono percorse da un senso di ‘distanza straniante’ che svolge un ruolo costitutivo nella sua scrittura e nelle sue scelte esistenziali: le cose e gli avvenimenti su cui l’autore porta il suo sguardo assumono i contorni della lucidità di chi vuole vedere dall’‘altrove’ e dall’‘alterità’. In questa prospettiva più antropologica, l’enigma viene meno e si rivela invece, con forza, l’intreccio esemplare che tesse la poetica congiuntamente essenziale ed esistenziale di Kundera. Vivere in Francia, pensando in francese (lingua del quotidiano, pur sempre seconda rispetto alla propria nascita) e scrivere in ceco (lingua della creazione artistica), ha significato per Kundera scegliere di mantenere uno ‘sguardo da lontano’ rispetto alla propria cultura d’origine e alle forme possibili dell’invenzione letteraria di partenza. Di converso, ritornare in Cecoslovacchia avrebbe voluto dire la perdita di questa distanza che gli consente una estrema lucidità, necessaria talvolta nell’espressione artistica originale.
Se questa ipotesi riguardante le ‘sguardo da lontano’ può sembrare eccessiva in un autore che non ha ostentato una particolare conoscenza antropologica delle differenti teorie culturali o, comunque, dello straniamento costitutivo dell’etnografo che indaga sulla propria e altrui società, si può ricorrere direttamente alla testimonianza dello scrittore ceco per valutarne la fondatezza. Kundera dichiarava ne Les testaments trahis che ciò che più desiderava acquisire era proprio uno sguardo ‘lucido’ e ‘disilluso’. La sua dichiarazione non può che colpire:
«Après 1948, pendant les années de la révolution communiste dans mon pays natal, j’ai compris le rôle éminent que joue l’aveuglement lyrique au temps de la Terreur qui, pour moi, était l’époque où ‘le poète régnait avec le bourreau’ (La vie est ailleurs). J’ai pensé alors à Maïakovski ; pour la révolution russe, son génie avait été aussi indispensable que la police de Dzerjinski. Lyrisme, lyrisation, discours lyrique, enthousiasme lyrique font partie intégrante de ce qu’on appelle le monde totalitaire […] Plus que la Terreur, la lyrisation de la terreur fut pour moi un traumatisme. À jamais, j’ai été vacciné contre toutes les tentations lyriques. La seule chose que je désirais alors profondément, avidement, c’était un regard lucide et désabusé» (Kundera 1993 : 191).
La riflessione di Kundera, così come la sua ‘antropologia implicita’, se così vogliamo chiamarla, trae spunto da una esperienza personale e da un rifiuto politico e, anzi, sono forse proprio queste esperienze vissute direttamente, in prima persona, che hanno riplasmato il suo sguardo: com’è noto, l’invasione russa della Cecoslovacchia aveva spento la riforma democratica avviata durante la Primavera di Praga e aveva messo fine alla possibilità di ottenere la libertà dall’oppressione rappresentata dal Patto di Varsavia per l’intero Paese. L’esperienza personale e politica, il cammino doloroso dell’esilio, non fanno che rinforzare ciò che forse già, in Kundera, era un’esigenza artistica: rifiutare l’accecamento sentimentale e lirico e accogliere il romanzo come un genere che offre la possibilità narrativa di ‘snaturare la regola prestabilita’. Lo sguardo lucido e disilluso, da forma di vita, diventa così una costante della poetica di Kundera:
«Je l’ai trouvé enfin dans l’art du roman. C’est pourquoi être romancier fut pour moi plus que pratiquer un ‘genre littéraire’ parmi d’autres; ce fut une attitude, une sagesse, une position ; une position excluant toute identification à une politique, à une religion, à une idéologie, à une morale, à une collectivité ; une non-identification consciente, opiniâtre, enragée, conçue non pas comme évasion ou passivité, mais comme résistance, défi, révolte» (Kundera 1993: 191).
Rileggendo queste righe sembrerebbe di vedere l’adesione di un antropologo a una tecnica di esplorazione del sociale che presume un abbandono dell’identificazione ad alcuni valori e si fonda sulla pratica di una scrittura da una posizione di alterità. La differenza con un antropologo classico, si potrebbe dire, è che, per Kundera, è proprio un ‘genere letterario’ e una tradizione di valori europei (o, almeno, da lui riconosciuti tali) a fondare la sua pratica della scrittura e dell’alterità. Da questo punto di vista, sembra anche più evidente il rapporto originale che si stabilisce tra l’opera di Kundera, la sua ricerca narrativa e le vicissitudini che lo hanno riguardato durante la sua residenza in Cecoslovacchia.
E, in definitiva, si potrebbe dire che l’‘antropologia implicita’ di Kundera trae spunto dall’esperienza unica di avere vissuto in un sistema totalitario (prima) e in una società liberale (dopo); inoltre, aspetto non minore, questa stessa esperienza si associa a una doppia formazione (musicale e letteraria) esemplare che ha aiutato a produrre un effetto particolare: l’investimento della conoscenza musicale nella tecnica narrativa; la riformulazione originale, nel campo del romanzo, della tecnica della variazione più tipica della musica. Consapevole di questo collegamento esistente tra la musica e il romanzo, Kundera esplora questo aspetto sistematicamente, fin dall’inizio:
«j’ai compris que j’étais en train de faire quelque chose de tout différent : non pas un recueil de nouvelles mais un roman (intitulé ensuite Le Livre du rire et de l’oubli), un roman en sept parties indépendantes mais à un tel point unies que chacune d’elles, lue isolément, perdrait une grande partie de son sens […] J’ai rencontré dans mon entreprise la vieille stratégie de Chopin, la stratégie de la petite composition qui n’a pas besoin de passages a-thématiques […] Comment sont-elles reliées, ces sept petites compositions indépendantes, si elles n’ont aucune action commune ? Le seul lien qui les tient ensemble, qui en fait un roman, c’est l’unité des mêmes thèmes» (Kundera 1993: 203).
Si può senz’altro dire, allora, che istanze diverse, paradigmatiche si incontrano in Kundera e sostengono la sua originalità: la musica e il romanzo, la vita vissuta e la tecnica narrativa, lo sguardo da lontano e l’investimento personale, la lingua ceca e la lingua francese. E l’insieme di queste molteplici istanze va compreso nel suo complesso gioco relazionale al fine di capire le scelte linguistiche ed esistenziali dell’autore. Si potrebbe anzi dire che il rapporto tra letteratura e vita, tra universo della finzione e universo della realtà, tesse il filo delle sue opere e delle sue stesse scelte esistenziali. Se non è proprio sempre l’asse semantico della leggerezza e della pesantezza – suoi temi più cari al grande pubblico – a essere esplorato da Kundera in relazione alla vita e alla finzione letteraria nelle altre sue opere, si può dire che sono comunque alcune categorie appositamente scelte, prossime semanticamente, che l’autore ceco decide di rielaborare in molti dei suoi possibili aspetti, smussandone però il valore oppositivo insito nella loro significazione e scomponendone i tratti in un gioco di smontaggio e rimontaggio di elementi che ne modifica lo statuto ordinario e la comune percezione. Se si dovessero necessariamente citare altre categorie fondamentali che si incontrano nella sua poetica, si potrebbero menzionare senza esitazione alcuna l’humour e il senso di serietà, l’esilio e il radicamento, l’identità e l’alterità, la variazione e l’adattamento, l’effetto lirico e quello romanzato, la lingua e la cultura, il biografico e la trasposizione testuale.
Ad ogni modo, ciò che effettivamente sottolineerei, più di tutto, è la pratica incessante dello straniamento e il rifiuto della banale familiarità, i quali assurgono a ruolo guida della poetica di Kundera, nonché della sua stessa vita. Una precisazione è importante. Nel caso di Kundera non si tratta di una forma di straniamento di prima mano, fondata sullo stravolgimento delle modalità percettive di un soggetto osservatore, quanto, piuttosto, di una forma di straniamento fondata sulla variazione e la ripetizione di moduli narrativi e descrittivi (che, comunque, hanno in secondo luogo, immancabilmente ed efficacemente, un esito sulla percezione e identità stessa del soggetto). In sostanza, l’interrogazione esistenziale, compiuta a partire dal genere ‘romanzo’ in Kundera, non si limita a questioni d’ordine puramente letterario, ma si estende al di là dei suoi confini e comprende ciò che si potrebbe definire come una prospettiva sul modo di vivere e di pensare nella sua ampiezza. Proprio per questo, dovuto a questo stretto connubio, a un certo punto, l’adozione del francese sembra essere ineluttabile e corrispondere, per Kundera, a una forma più matura della sua arte, a un’accentuazione della tecnica narrativa, a un’insistenza – più che sulla lingua in sé come elemento grammaticale – sulla manipolazione del piano del contenuto, dei temi e delle categorie già utilizzati fin dai primi romanzi scritti in ceco.
Basta per questo accennare all’esempio de L’identité, un romanzo che si potrebbe leggere come una vera e propria variazione sul tema della variazione. Il denudarsi della lingua, più che una debolezza, diviene un elemento di forza del romanzo che mira a costruire una tematica dell’identità attraverso la composizione e la scomposizione dei tratti caratterizzanti i personaggi e l’intreccio stesso. Leggendo l’opera, ci si rende conto, per esempio, che un certo elemento è ripetuto anche al fine di dare intensità alla costruzione poetica, oppure un sinonimo è utilizzato al fine di rallentare il ritmo della frase e creare parallelismi, un modulo è ripreso in una variazione significativa per rinforzare la polifonia delle voci o la struttura dell’insieme. Ciò che più sorprende è che la variazione trova il suo alter ego nella composizione/scomposizione di una (idea di) identità e viceversa. Se Kundera non esita a esporre le sue teorie sull’amore, la morte, l’amicizia, la seduzione e l’identità, queste stesse teorie diventano, di più, dei ‘costituenti di base’ a partire dai quali produrre un gioco incessante di variazioni attraverso la strategia del ricordo, la presentazione d’ipotesi, la reintroduzione di situazioni narrative spiegate o commentate grazie a un incrociarsi di sguardi e voci.
Il brano seguente, per quanto semplice, potrebbe essere proprio un esempio di questa tecnica: «Elle le vit qui la regardait, longuement, gravement, et elle avait la sensation que dans les profondeurs de son corps ce regard allumait un feu. Ce feu se répandait vite dans son ventre, montait dans sa poitrine, brûlait ses joues, et elle entendait Jeanne-Marc répétant d’après elle : ‘Les hommes ne se retournent plus sur toi. C’est vraiment pour ça que tu es triste ?’» (Kundera 1997: 30). In sostanza, sguardi che si incrociano, voci che si sovrappongono, pensieri che si sdoppiano, personaggi che si interrogano: queste non sono che alcune delle strategie utilizzate da Kundera per avanzare nella foresta della variazione. Non si deve tuttavia cadere nella trappola. C’è differenza, secondo Kundera, tra l’adattamento riduttore e imitativo e la variazione creatrice che si accompagna nel nostro autore alla passione per Diderot e Sterne (e al contemporaneo rifiuto del romanzo epistolare alla maniera di Richardson):
«Diderot a emprunté à Sterne toute l’histoire de Jacques blessé au genou, transporté sur une charrette et soigné par une belle femme. Ce faisant, il ne l’a ni imité ni adapté. Il a écrit une variation sur le thème de Sterne» (Kundera 1981: 20).
Se ci si pone, allora, nuovamente la questione del ‘come’ scrivere in una lingua che non è la propria, si può rispondere che, almeno nel caso di Kundera, si può farlo privilegiando una poetica del piano del contenuto: questa, non corrisponde alla ricerca della sola sonorità o al semplice raffinamento della componente espressiva della lingua, ma si basa sui parallelismi di valori e temi, figure e strutture narrative. In definitiva, si tratta di una poetica che verte sugli insiemi più vasti della lingua frastica e tende a incentrarsi su porzioni di testo che vanno al di là di una stilistica della parola, trovando sostegno in un’arte della variazione. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che il passaggio dal ceco al francese ha acuito questo lavoro di ‘musicalizzazione’ della scrittura fornendo la possibilità di un ‘nuovo sguardo da lontano’ a Kundera. Il lavoro sulla variazione si è dunque radicalizzato passando al francese, andando di pari passo con il moltiplicarsi dello sguardo da lontano applicato al suo stesso divenire straniero per la sua patria (il processo di alienazione) e più prossimo al paese che lo ha accolto (il processo di identificazione):
«L’émigration est difficile aussi du point de vue purement personnel : on pense toujours à la douleur de la nostalgie ; mais ce qui est pire, c’est la douleur de l’aliénation ; le mot allemand die Entfremdung exprime mieux ce que je veux désigner : le processus durant lequel ce qui nous a été proche est devenu étranger. On ne subit pas l’Entfremdung à l’égard du pays d’émigration : là, le processus est inverse : ce qui était étranger devient, peu à peu, familier et cher […] Seul le retour au pays natal après une longue absence peut dévoiler l’étrangeté substantielle du monde et de l’existence» (Kundera 1993: 115).
Kundera dedica queste riflessioni sull’emigrazione, e tante altre ancora, ne Les Testaments trahis. Sarebbe naturalmente interessante guardare da vicino, per similitudine e per differenze, il processo di variazione narrativa che mette in opera, a proposito di migrazione, esilio e nostalgia, anche ne L’ignorance. Se non è qui possibile farlo per ovvi motivi, è però utile sottolineare il principio che Kundera cerca continuamente di produrre un singolare spostamento antropologico dalla ‘questione lingua’ alla ‘questione cultura’ e una formalizzazione semiotica del principio della variazione (che tiene conto del piano dell’espressione ma si incentra soprattutto) sul piano del contenuto. Queste tecniche, nell’insieme, si basano sull’avvicendarsi e incrociarsi di uno sguardo da lontano e da vicino che Kundera ha vissuto sulla propria pelle, da esule, e trasposto variamente, in termini narrativi, nelle sue opere, dando risalto particolare all’intreccio di vita e trasposizione letteraria, esperienza personale ed effetto letterario.
Per quanto mi riguarda personalmente, come già anticipato all’inizio, trovo una rispondenza stretta tra quanto fatto da Kundera nelle sue opere e quanto detto da Lévi-Strauss soprattutto a proposito di arte e tecniche di straniamento relative all’uso dello sguardo da vicino/da lontano (Lévi-Strauss 1988; Lévi-Strauss 1994). È come se Kundera avesse letto Lévi-Strauss e avesse deciso di approfondire la questione in diversi sensi e prospettive, narrativamente e tematicamente, attingendo alla propria vita e trasfigurandola opportunamente. Applicare uno sguardo da lontano e da vicino è costitutivo della metodologia antropologica. È ben noto. Rileggere Kundera e Lévi-Strauss insieme può tuttavia essere utile per fare un passo avanti e capire quanto importante sia, ancora oggi, questa ‘tecnica’ di osservazione e quante altre declinazioni – quelle proposte da Kundera per esempio – essa può fruttuosamente vedersi attribuire.
Direi inoltre, al di là della stessa antropologia e scrittura letteraria, che l’andirivieni lontano/vicino dovrebbe essere, al giorno d’oggi, parte integrante dei modi in cui tutti noi, indistintamente, ci avviciniamo all’alterità (e identità) nostra e altrui: si dovrebbe insegnare a scuola e in famiglia, adottare e amplificare per strada e in viaggio, nella vita quotidiana e persino in occasione di eventi straordinari. Kundera, a questo riguardo, è un esempio particolarmente significativo – ritengo – perché, oltre ad avere affrontato la questione dello straniamento in chiave narrativa, lo ha associato a temi estremamente attuali quali la migrazione, l’esilio, la sofferenza dell’alienazione e il processo di accoglienza. Kundera mostra che la scrittura letteraria può interpretare la realtà in modo così potente da essere un esempio da seguire anche nelle scienze sociali. So bene che la questione della letteratura (e dei suoi influssi sulle scienze sociali) è un tema caldo e che questa mia affermazione potrebbe fare storcere il naso ad alcuni antropologi e sociologi ‘d’altri tempi’. Ed è tanto meno inutile dire qual è la mia posizione a riguardo, dato che ho preso come esempio, per riflettere su una prospettiva antropologica (e una ‘tecnica’ di approssimazione all’alterità promossa addirittura da Lévi-Strauss), proprio uno scrittore.
Non ho nessun imbarazzo, da antropologo, nel dire che amo la letteratura e penso che possa essere usata, talvolta, come specchio riflettente di modi e tematiche affini a quelle antropologiche e sociologiche. Non ho nessun timore nel dire pure che amo la vita e l’associo proprio per questo – per formazione professionale, per carattere personale, etc. – alla questione al rapporto tra culture e lingue. In questa prospettiva, se proprio si dovesse cercare un solo filo disciplinare all’interno del quale rinchiudere questo mio breve saggio, più che all’antropologia della letteratura, direi che si tratta di un ammiccamento all’antropologia del linguaggio: ho inteso dare un piccolo esempio del modo in cui un antropologo del linguaggio – me stesso – può venire alle prese con il rapporto mutevole lingue/culture, senza necessariamente entrare fisicamente sul campo. Purtroppo non sono mai stato né in Cecoslovacchia, né ho mai conosciuto Kundera in vita e non avrei dunque, anche volendolo, potuto pensare a questa ricerca come un campo classicamente inteso, come un fieldwork.
Affermata la contingenza, in questo caso, rimane però un quesito: cos’è un campo? Dal mio punto di vista, la vita nella sua interezza è un campo: inarrestabile, sfuggente, in deleuziano divenire, eppure sempre presente e pronto a prestarsi alle riflessioni antropologiche. Com’è noto, Clifford pone alla base della sua ricerca una interrogazione fondamentale: «Il risiedere era inteso come la solida base (locale) della vita collettiva, mentre il viaggio era un semplice supplemento; le radici sono sempre più importanti delle strade. Ma cosa accadrebbe, cominciai a domandarmi, se il viaggio, liberato dai lacci, venisse visto come il complesso, pervasivo spettro dell’esperienza umana?» (Clifford 1999: 11). Con questo spostamento concettuale e disciplinare, Clifford ha contribuito a produrre uno scarto negli studi antropologici poiché, tra le altre cose, ha mostrato che la ricerca sul campo di tipo malinowskiano (partenza, arrivo sul posto esotico dove si fa ricerca, ritorno a casa dove si fa altro) è soltanto un modello, tra i tanti possibili, per di più basato sull’elisione del viaggio.
Ritengo che, oggigiorno, persino la discontinuità instaurata tra viaggio e vita debba cadere e la vita – ovviamente di volta in volta ripensata secondo le relative discretizzazioni culturali – debba divenire, essa stessa, campo di investimento antropologico nella sua ricca complessità. La vita è dunque un campo: un campo di continua osservazione e interazione. La letteratura, in questo, può giocare un ruolo importante perché, più che una diversione dalla realtà, può invece essere intesa come strumento di approssimazione e di deformazione rivelatore dei suoi diversi incastri e linguaggi. Kundera mostra, giustamente, che scrivere – persino in una lingua straniera, persino in esilio – può diventare una strategia di distanziamento (e di avvicinamento) alla realtà e alla cultura, un modo per cercare di sciogliere (e talvolta ricomporre) lo stretto intrecciarsi del vivere e pensare, del risiedere e dello spostarsi altrove. La vita è campo, la vita è inoltre scrittura poiché, senza di essa, non sarebbe possibile conservarne traccia. La vita è, ancora, quella capacità di mettersi in relazione con l’ambiente e con gli altri esseri viventi.
E, con ciò, veniamo alla conclusione, riprendendo brevemente, la questione posta in apertura, prima della digressione su Kundera. Che ne facciamo degli animali? Che relazioni intratteniamo con loro? Ce li mangiamo o ce ne facciamo carico? Alla stregua della lingua e della sua adozione, pensare un animale come commestibile o come animale domestico da accarezzare è anch’essa una questione di distanza, maggiore o minore, culturalmente percepita e instaurata. Ricordo che, da piccolo, mi ero affezionato alla capretta che aveva portato mio papà in casa per qualche giorno e non avrei mai potuto pensarla come qualcosa di commestibile: la (scarsa) distanza che avevo stabilito con la capretta non mi consentiva di pensarla come ‘buona da mangiare’. La pensavo unicamente come ‘buona per giocare’. Più un animale rientra in quella categoria definita ‘specie compagna’ (l’espressione è utilizzata da Haraway 2008), meno lo si ritiene commestibile. Affinché qualcosa possa quindi essere intesa come cibo da consumare, deve avere preventivamente subito un processo di categorizzazione culturale complesso (e straniante, se visto dall’esterno). Mangiare i propri cari per dare loro degna sepoltura (ed evitare così che diventino pasto per vermi), come fanno i guayaki, sarebbe inaccettabile per un cristiano a cui la tradizione religiosa impone l’interramento (e quindi l’imputridimento del cadavere, inaccettabile invece per i guayaki).
Il fatto ancora più complicato è che i tratti culturali, proprio perché resi linguisticamente nella loro varietà e polisemia, non sono mai categorizzati singolarmente. Per esempio, come abbiamo visto, la ‘commestibilità’ per i guayaki, nel contesto rituale della morte, va associata alla ‘sepoltura’. Se dico però che mangiare in qualche modo equivale a seppellire sto al contempo facendo una traduzione interculturale perché i due verbi hanno denotati e connotati diversi nella cultura occidentale. Il problema si pone dunque culturalmente, in termini di traduzione, ma anche individualmente, nella varietà di comportamenti posti in essere da persona a persona all’interno di una stessa cultura. La commestibilità è una ‘lingua’, al pari di altre, che si presenta per scarti e per investimenti vari che vanno dalla massima generalità codificata dalla cultura nella sua interezza, passando per attualizzazioni più specifiche e rappresentative di alcuni gruppi (ma non di altri), fino alle scelte individuali che delineano regimi alimentari singolarmente rispettati. Queste sono pure le ragioni per cui, tutto sommato, pur mostrando simpatia per l’ontological turn, ho qualche perplessità nei suoi riguardi.
Infine, per concludere questa disamina e fare il punto, attraverso la digressione su Kundera ho inteso valorizzare – indipendentemente dalle scelte individuali e culturali di ognuno di noi, si tratti di letteratura o esilio, cibo o concezioni del fieldwork – il principio che si trae vantaggio nel mettere in opera una forma di straniamento, un andirivieni concettuale da vicino e da lontano, al fine di meglio sfuggire a un posizionamento dato e inconsapevole. Personalmente, per carattere, come si è forse compreso, sono inoltre volto, più che a cercare una posizione alla quale abbarbicarmi solidamente, a sbarazzarmene per far posto al dubbio, per dare così spazio alla possibilità oscillatoria di inversioni di pretese verità assolute.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Riferimenti bibliografici
Clastres P., Cronaca di una tribù. Il mondo degli indiani Guayaki cacciatori nomadi del Paraguay,
Feltrinelli, Milano, 1980
Clifford J., Strade, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
Descola Ph., L’écologie des autres. L’anthropologie et la question de la nature, Versailles, Quae, 2011
Evans-Pritchard E. E., I nuer: un’anarchia ordinata, Franco Angeli, Milano, 1975
Haraway D. J., When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2008
Kundera M., Jacques et son maître, hommage à Denis Diderot en trois actes, Gallimard, Paris, 1981
Kundera M., L’art du roman, Gallimard, Paris, 1986
Kundera M., Les testaments trahis, Gallimard, Paris, 1993
Kundera M., La lenteur, Gallimard, Paris, 1995
Kundera M., L’identité, Gallimard, Paris, 1997
Lévi-Strauss C., Mito e significato, Saggiatore, Milano, 1980
Lévi-Strauss C., Éribon D., Da vicino e da lontano, Rizzoli, Milano, 1988
Lévi-Strauss C., Guardare, ascoltare, leggere. L’arte secondo il padre dell’antropologia, Saggiatore,
Milano, 1994
Rosaldo R., “Il dolore e la rabbia di un cacciatore di teste”, in Cultura e verità, Meltemi, Roma, 2001.
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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