di Alessio Tarantino
La festa del Santo Patrono è accolta dalla comunità come un evento che racchiude in sè devozione e aggregazione. Il fare festa rende possibile l’identificarsi della comunità nel Santo stesso. Il legame fondativo che la cittadinanza stringe con il Santo che ne è il simbolo e il suo ruolo di taumaturgo rendono il Patrono defensor civitatis. Il Santo rappresenta il garante delle due facce della comunità: quella interna che riguarda le relazioni tra gli abitanti della città e quella esterna relativa agli scambi tra una comunità e l’altra. Non a caso nel dì di festa si indossano gli abiti migliori e si espongono alle finestre le coperte più belle, così da mettere in scena il meglio di sé agli altri. Il Patrono rappresenta sia il difensore che l’emblema (figura simbolica) della collettività. Questa doppia funzione tutelare e identificativa designa la sua portata politico-religiosa sul territorio.
Nella festa si realizza, attraverso l’ostentazione rituale del simulacro, una sorta di diffuso travaso, di spargimento, dell’essenza sacra di cui l’immagine è carica sulla scena sociale. Ognuno degli attori presenti nel teatro festivo, sia pur in misura diversa per via della diversa posizione in esso ricoperta, riceve su di sé la potenza responsabile custodita nel simulacro e ne trae giovamento. Se, insomma, il simulacro divino, lungi dall’essere mero oggetto, è essenza, questa, attraverso la festa, viene elargita ai presenti. L’occasione si pone, dunque, come grande momento di spartizione, collettivamente organizzata e politicamente orientata, del simulacro e dell’essenza in esso contenuta.
La festa, con un determinante contributo delle immagini e con la non meno determinante mediazione dei gruppi corporati e delle gerarchie civili e religiose che le gestiscono, rinsalda, come scrive Jean Jacques Wunenburger, «il rapporto orizzontale degli uomini tra loro e il rapporto verticale degli uomini con un piano soprannaturale e trascendente». I portantini hanno il compito, nell’ambito della processione, di organizzare una strategia espositiva del simulacro, ottimizzandone la funzione eidetica; è per il loro tramite, del resto, che ogni offerta, piccola o grande, viene scambiata con l’immaginetta che lo riproduce. È questa funzione di interpreti della visione, o di amministratori dello sguardo collettivo, che conferisce alle immagini il prestigio comunitario, e il potere che ne deriva. Su di un piano più generale va rilevata un’estrema sensibilità dei portantini nei confronti dell’aspetto del simulacro, un’ammirazione per le sue forme, una preoccupazione per la sua conservazione, un apprensivo senso di responsabilità per ogni operazione che comporti una sua manipolazione. Il gruppo statuario è presente, però, nella vita di tutta la comunità: viene sognato spesso, viene rammentato spessissimo nei discorsi, e la sua presenza si lega a fatti centrali nella vicenda di molti; un’attenzione per la sua nascosta esistenza pervade costantemente il paese e investe trasversalmente classi e gruppi sociali. Nella festa le barriere spazio-temporali che normalmente separano il fedele e la divinità si dissolvono, consentendo, in quel tempo e in quel luogo, il tempo e il luogo del rito, un contatto diretto e immediato, concreto e fisico.
La devozione che vivono gli abitanti di Caccamo, piccolo paese della provincia di Palermo, per il loro concittadino e patrono, il Beato Giovanni Liccio, li porta a identificarsi nella figura stessa, come modello di vita da seguire e rispettare. Questa unione profonda tra la comunità e il Beato si manifesta nella festa a lui dedicata, in due momenti diversi dell’anno: il lunedì successivo all’ultima domenica di maggio e il 14 novembre, due date che commemorano due differenti avvenimenti della comunità e della vita del Beato. Il lunedì successivo all’ultima domenica di maggio, la città di Caccamo e i devoti del domenicano Giovanni Liccio celebrano la seconda traslazione delle reliquie, che in occasione della sua beatificazione vennero riportate alla luce cambiandone la collocazione originaria. Fu Filippo Lopez, arcivescovo di Palermo, che in ricordo di tale avvenimento nel 1754 dedicò un altro giorno di festa. In data 25 aprile 1753, l’allora papa Benedetto XIV approvò il decreto della Congregazione dei Riti, elevando agli onori degli altari Giovanni Liccio, primo Beato domenicano di Sicilia. La celebrazione del culto fissata per il 14 novembre ricorda il pio transito del Beato. Sia le reliquie che il simulacro sono conservati in due diverse chiese dove sostano durante l’anno per la venerazione: l’intero corpo del Beato è custodito nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, fondata dal Beato stesso quale sede conventuale domenicana. Il simulacro ligneo invece è conservato nella chiesa del “Beato Giovannello”, che sorge nell’antico quartiere Rabbato dove il Beato è cresciuto.
La festa più sentita dalla comunità rimane quella di maggio, quando viene portata in processione l’urna contenente le sacre reliquie. Prima della festa è spostata dalla navata di destra ed esposta dietro l’altare, per permettere ai fedeli la venerazione. In questo tempo il Beato diviene “porta sull’invisibile” e il suo simulacro, perenne memoria della sua funzione di tutela lungo il corso dell’anno, non è più simbolo di una presenza ma presenza esso stesso. Si irrora di sangue e di emozioni, risvegliatosi d’un tratto dal pacato letargo della propria cappella che spesso lo occulta allo sguardo dei fedeli. Ascolta adesso le loro implorazioni e sente i loro baci avidi lambire il volto, le mani, i piedi. È allora veramente che il corpo santo diviene redistributore di quella potentia divina che lo investe, facendone una metafora incarnata che rivelandosi sacralizza e rifonda il cosmos.
La festa ha inizio alle prime luci dell’alba con il gioco pirotecnico “a masculiata”, che avvisa la cittadinanza. In questo giorno tutto si ferma, gli esercizi commerciali chiudono e chi lavora fuori città chiede di poter donare il sangue, per ottenere un giorno di permesso e fare ammenda per i propri peccati a suffragio della propria anima. Per le strade al suono del rullo del tamburo, i questuanti passano di porta in porta. Le offerte in denaro arrivano anche da una piccola comunità di emigranti caccamesi a Chicago, che per commemorare anche a distanza il loro amato patrono hanno eretto una cappella e riprodotto fedelmente l’urna che contiene un frammento di osso; ogni anno, in coincidenza con la data dei festeggiamenti, l’urna con la reliquia viene portata in processione nei quartieri italo-americani.
Durante il pomeriggio la vara viene adornata con luci e con gigli profumati che sono uno degli attributi iconografici del Beato. In occasione della processione il fercolo è coperto dagli ex-voto che, messi in bella vista, fanno sfoggio della potentia del grande taumaturgo. Finita la solenne messa, la chiesa e il sagrato sono gremiti dai fedeli che sono in attesa di ricevere il pane benedetto, mentre si fissano i palanchini per il trasporto della pesante vara. Tutto è pronto per mettere in moto il tempo festivo. Il corteo è composto dalle varie confraternite, prima fra tutte quella del terz’ordine domenicano, dai membri del comitato, insieme al clero e alle alte cariche comunali. Essi precedono il simulacro sorretto dai portatori, per l’occasione vestiti con un pantalone bianco e una casacca nera che ricordano i colori domenicani del patrono. Chi ha ricevuto una grazia, fa voto di percorrere l’intera processione scalzo e con “l’abitinu domenicanu”. L’uso di identificarsi con il Beato attraverso gli indumenti che lo rappresentano, è molto comune e accompagna dalla nascita fino alla morte gli abitanti. Infatti è consuetudine battezzare i bambini con l’abitino domenicano e seppellire i morti sempre con lo stesso scapolare, a protezione per tutta la vita e oltre la vita.
Uscita dalla chiesa, l’urna tra canti e preghiere è scortata dal rullo incessante del tamburo, che precede la banda musicale e scandisce il ritmo della festa. Il corteo processionale attraversa le vie della città secondo un percorso codificato dalla tradizione. È possibile che durante il tragitto la vara, su richiesta, sosti davanti le abitazioni di alcuni devoti che, impossibilitati a partecipare alla processione a causa di malanni o problemi fisici, possono rivolgersi direttamente al Beato, per assicurarsi una pronta guarigione. Una sosta prolungata tocca l’antico quartiere Rabbato, in prossimità della chiesetta del Beato Giovannello, ove nacque il patrono e trascorse il periodo della fanciullezza, prima di entrare al convento di Santa Zita a Palermo. Nel quartiere Rabbato un sacerdote domenicano, predicando da un balcone, invita la cittadinanza e i fedeli ad accostarsi all’immagine del Beato, un modello di virtù cristiana da seguire e da prendere a esempio di vita. La processione riprende poi per le vie della città tra salite e strettoie, fino a rientrare nella chiesa di appartenenza, tra canti e applausi, mentre la folla ripete coralmente l’invocazione del sacerdote che al megafono acclama il loro illustre concittadino: «Viva il Beato Giovanni! Cittadini acclamiamo tutti il Beato Giovanni!». All’interno della chiesa, la vara sarà spogliata dei gigli che decorano il fercolo, da parte di una folla festante che si accalca per poter riceverne in dono, a protezione dei propri “lari domestici”. I fiori diventano essi stessi reliquie per acclamazione popolare. La festa e il suo rito propiziatorio si concludono con i giochi pirotecnici destinati a colorare la notte insieme alle luminarie e ai profumi che incorniciano il tempo festivo.
A Caccamo il corpo del Beato ha sempre suscitato un forte legame, tessuto da una profonda componente apotropaica. Il corpo è oggetto di attenzioni morbose a tal punto che gli stessi cittadini, dai racconti raccolti, hanno sempre temuto e negato una possibile canonizzazione; poiché convinti che con l’elevazione agli onori degli altari il corpo del Beato sarebbe andato a finire a Roma. La paura della mancanza della “grazia” causata dalla non presenza del corpo dentro i confini urbani ha generato la credenza che, se il Beato diventasse Santo e il corpo lasciasse la città, i miracoli sarebbero cessati e la sventura si sarebbe abbattuta sul comprensorio.
Questa forma tradizionale di devozione configura un rapporto privilegiato di tipo privato tra il protettore e il protetto, fra il miracolante ed il miracolato. A questa particolarissima concezione popolare della santità occorre risalire per penetrare l’intimo significato culturale della reliquia, vero e proprio prolungamento del corpo del santo, al quale è affidata la funzione del patrocinio ossia della protezione della città. Collocare la tomba del santo sotto l’altare della cattedrale rappresenta quella centralità che era stata attribuita agli eroi del passato quando i loro corpi venivano sepolti sotto la città fondante. La genesi di un culto muove sempre da una reliquia, la cui scoperta costituisce ben più di un atto di pia archeologia. A Caccamo la pietra fondante della città poggia sulle reliquie del Beato Giovanni Liccio.
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014