di Sergio Todesco
L’odissea mediterranea di San Paolo, così come essa ci è stata descritta nella narrazione degli Atti degli Apostoli ma anche come ci è pervenuta attraverso fonti apocrife e – ancor più – attraverso tradizioni popolari attestate in tutto il Meridione d’Italia, ci consente di sorprendere in vivo un meccanismo di notevole interesse antropologico, attraverso il quale questo santo ha finito col compendiare, risolvere ed equilibrare in una sintesi nuova figurazioni mitico-rituali provenienti da contesti culturali più antichi. Mi riferisco al particolare rapporto che San Paolo intrattenne con i serpenti e, più in generale, con figure ofidiche, rettili, aracnidi di varia specie, tutti caratterizzati dalla loro natura di entità in genere “repellenti” per l’uomo ma al contempo esercitanti un fascino ambivalente probabilmente riconducibile a dimensioni profonde dell’inconscio.
Le tappe – reali o immaginarie – che San Paolo compie nel corso del suo peregrinare mediterraneo hanno offerto consistenza culturale a tre diversi episodi fondativi, destinati a fornire un orizzonte ideologico e simbolico a tre distinte tradizioni, rispettivamente relative all’isola di Malta, alla Sicilia e alla Puglia. Sinteticamente, per Malta le serpi e la varia mitologia a esse connessa (la “lingua” e gli “occhi” di serpe) ma anche alcune tradizioni direttamente legate al territorio, trasformato dal soggiorno dell’apostolo in luogo deputato dalle singolari proprietà salvifiche e terapeutiche (immunità territoriale, pietra e grotta di San Paolo, etc.); per la Sicilia, la saga dei ciaràuli, singoli individui o famiglie intere dotati di mirabili facoltà curative e profilattiche, anche qui con un’appendice territoriale incentrata su fonti o pozzi di acque miracolose; per la Puglia (il Salento in particolare) il fenomeno del tarantismo, inglobante aspetti che sono riscontrabili nelle realtà precedenti (immunità territoriale, pozzo di San Paolo e acque curative, sempre in funzione protettiva nei confronti del morso o puntura di serpi, scorpioni, aracnidi).
Proprio il Tarantismo, fenomeno complesso le cui origini medievali sono comunque da ricondurre a culti di possessione e pratiche paraestatiche presenti sin dall’antichità nell’intero bacino mediterraneo, ci consente di delineare il ruolo svolto da San Paolo nelle dinamiche di riplasmazione in senso cristiano di complessi mitico-rituali molto arcaici, il cui aspetto più evidente è la detronizzazione operata dal santo di figure ed entità numinose più antiche (ad es. Dioniso) dalle quali egli mutua “pacchetti di credenze”, giungendo a comporre un nuovo coerente equilibrio sincretico nel mutato panorama culturale dell’era volgare.
Ripercorrendo le tradizioni popolari che vedono San Paolo a vario titolo operante in contesti connotati dalla presenza del serpente (nelle sue diversificate declinazioni mitologiche di serpe, scorzone, taranta), si può rilevare l’aspetto preponderante assunto dal “morso”, visto come puntura, pungolo, aggressione venefica, pungiglione e così via.Un approfondimento di questo aspetto nella biografia di San Paolo ci potrà guidare alla comprensione di come proprio a costui sia toccato in sorte tale singolare patronage.
Il “pungiglione” entra nella vita di Paolo sin dal momento della sua vocazione. Negli Atti degli Apostoli, di san Luca, allorquando Paolo, condotto di fronte al Re Agrippa, ripercorre la sua vicenda esistenziale e il suo tortuoso e al contempo straordinario percorso di fede, nel rievocare il momento in cui il dio da lui perseguitato lo disarciona da cavallo sulla via per Damasco, aggiunge alle parole di Gesù riportate nella prima descrizione dell’evento una frase molto significativa:
«… mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce del cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo”. E io dissi: “Chi sei, o Signore?”. E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”» (Atti, 26: 12-15).
Il pungiglione si presenta qui con tutta la sua ambivalente pregnanza. Esso – pur rimanendo “il pungolo del dio” – non è più l’òistros delle estasi dionisiache ma piuttosto la travolgente metànoia che interpella vigorosamente a un cambiamento di vita. D’altra parte, lo stesso pungiglione viene dallo stesso Paolo utilizzato in altri passi per significare il magmatico richiamo del peccato.
Nella seconda lettera ai Corinti (2 Cor 12: 7-9) Paolo confessa un aspetto oscuro della propria personalità:
«Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”».
Su tale “spina nella carne” (skòlops), una sorta di pungolo continuo, molti critici si sono cimentati nello sforzo ermeneutico di decifrarne la natura, giungendo ad ipotizzare – anche sulla scorta di una presunta misoginia del santo – delle turbe connesse alla sfera sessuale.
Che tale pungolo (stimulus, kéntron, termini che rinviano tanto al pungolo per animali da soma o da tiro quanto al morso di rettile o insetto) sia stato una costante esistenziale per san Paolo lo mostra un passo significativo della prima lettera ai Corinti, laddove – all’interno di una grandiosa prospettiva escatologica – Paolo utilizza un termine analogo per indicare la morte spirituale:
«Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
La morte è stata ingoiata per la vittoria
Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (1 Cor 15: 54-55)
E seguendo chiarisce:
«Il pungiglione della morte è il peccato …» (ibid.: 56).
Il pungiglione è dunque quello del peccato, e più in particolare (come viene chiarito nella Lettera ai Romani, 5: 1-11) del peccato paradossalmente introdotto nel mondo dalla legge, quella legge che ponendo norme e divieti dischiude la tentazione e l’aspro sapore della disobbedienza (non a caso riconducibile all’azione di un serpente nell’Eden), di modo che, come afferma lo stesso Paolo, «io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio».
Il pungolo è quindi, nella cristologia paolina, un morso interiore, laddove nei contesti pre-cristiani esso era una realtà esterna che colpiva l’uomo per spossessarlo della sua presenza e – appunto – possederlo. Inizia così a risultare chiaro il senso dell’innesto del culto di questo santo all’interno dei quadri di riferimento propri del paganesimo.
Come si è visto, il pungiglione è infatti un tema ricorrente nella biografia interiore di Paolo, seppure da lui sempre utilizzato come cifra e metafora di un rapporto ambivalente e sofferto con la divinità. Nella frase prima citata con cui Gesù provoca la conversione del santo alcuni hanno ravvisato adombrata una frase che Euripide, in Baccanti vv. 794 sgg., mette in bocca addirittura a Dioniso, che così ammonisce l’incauto re di Tebe Penteo, anch’egli – come Paolo – in lotta contro il dio:
«Dioniso – “Non mi dai retta, non ascolti i miei suggerimenti, Penteo. Anche se mi maltratti, pure ti dico che non devi alzare le armi contro un dio, ma devi stare tranquillo. Bromo non potrà sopportare che tu scacci le baccanti dai monti che echeggiano di “evoè”.
Penteo – “Non darmi consigli: sei sfuggito alle mie catene, accontentati. O ti devo punire un’altra volta?”
Dioniso – “Meglio sarebbe offrire sacrifici, piuttosto di recalcitrare contro i pungoli, un mortale contro un dio”».
In che misura tale tema venne accolto, elaborato, riplasmato dalle tradizioni popolari e dal comune milieu culturale mediterraneo, è il tema che qui brevemente proverò a trattare, limitandomi ad offrire pochi cenni sulle diverse modalità con cui un episodio agiografico apparentemente di poco conto (quello di Malta) sia diventato il banco di prova per misurare l’articolato e plurisecolare lavorìo posto in essere per continuare a declinare percorsi di senso nel passaggio dal mondo classico all’era volgare.
Il primo incontro di Paolo con un pungolo “materiale” avviene perciò a Malta, nell’episodio largamente noto (Atti, 28:1-10) che lo vede liberarsi indenne dal morso di una serpe che lo aveva avvinghiato mentre egli provvedeva a raccogliere delle fascine per alimentare un falò. A partire da tale “miracolo” per l’isola di Malta (la cui reale identità territoriale è stata peraltro oggetto di contrapposte rivendicazioni da parte di comunità variamente dislocate nel Mare Nostrum) si dispiega una serie di mitologie variamente configurate, che vanno dalla “lingua” e gli “occhi” di serpe, potenti amuleti paolini in grado di proteggere dal morso di ofidi alla cosiddetta pietra di San Paolo, alla grotta di San Paolo, alla terra di Malta, più o meno “sigillata” della quale si tramanda la qualità terapeutica in quanto resa atta ad agire come antidoto poiché immunizzata dai miracoli dell’apostolo e, come tale, venduta in tutta l’Europa dall’Ordine di Malta in sacchetti bollati e sigillati, da cui la denominazione di “terra sigillata”, ma anche una serie altrettanto abbondante e persistente di tradizioni direttamente legate al territorio, trasformato dal soggiorno dell’apostolo in luogo a vario titolo “terapeutico”, fino a giungere a una vera e propria protezione territoriale in grado di tenere in perpetuo l’isola e i suoi abitanti immuni da ogni rischio connesso ai morsi di vipere e di altri animali in grado di offendere l’uomo col loro “pungolo”.
L’episodio degli Atti, sintesi e ricapitolazione di un’esistenza tutta giocata sul rischio sempre presente del pungolo e sulla definitiva vittoria su di esso, pare alludere – in una prospettiva più ampia – al superamento definitivo operato dal Cristianesimo nel riconoscimento della reale natura spirituale del “pungolo” come peccato rispetto alla concezione tipica di una religiosità basata sull’assunzione materialistica del termine, ancorché spesso declinata secondo modelli magico-religiosi. Il pungolo, nella Grecia classica, è l’òistros, il kéntron, l’attacco virulento che scatena repentinamente la possessione, la perdita della presenza, quello che Rimbaud – attribuendolo alla visionarietà poetica – definiva un vero e proprio dérèglement de tous les sens (Le poète se fait voyant par un long, immense et déraisonné dérèglement de tous les sens). Dalla parola òistros deriva l’estro, ma anche l’ebbrezza, lo scatenamento di energie rimaste nascoste e inoperanti fintanto che un “morso” non le ha liberate.
Ė facile ora comprendere come attraverso le vicende paoline siano di fatto due visioni del mondo a fronteggiarsi: quella del dio che rapisce e possiede, un nume dionisiaco che si impossessa dei suoi fedeli e li conduce verso l’estasi, e quella del dio che, più che ai nervi ed ai centri occulti da rianimare preferisce mirare al cuore dell’uomo per produrre al suo interno un più profondo processo di liberazione basato sul riconoscimento dell’altro come “fratello separato”. Non a caso lo stesso San Paolo, nel famoso inno alla carità, inizia la sua splendida carrellata poetico-spirituale ammonendo i Corinti, assai inclini ad abbandonarsi a fenomeni di effervescenza collettiva (glossolalia, profezia, etc.), iniziava proprio menzionando tali doni dello Spirito, che a dispetto della loro straordinarietà risultavano povera cosa laddove fosse mancato il dono più grande costituito dalla carità:
«Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità
sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla» (1 Cor 13: 1-13).
Vediamo brevemente come tale “mitologia” assume nuovi contorni in terra di Sicilia, anch’essa territorio attraversato dall’apostolo nel suo ultimo viaggio verso Roma, meta finale e luogo fatale del suo martirio. I ceràvuli (o ciaràuli, o ciràuli etc.) in Sicilia sono persone o gruppi familiari dotati di singolari poteri taumaturgici relativi a tutto quanto riguardi le patologie derivanti da morsi di rettili o punture di insetti, scorpioni o aracnidi. Tali poteri sono stati loro conferiti direttamente da San Paolo, in quanto condizione essenziale per essere ciaràuli è quella di esser nati nella notte del 24 gennaio, che precede la festa del santo (il 25 è infatti la data presunta della conversione sulla via di Damasco).
Fin dalla nascita a costoro compare sotto la lingua uno speciale ingrossamento (scrive Pitrè: «un muscoletto in forma di ragno»), tradizionalmente denominato signatura o suffìziu (scorpione o tarantola). Tale segno tangibile di divine election li fa riconoscere come ciaràuli, emissari designati dal santo per rinnovare – attraverso la loro azione terapeutica – le guarigioni da lui operate dopo l’episodio di Malta.
I ciaràuli usano speciali scongiuri ed agiscono direttamente con la propria saliva sulle ferite da morso o puntura, sputandoci sopra per sanarle. Una delle formule un tempo utilizzate dai ciaràuli nella Sicilia sud-orientale è, ad esempio:
«San Paulu
maccia d’addàuru
spina pungenti
non muzzicari a mmia
né mancu a ggenti».
I ciaràuli sono stati sempre, come San Paolo, girovaghi. Nella Sicilia tradizionale essi attraversavano le campagne portando le loro competenze terapeutiche tra le masserie più sperdute, e fornivano ai contadini (specialmente nel periodo della mietitura) rimedi contro morsi di serpenti e punture di scorpioni, ma anche erbe medicinali, orazioni e medicamenti di tipo magico-religioso, tutti in qualche misura connessi con la figura di San Paolo.
Provenienti soprattutto dai due paesi di Palazzolo e di Solarino (non dimentichiamo che San Paolo transitò per queste plaghe soggiornando per tre giorni nel territorio di Siracusa), essi erano anche ritenuti competenti nella cura della licantropia, delle fatture e legature da malocchio e in tutte le patologie di origine magica (essi ciarmavano i vermi, curavano ‘u scantu e ‘a cugghiùta ri suli, e così via).
Secondo Tommaso Garzoni, l’autore del monumentale La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo (stampato a Venezia nel 1585), i ceretani o ciurmatori, come lui li chiama, erano diffusi – durante tutto il Medioevo – anche nelle regioni del centro, dalla Toscana agli Abruzzi, e tra i loro paraphernalia si potevano contare singolari reperti come l’aspide sordo, il regolo o basilisco morto, il crocodillo portato dall’Egitto, la tarantola di campagna, la lucerta d’India. Provvisti di tali strumenti di lavoro essi offrivano, girando per i paesi, spettacoli orripilanti a una folla di ingenui, i quali venivano in tal modo indotti a “comprar la gratia di San Paolo”.
Terza tappa “mitologica” dell’odissea paolina è la Puglia, e in particolare il Salento, terra elettiva del fenomeno del tarantismo o tarantolismo. Secondo una tradizione affondante le proprie origini nel Medioevo ma con rilevanti influenze ascrivibili al mondo classico, il tarantismo era una sindrome di melanconia e di possessione provocata dal morso della tarantola (Lycosa tarentula), che si manifestava soprattutto nei mesi estivi, durante il periodo della mietitura e della raccolta di tabacco, e che provocava uno stato di malessere generale – dolori addominali, stato di catalessi, sudorazioni, palpitazioni – in cui musica, danza e colori rappresentavano gli elementi fondamentali della terapia consistente in un esorcismo musicale, coreutico e cromatico.
Dall’esemplare studio di Ernesto De Martino, risalente alla famosa spedizione etnografica del 1959, abbiamo appreso che, eccettuati alcuni sporadici casi di effettivo morso di ragno, in realtà una netta maggioranza di casi mostra la natura eminentemente simbolica del morso, la cui plasmazione mitico-rituale è un pretesto (una “strategia aggressiva indiretta”, come la definisce un antropologo inglese, Ioan Lewis) per risolvere traumi, frustrazioni, conflitti familiari e pulsioni sessuali irrisolte: un amore infelice, la perdita di una persona cara, le crisi legate alla pubertà o condizioni socio-economiche contrassegnate dalla precarietà, tutti casi insomma di miseria psicologica e sociale.
La musica è stata da sempre l’aspetto pregnante della terapia; infatti, la tarantata, che iniziava il proprio ciclo di cura giacente al suolo o sul letto, ascoltando la tarantella (musica della piccola taranta) cominciava a muovere testa e gambe, strisciando sul dorso, quasi impossibilitata a stare in piedi, in un rapporto d’identificazione con la taranta avvelenatrice. Successivamente, com- piendo giri di danza sempre più vorticosi all’interno di un perimetro cerimoniale e battendo i piedi a tempo di musica come per schiacciare il ragno, stremata dagli sforzi crollava infine a terra, venendo percepita dal comune sentire degli astanti come graziata da S. Paolo.
Un’ulteriore fase della terapia, a coronamento dell’esorcismo coreutico-musicale condotto a domicilio, era la visita della tarantata “guarita” presso la cappella di San Paolo, a Galatina (LE), dove la paziente, dopo aver ripetuto simbolicamente una breve sequenza coreutica, beveva l’acqua sacra del pozzo di San Paolo adiacente alla cappella. In tale luogo si riteneva infatti fosse esistita da tempo immemorabile una “casa di San Paolo” nella quale il santo avrebbe trovato ospitalità durante un soggiorno in Puglia (e quindi secondo un itinerario, per così dire, apocrifo rispetto a quello canonico riportato negli Atti degli Apostoli). Da tale presenza del santo a Galatina sarebbe derivata, proprio come a Malta, la concessione al sito di una speciale immunità territoriale da ogni sorta di rischio connesso ai morsi di serpe o tarantola.
La scelta di Galatina, centro agricolo del Salento, deriva probabilmente da una leggenda che la vorrebbe fondata da esuli provenienti dalla Galàtia, la regione anatolica situata tra Bitinia e Cappadocia e visitata due volte dal santo, il cui nome è passato alla storia proprio per la lettera che San Paolo inviò ai suoi abitanti (i Galati appunto).
Come concludere queste brevi note? Ritengo, provvisoriamente, con una riflessione. L’odissea di San Paolo descritta negli Atti parrebbe, a una prima lettura, uno scarno resoconto delle tappe da lui toccate nel suo andare verso quella che sarebbe divenuta la capitale della cristianità. La ricca e variegata elaborazione tradizionale di tale viaggio, della quale ho cercato di toccare, seppur brevemente, alcune peculiarità di ordine antropologico, ci mostra viceversa che finanche un minuto episodio, che sembrerebbe destinato a scomparire nelle pieghe del discorso agiografico, può assurgere a snodo fondamentale attraverso cui si è giocato drammaticamente il laborioso avvicendamento di due diversissime concezioni del mondo.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra li quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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