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«La casa del nespolo non c’è più, ‘Ntoni è partito e la barca è affondata». Dialogo con Savatteri

copertinadi  Nino Giaramidaro

Ci conoscevamo. Anni trascorsi insieme alle scrivanie della cronaca del Giornale di Sicilia. Io già adultissimo, lui, Gaetano Savatteri, milanese di Racalmuto, giovane quasi scrittore di quell’accaduto e non, che il gergo chiama cronaca bianca. D’improvviso è andato via. Altri giornali e la televisione. Ha già scritto una ventina di libri. Forse è destinato a surclassare il suo amico Camilleri.

Dopo la presentazione a Mazara del suo ultimo volume (Non c’è  più la Sicilia  di una volta, Laterza 2017), ci siamo messi a parlare, e il discorso è caduto sul contenuto del  libro, sul passato, il presente e il futuro. Rischiavamo la dimensione del circolo all’impiedi. Così abbiamo deciso di continuare la conversazione per iscritto.

Nino Giaramidaro: Gaetano, questo tuo ultimo libro, fra le tante altre cose, mi sembra voglia esortare a guardare al presente siciliano senza preoccuparsi di sapere come ci è stato dato, cioè vivere proiettati in un futuro sempre più nuovo, senza voltarsi per sguardi su ciò che lasciamo. Insomma, è meglio leggere Camilleri e i suoi più o meno riusciti discepoli anziché Verga, D’Arrigo, Leonardo Sciascia e  anche l’aristocratico Tomasi di Lampedusa; preferire il teatro di Emma Dante – che pesante omonimia – a quello di Pirandello; pittura e fotografia nuove piuttosto che opere di Lojacono, Pippo Rizzo, Guttuso, Consagra, Sellerio e Leone. Vorrei chiamarlo fascinose e belle pagine ottative.

Gaetano Savatteri: Vedi, Nino, per gusto della provocazione io nel libro ho esordito prendendomela con Pirandello, Verga, Tomasi di Lampedusa e Sciascia. Ma in realtà dovrei prendermela con i loro lettori, cioè con te e con me, in primo luogo. Perché la questione non è se uno preferisce Camilleri o D’Arrigo, né sul loro valore letterario o sul gusto di chi li ama o li detesta: qui siamo nel campo della soggettività, così come ormai siamo tutti d’accordo che non esiste più letteratura bassa o alta, di consumo o d’elite.

La questione vera è di aver trasformato le pagine della grande letteratura scritta in Sicilia o sulla Sicilia in guide turistiche del presente, in gabbie di decrittazione del contemporaneo. E questo non lo hanno fatto gli autori, che invece raccontavano il loro tempo, ma i lettori che credono di leggere I Malavoglia come specchio della condizione siciliana. La casa del nespolo non c’è più, ‘Ntoni è partito e la barca è definitivamente affondata. Certo, i meccanismi dell’animo umano, diresti tu, non cambiano. E ha fatto bene il regista Pasquale Scimeca a prendere come canovaccio quello dei Malavoglia per raccontare la storia di una famiglia di pescatori di Pozzallo alle prese con le nuove migrazioni. Ma è chiaro che i pescatori di oggi non parlano più come i pescatori di Verga.

Di questo equivoco di fondo è sintomatica la lettura che facciamo del Gattopardo: lo leggiamo come un libro dell’Ottocento, valido per raccontare il 2017. Ma quel libro è stato scritto da Tomasi di Lampedusa nel 1950, cento anni dopo l’Unità d’Italia, quindi con la consapevolezza dell’epilogo della storia e l’amarezza di un uomo che assisteva al lungo tramonto della sua classe sociale, iniziato nel 1860 e che un secolo dopo andava tristemente a concludersi. Era il racconto della fine di un’egemonia (tanto è vero, se ci pensi, che Tomasi di Lampedusa lo scrive proprio quando il latifondo siciliano si sta sgretolando, passando dalle mani dell’aristocrazia a quella dei campieri e dei borghesi). Insomma, il principe di Salina è morto, Tancredi è morto e pure la bella Angelica. Ma se leggi il libro come una guida sociale della Sicilia di oggi, troverai figuranti e comparse, come nel cinema, che “recitano” nelle parti del principe di Salina, di Tancredi o di Angelica. Troverai il folclore lasciato da un grande libro.

 Savatteri alla Bibioteca comunale di Palermo (ph. Nino Giaramidaro).

Savatteri alla Bibioteca comunale di Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

N. G.: Uno di quei pensieri abusivi nel quale il mio tasso di vagabondaggio mi ha subito spinto, a fine lettura, mi porta tra fantasmi, spettri di speranze, avanguardie spuntate, buone intenzioni senza fortuna, peccati di pensiero. Ma più in là, più labili, anche congiure e tumulti nei quali figli uccidono padri malvagi, oppure li chiudono in catene dentro torri e segrete perché non sufficientemente malvagi – possiamo anche dire perché magnanimi – e quindi minacciosamente immobili, ignavi, inutili sopravvissuti. E altro storico sangue che scorre sino a noi nei colpi di stato, golpe tra falangi, guardie rosse e terribili guardiani delle ortodossie.

G. S.: Spero che tu non voglia pensare a me come il figlio che uccide il padre malvagio o troppo magnanimo. Certo, per chiunque scriva, faccia film, scatti fotografie e comunque svolga un’attività creativa o intellettuale dalla Sicilia o sulla Sicilia, l’ “ingombro” dei padri è veramente pesante. Tutti hanno dovuto farci i conti: Brancati con De Roberto, Pirandello con Verga, Sciascia con Pirandello. Hanno dovuto rinchiuderli dentro torri e segrete, vivisezionarli, metterli sul tavolo anatomico, studiarli e ristudiarli. E se ne sono disfatti, alla fine, rendendo il doveroso omaggio ai defunti. Perché se non fai così non procedi.

Io mastico e  rimastico Sciascia da quando sono ragazzino. Ma non sarò mai Sciascia. E quindi cosa dovrei fare? Tacere per sempre perché al mio paese, Racalmuto, è cresciuto un grande intellettuale come Sciascia? Cosa dovrei dire? Hanno già scritto tutto sulla Sicilia, prima e meglio di noi, quindi silenzio, per favore, spegniamo i computer, e limitiamoci a rileggere i classici? Una resa, insomma. Se così fosse, pensa il dramma di Aristotele che era allievo di Platone. Avrebbe dovuto diventare quantomeno platonico anche lui. Ma Aristotele non è Platone, anche se ne è il figlio intellettuale.

Ecco, sarai d’accordo con me che le ortodossie, difese con le gabbie ideologiche o con gli apparati di polizia, non hanno mai fatto tanto bene alla gente. L’ortodossia del canone siciliano – dei gattopardi, dei quaquaraquà, degli uno, nessuno e centomila – difesa ad oltranza, come l’unica e ultima parola possibile sulla Sicilia, credo che abbia fatto del male ai siciliani, al nostro modo di pensarci e di pensare il futuro, considerando la Sicilia come un luogo irredimibile per il quale non valeva nemmeno la pena di provarci.

In fondo a quel pessimismo, peraltro argomentato da autori immensi e quindi con un’autorevolezza culturale spaventosa, se guardi bene, si annida il cinismo di una classe dirigente siciliana che da decenni pensa che non valga fare niente di buono per la Sicilia, tranne arricchire se stessi o i propri amici, di prebende e privilegi, perché tanto i siciliani, si sa, “non vogliono cambiare”. 

Vizzini, 1893, Verga fotografo

Vizzini, 1893, Verga fotografo

N. G.: Credo che lo smarrimento di fronte alla globalizzazione impossibile ci abbia sospinto verso il rischioso confine con il dialetto sino ad immergerci nel liquido – un’altra accezione della società liquida – della madre lingua o lingua madre. Un viaggio annunziato dagli insuccessi linguistico-filosofico-politici e letterari che gli scrittori in Sicilia e sulla Sicilia – ma anche altrove – hanno saputo conquistare fra gruppi e antigruppi, dal dopoguerra al 1992, la tua data spartiacque fra passatismo e futuro.

G. S.: Ecco, qui non siamo d’accordo. Negli anni Sessanta e Settanta si diceva che il dialetto stava scomparendo. Ricordo che il dialetto era oggetto di cattedre di antropologia culturale, reperto di un’era che il consumismo avrebbe presto spazzato via e omologato. In quel momento il dialetto, come fossile, come ricerca, diventò oggetto di studi e ricerche archeologiche. Si andavano a disseppellire termini e modi in via di sparizione, ma sparivano perché legati a mestieri e usanze ormai desuete. Il dialetto resisteva in quei musei di storia delle tradizioni popolari, nei cartellini scritti a mano accanto a vecchi oggetti dei mestieri del mare o delle campagne, con tanto di spiegazione a fianco: tùmminu: unità di misura degli aridi; lancedda, contenitore in creta o zinco per il trasporto dei liquidi; virrina, strumento per fare buchi nel terreno. Era un dialetto tarlato, polveroso, inutilizzabile perché legato a cose non più usate. E sono sicuro che nessuna famiglia, una volta guadagnati lavandino e rubinetto in casa, rimpiangesse le lancedde caricate sui muli o dritte sulle teste delle donne nel percorso quotidiano dalla fontana all’abitazione.

Perché rimpiangere le parole, se non rimpiangevamo il passato di fatica e di miseria che quelle parole si portavano dietro? I gruppi e antigruppi di avanguardia, naturalmente, usarono prevalentemente la lingua nazionale, proprio per sottrarsi alla doppia epopea contadina o popolare che era il mainstraim dominante della letteratura siciliana. Ricordati che Sciascia era sempre molto critico sull’uso del dialetto, cosa di cui rimproverò anche Camilleri, a meno che non fosse usato come lingua poetica e musicale alla Ignazio Buttitta o alla Rosa Balistreri.

Oggi scopriamo che il dialetto, in Sicilia, non è morto: ha perso molte parole, altre ne ha guadagnate, magari figlie di contaminazioni con l’italiano. Non solo, è diventata una lingua nazionale. Molti registi mi dicono che portano all’estero opere moderne in dialetto (penso a Vincenzo Pirrotta, Emma Dante, Giuseppe Dipasquale) e la sua musica e la sua espressività vengono comprese e recepite: d’altra parte di fronte a un pubblico che non conosce l’italiano, il dialetto diventa una lingua straniera come qualsiasi altra, ma con qualcosa in più di sonorità. Quindi, il dialetto non è la risposta al timore della globalizzazione, ma una forma ulteriore di partecipazione alla globalizzazione. Se vuoi parlare con gli altri o impari la loro lingua o ti fai capire con la tua, e forse il dialetto si fa capire di più.

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Zia Giovanna, 1892, Verga fotografo

N. G.: Un po’ di tempo perduto aggirandomi intorno al giovanilismo. Un postulato antico. I giovani sempre migliori degli adulti e degli adultissimi. Questo misterioso aggettivo si ritrova sempre, messo di traverso, nelle arti, nella letteratura, nella politica, nella vita di ogni giorno. Dovunque. Come promessa di certezze migliori. Forse perché deve essere ripagato delle guerre – i soldati sono giovani – oppure delle gesta atletiche. Sinonimi di giovane possono essere vigorìa e forza. Categorie che incidono poco nell’esercizio del pensiero, nell’elaborazione delle idee: Dante era nel mezzo del cammin di sua vita quando iniziò la Commedia. Pesano gli apprendistati e le buone intenzioni con la strada dell’inferno che le aspetta. Non penso che i giovani possano vantare primati sui “vecchi”, anche se tra questi saggi sapienti ho incontrato campioni di stoltezza. Il giovanilismo per forza mi sembra un asintoto con quella retta che non riesce mai a toccare la curva del meglio prima di precipitare nell’infinito.

G. S.: Non mi accusare di giovanilismo. D’altra parte, sai che sostengo quanto sia stato essenziale Camilleri per lo sdoganamento di una nuova Sicilia. E Camilleri è uno scrittore tardivo che ha esordito a settant’anni. Come lo è stato Gesualdo Bufalino, anche lui un grande innovatore dentro il neo-neo-realismo siciliano. Io mi sono limitato a  registrare cosa è successo, secondo me, negli ultimi venticinque anni: in musica, letteratura, cinema e arti varie. Ho cercato di fotografare non tanto il più giovane, quanto il più recente. D’altra parte, se guardi bene, anche gli autori del passato sono stati giovani e da giovani hanno scritto – anche se in Sicilia i grandi quasi sempre hanno esordito nella piena maturità della propria vita. Ma non voglio nemmeno contrapporre “i vecchi e i giovani”. Io parlo di passato e presente. Il presente, secondo me, è questo. Migliore o peggiore? Profondo o superficiale? Non lo so. Ma so che il passato, declinato sotto forma di tradizione o di eredità o di età dell’oro, è utile, è memoria, è consapevolezza, è ricchezza. Ma è passato. Questo, almeno, me lo concederai.   

Vizzini, 1900, Verga fotografo

Vizzini, 1900, Verga fotografo

N. G.: Tornando ai nostri vecchi merletti, constato che nonostante l’arsenico asperso sopra loro, l’oblìo non riesce a farli suoi. Tanto che nel 2010 una commissione nominata dal ministro Maristella Gelmini tolse dai programmi dei licei lo studio di una serie di poeti e scrittori, quasi tutti meridionali e siciliani, con in testa il premio Nobel Salvatore Quasimodo e Leonardo Sciascia, Vittorini continuando con Alfonso Gatto, Rocco Scotellaro, Ignazio Silone, Carlo Levi e diversi altri. Un buon lavoro di pulizia (pure etnica) delle incrostazioni del passato. Chissà se queste norme sono ancora cogenti e a parlare fra i banchi si rischiano bacchettate. Forse è bene recitare alcuni Confiteor.

G. S.: Non è l’antologia della Gelmini o di qualsiasi altro ministro a segnare l’oblìo verso un autore. È la sua capacità, questo sì, di parlare al nostro presente. I grandi autori siciliani questo sanno farlo, e fin troppo bene, ti direi, visto che ad ogni nostro amico che viene a visitare per la prima volta la Sicilia gli consigliamo di leggere Sciascia, Pirandello e Tomasi di Lampedusa. Magari dovremmo avvisarli: non troverai un principe di Salina o un don Mariano o un Ciampa ad ogni angolo dell’Isola. Anzi, dovremmo metterli in guardia: vedi che se li incontri sono solo imitazioni dell’originale, gente che ha letto male quei grandi libri e li riproduce per ingannare i turisti (come i centurioni che stanno davanti al Colosseo: non crederemo che sono veramente Antonio e Giulio Cesare?).

Leggiamo i nostri grandi scrittori, guardiamo e riguardiamo i grandi film, studiamo e ristudiamo le foto di Enzo Sellerio o di Ferdinando Scianna. Ma dobbiamo sapere che quel mondo è fatto di memorie. Enzo Sellerio, lo sai meglio di me, fotografò l’asino, lu sceccu, davanti alla portaerei al largo di Palermo. Era il 1960. L’asino per le strade della città era ormai già quasi una rarità. E davanti a quella portaerei segnalava che una civiltà contadina e un sottoproletariato urbano erano sul punto di sparire per sempre di fronte alla potenza della modernità. Se provi a rifare quella stessa foto oggi nessuno ci crederebbe più. Non perché non ci siano più portaerei, ma perché per trovare un asino lo devi affittare e lo devi portare appositamente in via Lincoln. Se oggi provassi a fare quella foto sarebbe una foto falsa. La foto di Enzo Sellerio è invece bella perché autentica, autentica perché bella. È la memoria di una memoria. Ci parla dal passato. Così i grandi autori: ci parlano del passato, ma riescono a farci emozionare e pensare.

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Vizzini, 1897, Verga fotografo

N. G.: Ma siamo sicuri che lettere e arti precedenti il 1992 non abbiano lanciato alcuna profezia per affrontare con un Tom Tom un po’ più preciso la nostra modernità infelice? Non riesco a credere che ogni generazione sia un tratto di tempo chiuso, immemore delle lucciole e rischiarato dalle “false luci” contro le quali il Papa ammonisce. Successo, fama, notorietà: giganti dai piedi d’argilla che crollano d’improvviso sui gossip e li spengono. Guido da Verona, Pitigrilli, c’è qualcuno disposto a credere che esistettero con tanti best seller e long seller? Dimenticati, e come loro centinaia di altri, anche abili di penna. Secondo me perché privi di veggenza, non hanno scritto una sola quartina. Credo ci sia bisogno di tante profezie.

G. S.: È vero. Ci vorrebbero più profezie. Ma quanto più il mondo è mobile, cangevole, mutante e veloce, tanto meno è facile profetizzare il futuro. I grandi autori sono eterni perché parlano al fondo delle cose, perché tracciano linee dentro cui si muove l’umanità: tratti fondamentali dell’essere e dell’esistere.

Tolstoj ci racconta molte cose di come siamo al fondo uomini e donne, ci spiega quali sono i dubbi, i tormenti e gli interrogativi che ci muovono, ma non racconta la Russia di Putin. Sofocle ci spiega come siamo fatti, ma non descrive la Grecia di oggi. I grandi autori-profeti della Sicilia ci raccontano come è fatto il corpo sociale, da cosa è spinto in avanti o indietro, ma sono letture universali, non certo profezie della Sicilia di oggi. L’avidità di Mazzarò è comprensibile a tutte le latitudini, e vale oggi per il grande capitale, parla della crisi di Wall Street, ma non può essere letta come la divinazione della realtà agricola della Sicilia degli anni Duemila. Ci servono profezie non su come essere siciliani, ma donne e uomini del nostro tempo.

N. G.: Pesco dalle nebbie diradate dai venti rossi della memoria D’Arrigo, Stefano D’Arrigo 1957:

«Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari,
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece.
Alle marine, nel fragore illune
delle onde, per nuvole e dune
a spirale di pallide ceneri
di vulcani, alla radice del sale,
discesi dall’alto al basso
mondo, figurati sul piede
dell’imbarco come per simbolo
della meridionale specie,
spatriavano, il passo di pece
avanzato a più nere sponde,
al tenebroso, oceanico
oltremare, al loro antico
avverso futuro  di vivi.
(…)
… cacciati di qua, dai ruggenti
enigmi, gli innocenti,
coi perduti averi, le vite,
le labbra per sempre cucite,
emigravano nell’aldilà». 

 Che ne dici? Stefano D’Arrigo veggente dimenticato. Può essere l’occasione (questo stralcio di versi) per tributargli un minuscolo omaggio in coincidenza dei sessant’anni del suo libro di poesie Codice siciliano, pubblicato nel ’57 dall’editore Vanni Scheiwiller. Riapparso ne Lo Specchio Mondadori nel ’78, precipitò poi in decenni d’oblìo. Per questo la piccola casa editrice Mesogea, messinese come D’Arrigo, non vuole «nascondere l’orgoglio di averlo ripubblicato» nel 2015. 

G. S.: Stefano D’Arrigo ha una scrittura densa e messianica. Ma se leggi bene, quel “passo di pece avanzato a più nere sponde” non parla più di noi siciliani che emigravamo e continuiamo a emigrare (magari con i voli low cost). Parla di tutti quelli che approdano a Lampedusa e sulle coste siciliane, di chi attraversa il Canale di Sicilia, di tutti coloro che “emigrano nell’aldilà”. La profezia di D’Arrigo si è avverata, ma capovolta. Altri arrivano da noi (cosa che non era mai successa prima) e noi siamo qui ad aspettarli o a respingerli. Sapremo riconoscere il “loro antico avverso futuro  di vivi” che fu nostro, che ancora è nostro, negli occhi spaventati di donne, uomini e bambini in fuga dai “ruggenti enigmi”? O ci volteremo da un’altra parte e diremo che sono turchi pronti ad invaderci? Affinché ci siano profeti e profezie, occorre un popolo pronto a  riconoscerli come tali. Anche se, lo sappiamo, nessuno è profeta nella sua patria. E in Sicilia ancor meno.

Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.

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