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Schiavitù e resilienza. Per una riparazione etica ed estetica del mondo

copertina di Orietta Sorgi

«Siamo venuti a meditare su una terribile forza discatenata in un passato non così lontano. Siamo venuti a piangere i morti, compresi centomila uomini, donne e bambini giapponesi, migliaia di prigionieri americani. Le loro anime ci parlano, ci chiedono di guardarci dentro, di considerare ciò che siamo e ciò che potremo diventare». Così Barack Obama nella sua storica visita a Hiroshima nel maggio del 2016, invita a guardarci dentro per capire chi siamo veramente, partendo proprio da quel dialogo con i defunti che alla gran parte della popolazione ancora oggi viene negato.

E in effetti le migliaia di migranti che costantemente muoiono nel mar Mediterraneo senza avere diritto ad un’adeguata sepoltura, ci obbligano a nuove riflessioni nel tentativo di rideclinare le pulsioni umane verso quel “sovrappiù di vita” oltre la morte, che l’elaborazione del lutto offre  come unico rimedio per onorare chi dalla vita è stato escluso. Un filo conduttore lega nel tempo i morti di Hiroshima ricordati dall’ex presidente nero ai profughi di guerra e ai migranti scappati dai loro paesi, colpiti da una medesima situazione di vulnerabilità e marginalità sociale.

Su questi argomenti e principalmente sul rapporto fra schiavitù e migrazione si sviluppa il pensiero di Fabrice Oliver Dubosc nel suo bel libro Approdi e naufragi. Resistenza culturale e lavoro del lutto. Tracce per una psicologia post-coloniale, edito da Moretti&Vitale nel 2016. Come è esplicito nel sottotitolo, il volume richiama la letteratura postcoloniale degli ultimi decenni, con un ampio ricorso agli strumenti della psicologia analitica, della psicanalisi, ma anche dell’antropologia culturale.

L’intento è quello di rimettere in discussione certi assiomi ritenuti inviolabili del pensiero occidentale, complici anche le grandi teorizzazioni delle discipline etnografiche dei due secoli precedenti che attraverso il concetto di razza e identità hanno finito col fornire una giustificazione ideologica al colonialismo. In tal senso il significato stesso di naufragio, oltre a rappresentare la condizione estrema del migrante, sempre in bilico fra tragedia e salvezza, sembrerebbe qui rivestire il valore simbolico di una crisi radicale della stessa civiltà occidentale, di quella reale egemonia del liberismo economico che ha generato la grande espansione coloniale delle potenze europee.

L’autore parte da lontano, ricollegando la condizione dello schiavo nell’antichità a quella del migrante delle società post-contemporanee, caratterizzati entrambi da un’identica condizione di non vita, di riduzione dell’individuo a cosa, di proprietà di qualcuno, privato di qualsiasi godimento dei diritti minimi di convivenza sociale e civile. Da questo punto di vista quel filo non sembra mai essersi spezzato e i problemi di disuguaglianza sociale sembrano oggi evidenziarsi con maggiore efferatezza.

Ma proprio da queste situazioni traumatiche di sradicamento umano che caratterizzano il migrante così come lo schiavo, possono nascere forme di resilienza culturale, dalla coesistenza forzata di più etnie e dunque dai processi di creolizzazione sorti durante la tratta o la corsa degli schiavi. Un contatto forzato che fa nascere gioco forza una serie di fenomeni incrociati di conversione e mescolanza, assimilazione e contaminazione con ciò che rappresenta l’“altro” o il “nemico”.

Un esempio sintomatico di rovesciamento simbolico nel segno del riscatto dalla schiavitù è confermato in primo luogo da una serie di culti creolizzati che assurgono a ruolo di protezione in tutti i casi di estremo pericolo e soprattutto garantiscono il passaggio dalla vita alla morte con una buona sepoltura. Così Nostra Signora di Lampedusa che dalla Sicilia approda in Brasile assumendo la protezione dei moribondi. Così San Benedetto il Moro, il santo negro, che proprio per il suo peregrinare da captivus, in Spagna e Portogallo e infine in Africa e in America Latina diviene per milioni di schiavi icona privilegiata dell’abolizionismo, assunto a culto di protezione nel garantire il difficile passaggio dalla dimensione terrestre a quella oltremondana. Da qui anche il proliferarsi di tutte quelle confraternite intestate ai santi creoli, attive nell’assicurare il perpetuarsi di queste pratiche risanatrici.

San-Benedetto-il-Moro

San Benedetto il Moro

L’elaborazione del lutto restituisce allo schiavo il diritto ad una vita degna di essere vissuta e dunque onorata e ricordata. Il rito mette in atto così meccanismi compensativi, soprattutto attraverso la rammemorazione di tradizioni lontane, delle originarie radici che ora s’incontrano mescolandosi con nuovi elementi, creando ibridismi e forme di resistenza: durante queste performances viene alla luce  ciò che è stato infranto o rimosso, talvolta attraverso meccanismi onirici o fasi di improvviso risveglio.

Dubosc richiama Bastide che ha insegnato che la religione è una forma creativa, un rimedio per le scissioni, veri e propri dispositivi di cura e riparazione delle fratture della Storia. A partire da un trauma, da una condizione di crisi, anche le immagini iconografiche giocano un ruolo pregnante, producendo nuove forme di creatività culturale e di resilienza. Sarebbe riduttivo a questo punto considerare il rito secondo certe accezioni dell’antropologia ed etnografia classica, come semplice ripetizione di ciò che è avvenuto in “illo tempore”, nel mito di fondazione, anzicchè come processo dinamico che, facendo appello a narrazioni generative, si adatta a contesti che mutano costantemente, come quelli dello schiavo o del migrante.

Nelle società tradizionali e/o primitive come in quelle contemporanee la morte costituisce l’evento destabilizzante per eccellenza, un trauma provocato dalla perdita di una persona cara,  strappato alla rete delle relazioni familiari e dei vincoli affettivi. Una lacerazione che va risanata reintegrando l’evento tragico nell’orizzonte esistenziale dei vivi: è la crisi del cordoglio, di demartiniana memoria, in cui l’individuo nel farsi procuratore di morte si dischiude alla vita, ma attraverso il pianto rituale elabora il lutto, ricomponendo la negatività sociale ed emotiva in un nuovo equilibrio.

Fra i Sora ad esempio, il morto è un sonum, un sintomo che contagia, una presenza infestante e sovversiva che richiede una serie di operazioni graduali per far sì che il defunto da fantasma persecutorio diventi antenato, elemento protettivo della comunità. L’aldi là, la dimensione invisibile propria della morte non viene rimossa né negata ma gradualmente assorbita fino alla reintegrazione del defunto nella figura dell’antenato, con una coerenza identitaria che funge da modello esemplare per i familiari.

Nelle società moderne occidentali, al contrario, il rapporto con la morte diviene spesso patologico, nel momento in cui si tende ad idealizzare eccessivamente le qualità del defunto attraverso i ricordi, mettendo in atto progressivamente dei processi di rimozione che confluiscono in atteggiamenti di vero e proprio narcisismo. In questo senso Freud parla di pulsione di morte come coazione a ripetere che concentra in modo eccessivo l’attenzione dell’io sull’oggetto della perdita assumendolo al sé individuale e appropriandosene.

In realtà ciò che si teme nella modernità, avverte Freud, non è tanto l’aliud, ma il simile e da questo prende corpo il narcisismo delle grandi differenze, a partire dalle più ovvie, prime fra tutte quelle legate al colore della pelle. Freud ricorda ancora la persecuzione nazista contro gli ebrei, generata dal bisogno dei tedeschi di una riduzione immunitaria, escludente gli elementi di maggiore vulnerabilità.  Del resto lo stesso Hegel, padre della filosofia idealistica tedesca, aveva spiegato la schiavitù nei termini di una connaturata debolezza umana, di chi rinuncia alla guerra per la supremazia e dunque sceglie implicitamente la servitù e la sottomissione nei confronti del più forte come alternativa estrema alla morte.

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Xilografia da Cesare Vecellio, 1590

Ma l’inconscio razziale trovava anche una legittimazione nel pensiero scientifico illuminista secondo quella logica che rappresentava l’Africa come ferma in uno stadio dell’infanzia che non si era mai evoluta e dalla quale gli altri popoli erano da tempo usciti. La negazione di un’umanità comune, la creazione del concetto di razza come misura della differenza e della segregazione è divenuto così, per secoli, lo strumento ideologico per rendere schiavi milioni di persone generando, nella modernità, la grande espansione economica e commerciale.

Secondo i pensatori postcoloniali si tratta allora di rivedere sistematicamente l’universale umano, non tanto come possibilità di integrazione o inclusione in una struttura funzionante e stabilita a priori, ma piuttosto come co-creazione di una casa comune fondata su una nuova etica, quella dell’incontro e della differenza, sulla condivisione delle singolarità, di singolarità multiple. Non esiste un’unica radice entro cui assimilare e/o escludere le diversità, esiste un processo dinamico di costruzione delle identità, frutto di relazioni continue e nuovi apporti che rielaborano  tradizioni lontane e appartenenze.

Il tentativo diviene allora quello di rileggere la modernità a partire da quelle esperienze traumatiche della schiavitù e della tratta, della corsa nel Mediterraneo come fenomeni trans-nazionali, interetnici e interculturali, non in termini di una supposta razionalità delle nazioni atte a garantire, tramite il colonialismo, un progresso senza fine, inteso come panacea di tutti i mali.

Un’ipotesi decostruzionista che guarda principalmente a quanto è accaduto nelle navi che attraversavano l’Atlantico o nelle piantagioni di sfruttamento schiavista. In questo senso sia la nave che la piantagione possono senz’altro configurarsi come cronotopi all’interno dei quali nascono nuove forme culturali, assumendo come dato di partenza la disumanizzazione e lo sradicamento umano. Un’identità nascente non sulla base del possesso della terra o del sangue, ma sulla relazione. La nave come la piantagione sono luoghi atipici, dove il transito da una forma di vita coerente alla “nuda vita dello schiavo” è estremo. Tuttavia durante i viaggi di deportazione nascono nuove forme di solidarietà e quasi per contrappasso la costruzione di uno spazio inedito con la consapevolezza di un’inevitabile interdipendenza. Secondo Gilroy è proprio a partire da questa forma di consapevolezza dell’infranto che si forma una nuova coerenza evocativa, una memoria della schiavitù che dà origine a forme creative e artistiche. Un esempio per tutti è lo sviluppo della musica blues degli spirituals afroamericani, nata nei luoghi delle piantagioni schiaviste.

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Vendita di una schiava, incisione di G. M. Mitelli, sec.-XVIII.

La creolizzazione determinata dalla convivenza all’interno di questi micro- cosmi, sottolinea come la trasmissione culturale consiste prevalentemente in questa capacità di dare valore all’innesto, nel saper contenere, trasformare e integrare ciò che non è originario, mantenendo viva e riscoprendo una traccia della propria originalità. Non una trasmissione lineare come quella che avveniva nella tradizione, dove l’irruzione di un evento veniva subito incanalato dai riti di inziazione, ma un processo di fratture e interruzioni. D’altra parte neanche lo stadio pre-coloniale può configurarsi come un prima idilliaco, privo di contraddizioni, grazie ad una supposta e originaria identità etnica, determinata essa stessa da una territorialità itinerante (Mbembe) che opera per mutazioni, scissioni, espansioni, nomadismi.

Di fatto anche l’antropologia contemporanea ha la sua responsabilità, come si diceva in apertura, nell’invenzione strumentale della razza, dell’etnia e della cultura. Non è certamente casuale che la disciplina sia nata nell’ambito del colonialismo e che il suo ambito referenziale si sia sviluppato attorno ad un concetto scientifico di cultura basato sul confronto e la classificazione. Il rapporto fra noi e gli altri e il riconoscimento dell’alterità nel progetto coloniale delle potenze europee veniva supposto in maniera asimmetrica secondo quel paradigma evolutivo che dal semplice al complesso avrebbe portato, per successione lineare di stadi,  al modello della civiltà occidentale. Ma questa visione gerarchica della cultura giustificava in fondo anche l’idea di una diffferenza qualitativa con le culture altre.

Risuonano ancora tragicamente attuali, a questo proposito, le considerazioni di Levi-Strauss in Tristi Tropici: «Che cosa è propriamente una inchiesta etnografica? L’esercizio di una normale professione […] o è la conseguenza di una scelta più radicale, che implica la messa in causa del sistema nel quale si è nati e cresciuti?». E altrove: «Se l’Occidente ha prodotto degli etnografi è perché un cocente rimorso doveva tormentarlo, obbligandolo a confrontare la sua immagine a quella di società diverse, nella speranza di vedervi riflesse le stesse tare o di averne un aiuto per spiegarsi come le proprie si fossero sviluppate…L’etnografo si può tanto poco disinteressare della sua civiltà e declinare ogni responsabilità delle sue colpe che la sua stessa esistenza di etnografo è incomprensibile se non come tentativo di riscatto: la condizione di etnografo è simbolo di espiazione». I segni di quel cattivo passato, per dirla con De Martino, che periodicamente riemergono e da cui bisogna liberarsi, nel nostro caso rappresentati emblematicamente dall’esperienza della schiavitù, ancora attuale, sotto altre vesti, nel configurarsi come segno di sopraffazione e supremazia di una porzione di umanità su un’altra.

Forme-di-schiavitù-oggi

Forme di schiavitù oggi

Neanche il relativismo culturale in fondo, malgrado le buone intenzioni, era riuscito a combattere realmente l’etnocentrismo: nel ricondurre le differenze culturali al loro contesto d’origine finiva per affermare la reclusione delle identità nel ghetto di ogni singola cultura. Nella visione degli antropologi di scuola relativista, ma anche in quella del funzionalismo anglo- sassone il rischio è stato quello, come ha ben messo in luce Silvana Miceli nel suo In nome del segno, di produrre delle entità omeostatiche sempre in equilibrio fra loro, dove ogni parte è funzionale al mantenimento del tutto. Il concetto differenziale di cultura, avverte la studiosa palermitana, impedisce di riconoscere gli universali culturali, escludendo qualsiasi possibilità di comunicazione e relazione fra le diverse etnie. In tale prospettiva, andrebbe rivista, con ogni probabilità, anche la dicotomia levistraussiana tra società calde e società fredde. In realtà, come abbiamo visto finora e come evidenzia Mbembe, neanche l’identità pre-coloniale può essere considerata come un meccanismo  privo di contraddizioni, nè si definisce unicamente dal radicamente in un luogo, ma è qualcosa che nasce dalla negoziazione della vulnerabilità nei confronti della forza e dell’arbitrio.

In definitiva il volume di Dubosc rivendica, da più prospettive filosofiche, antropologiche e psicanalitiche, il diritto di riconsiderare la storia come un sintomo, in cui gli eventi traumatici irrompono con forza nel presente, come il bisogno di onorare i propri morti, restituendo non soltanto una continuità oltre la vita, ma dando a tutti la possibilità di un reale inserimento nel tessuto sociale, la certezza di essere cittadini del mondo, in possesso dei medesimi diritti e doveri. Probabilmente quell’approdo richiamato nel titolo del libro, al di là del suo senso reale di luogo fisico di accoglienza, ultima àncora di salvezza dopo lunghe traversate per mare, potrebbe anche significare metaforicamente la possibilità di immaginare nel futuro una più equa distribuzione delle risorse, ridisegnando nuovi equilibri nel mondo. In altre parole, con l’autore, una riparazione etica ed estetica del mondo.

Dialoghi Mediterranei, 26, luglio 2017
Riferimenti bibliografici
De Martino, Ernesto
1975    Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino, Boringhieri
Lévi-Strauss Claude
1960    Tristi Tropici, Milano, Il Saggiatore
Miceli, Silvana
1983    In nome del segno, Palermo, Sellerio

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, lavora presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, dove è responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015);  La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015).

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Una risposta a Schiavitù e resilienza. Per una riparazione etica ed estetica del mondo

  1. Natale losi scrive:

    Bellissima recensione, grazie

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