Condizionata da «un’indigena ritrosia» (Carrier, 1995) l’antropologia non si è occupata a lungo dei beni in commercio oppure, nel farlo, li ha colti soprattutto dal momento in cui essi smettono di presentarsi come delle merci, per apparire piuttosto come possessi (Carrier, 1990) o aspetti della cultura materiale (Miller, 2001). Le relazioni personali e istituzionali che rendono socialmente accessibile la merce sono invece rimaste sostanzialmente esterne al campo disciplinare antropologico e, di conseguenza, gli spazi di vendita appaiono tutt’ora agli antropologi come culturalmente opachi.
L’atteggiamento verso il ruolo sociale ed economico degli oggetti è mutato soprattutto per l’influenza delle riflessioni di antropologi (Douglas, Campbell, Miller, Kopytoff) e studiosi della società dei consumi formatisi sui libri di Jean Baudrillard. Secondo questi studiosi, nel funzionamento dei fenomeni sociali, gli oggetti agiscono come soggetti capaci di contribuire alla produzione della realtà. Sono cioè in grado di modificare con la loro presenza lo stesso sistema delle interazioni umane.
Nonostante nuove linee di ricerca sulla cultura materiale in senso lato e sull’esperienza d’acquisto di un oggetto o la percezione culturale di un brand in senso stretto, il dibattito antropologico e filosofico tende ancora a considerare l’essere umano e gli oggetti che lo circondano come elementi distinti e antitetici. La dicotomia più profonda di tale dibattito sta nel considerare l’essere umano da una parte, il cui valore più importante è non essere una cosa, e la cosa dall’altra, intesa come elemento inerte e privo di sostanza vitale che paradossalmente può durare più delle persone.
Alcuni studiosi distinguono inoltre il concetto di «cosa» dal concetto di «oggetto». Remo Bodei afferma per esempio che il termine italiano «cosa» è la contrazione del latino «causa» e riguarda l’essenziale, ossia «ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa» (Bodei, 2009: 12). Concettualmente, la «cosa» è l’equivalente del greco «pragma», del latino «res» e del tedesco «Sache» che, dall’espressione hegeliana «die Sacheselbst», giunge fino al motto di Husserl «Zuden Sachenselbst!», quale invito a tornare alle «cose stesse» (Bodei, 2009: 14). Quando l’Io presta voce alla sostanza, quando si apre alla realtà effettuale e vuole farla parlare, allora l’«oggetto» si trasforma in «cosa», interrompendo la sua contrapposizione netta al soggetto creando con quest’ultimo una trama di complesse relazioni.
La materia è inoltre la sede privilegiata dei simboli e dimora del sacro. Tutte le religioni si costruiscono manipolando oggetti, fino al punto di scambiare la cosa con ciò che rappresenta (Fabietti, 2014). Si pensi ad esempio all’uso dell’espressione «feitiço» (Pethes, Ruchatz, 2002: 198), creata dai missionari portoghesi quando, nel XVIII secolo, sbarcarono nelle coste nord occidentali dell’Africa, in cui vennero colpiti da un particolare culto nativo nei confronti di determinati oggetti che, per loro, era prova di assurdità e di inferiorità. «Fetisso» (in pidgin) venne poi utilizzato anche dalle popolazioni indigene per sottolineare l’estraneità dei colonizzatori nel comprendere la loro visione verso le cose e la materia.
Il primo intellettuale a riflettere sul significato di «feticcio» fu, nella seconda metà del 1700, Charles de Bross che coniò il termine «feticismo» (Sul culto degli dèi feticci, 1760), che indica qualcosa che non c’è in natura, che è fabbricato dall’uomo, ma che è anche fittizio.Il feticcio è il luogo in cui gli spiriti prendono dimora. Secondo de Bross «feticismo» è un modo di pensare che assegna poteri magico-religiosi alla materia e per questa caratteristica colloca il «feticismo» al primo posto, quello più primitivo, nella scala evolutiva dell’essere umano.
Ma lungi dall’essere una prerogativa «primitiva» ed «esotica», anche in Occidente, nella vita di tutti giorni, conferiamo un’eccedenza di senso agli oggetti rispetto al loro semplice uso. Ne sentiamo il respiro e catalizziamo su di essi le nostre passioni. Le cose non sono semplicemente materia al di fuori di noi, ma arrecano tracce umane, sono prolungamenti dell’uomo e fanno parte dello stesso mondo. Le cose sono importanti per costruire le persone, come anche per decostruirle, tanto che la spersonalizzazione comincia proprio dall’espropriazione delle cose, come ha lucidamente chiarito Primo Levi.
Già negli anni Trenta Marcel Mauss affrontava il problema del rapporto tra uomo e manipolazione della materia. In particolare, affermava Mauss, lo studio dei gesti tecnici, delle abilità e dei più articolati processi tecnologici tradizionali dovrebbe essere considerato parte integrante dello studio delle relazioni sociali e dei sistemi nativi di significato che passano sotto il nome di cultura. In altri termini, disarticolare il rapporto esistente tra fra ciò che gli esseri umani sono e ciò che gli esseri umano fanno, è un’operazione che presenta delle implicazioni teoriche di assoluta rilevanza, pertinenti alla formulazione del concetto stesso di cultura e delle teorie sul suo emergere nel processo di filogenesi.
È proprio a partire da un accurato studio del ruolo svolto dalle mani, dedite a manipolare e costruire il mondo esterno – avendo liberato la bocca dalla funzione prensile come effetto principale della stazione eretta – che la cosiddetta «teoria interattiva dell’ominazione» ha potuto dimostrare come la cultura non sia intervenuta a uomo biologicamente compiuto, bensì come – attraverso le fasi di homo habilis, erectus e poi sapiens – si sia inserita direttamente nell’evoluzione organica in quanto elemento imprescindibile per produrre l’uomo quale è attualmente (Ligi, 2007: 14).
Corpo umano e materia si plasmano reciprocamente. L’ominazione si appoggia su un corpo a corpo con materie, oggetti e altri soggetti. Non si può pensare che gli esseri umani siano equipaggiati di un cervello pensante che li collocherebbe al di sopra delle cose, a differenza degli animali non umani che sarebbero immersi nella materia. Occorre affermare il contrario, ossia che l’ominazione si gioca in una dialettica sempre più serrata fra cultura materiale ed elaborazioni fisiche.
La netta separazione che si tende a fare tra essere umano e oggetti è una finzione filosofico-scientifica radicata nella classica dicotomia mente/corpo in quanto, per dirla con Scheper-Hughes (2000), nella vita reale noi siamo «corpi pensanti» (mindful bodies). Ed è proprio l’idea di corpo pensante che permette di concepire in modo più adeguato i processi di acquisizione e naturalizzazione dei saperi tecnici, delle performance e delle abilità nel manipolare la materia che ci circonda. Si dice cioè che certe dinamiche sociali, certe gerarchie di valori, o norme sociali, certe concezioni native di persona o di umanità, sono così efficaci e permeano così profondamente una data cultura, perché non solo sono strettamente correlate e interconnesse con il tessuto sociale (embedded), ma soprattutto perché vengono incorporate (embodied) dai singoli individui. La definizione di incorporazione data da Andrew Strathern e Pamela Stewart (1999: 273) è chiara: «nel suo senso più ampio, utilizziamo il termine “incorporazione” per riferirci alla fissazione di certi valori e disposizioni sociali nel corpo e per mezzo del corpo». Ciò vale sia nei casi relativamente semplici in cui è un sapere tecnico a venir incorporato e tradotto in schemi di azione esperta (preparare la colazione, tagliare un pino, ecc.), sia nei casi più complessi in cui si incorporano forme di conoscenza e rappresentazioni del mondo assai più elaborate (sistemi di valori, modelli di valutazione estetica, concezioni di genere, ecc.), che però producono ugualmente comportamenti concreti e pratiche sociali osservabili, all’interno delle quali agiscono anche gli oggetti. Essi si introducono nelle relazioni umane tessendo con esse valori, norme, linguaggi, comportamenti e movimenti di parti del corpo. Basti pensare a oggetti d’uso quotidiano come gli smartphone, che non sono solo estensione del corpo ma condizionano movimenti, comportamenti e scelte delle persone.
L’oggetto ha anche la capacità di creare miti, leggende, racconti ma anche discorsi commerciali. Si pensi ad esempio alle storyboard Kambot della Papua Nuova Guinea. A seguito dell’invasiva colonizzazione e della forzata conversione al cattolicesimo nella seconda metà del XIX secolo, nel giro di cinquant’anni, i nativi si trovarono quasi del tutto deculturalizzati. Dagli anni Settanta del Novecento iniziò però un processo di alfabetizzazione e di rivitalizzazione. Le storyboard Kambot sono quindi il maggior prodotto nativo dell’era postcoloniale. Rifunzionalizzando l’arte tradizionale, le storyboard sono tavole di legno, facilmente trasportabili, incise e dipinte con raffigurazioni di scene di vita quotidiana che hanno acquisito valore, non solo economico, grazie all’incontro con il turismo occidentale. Se da un lato quindi i turisti cominciarono a creare immagini, attraverso questi oggetti, dell’essenza della cultura nativa, dell’idilliaco primitivismo immerso nella natura, è chiaro che questi oggetti destinati ai turisti, testimoniano che l’autenticità non è il sogno di un ritorno alle origini, ma un discorso che rilancia la cultura papua odierna nel flusso dei contatti con l’Occidente. Il valore delle storyboard non è però biunivoco. Secondo l’interpretazione di quanti hanno studiato le storyboard e il contesto simbolico della loro produzione, queste opere sarebbero veicolo dell’immagine del Paese all’estero, un mezzo con cui i papua esportano la propria identità. Le storyboard sarebbero ciò che consente ai Papua di mettere in contatto l’interno (la loro società) con l’esterno (il mondo). Qualcosa che risponde alle idee e alle aspettative reciproche di turisti e di artisti nativi. Esse sono ciò che promuove l’incontro fra due realtà: quella locale e le forze globali che percorrono il mondo contemporaneo.
Un elemento inconfondibile delle storyboard è costituito dalla natura e dalla grammatica profana delle scene che vi sono rappresentate. Anche quando si tratta di miti, questi sono raffigurati secondo una tecnica iconografica di tipo realistico e non altamente simbolico e stilizzato come avviene invece nell’arte tradizionale. Questo perché i turisti, e più in generale i «non-papua», non capirebbero il significato dei disegni. Mentre le raffigurazioni mitiche erano astratte ed evocative, quelle delle storyboard possiedono un linguaggio visivo realistico (Fabietti, Malighetti, Matera, 2000).
Riprendendo un altro esempio dall’arte tribale, una delle ragioni dell’inglobamento degli oggetti «esotici» nel sistema estetico occidentale fu il mercato dell’arte. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli objets sauvages raccolti dagli artisti parigini costavano pochi soldi. Tuttavia, nel corso dei decenni successivi, e soprattutto negli ultimi anni del Novecento, molti di questi pezzi raggiunsero cifre ragguardevoli. Cosa era accaduto? Era successo semplicemente che l’arte «tribale», «primitiva» o «etnica», aveva cominciato ad avere un proprio mercato. Gli oggetti «esotici» cominciarono a fare il proprio ingresso sul mercato perché erano richiesti inizialmente dai musei etnografici. Parallelamente però si sviluppò un mercato privato che andò sempre più affermandosi con il moltiplicarsi delle mostre, dei collezionisti, dei galleristi e delle riviste specializzate. Ciò che determina il valore economico di una maschera kwakiutl, di una scultura yoruba o di una tavola abelam è il fatto che questi oggetti possano essere legittimamente giudicati «arte». A loro volta però questi pezzi vengono considerati «artistici» perché hanno un valore, perché possono cioè entrare nel «mercato dell’arte». Se ne può dedurre che, in generale, valutazioni estetiche e valutazioni economiche legate anche alla rarità del pezzo, interagiscano tra loro nel determinare la considerazione di un oggetto in quanto «opera d’arte» o meno. Nella determinazione di un certo oggetto come «opera d’arte» entrano, nella nostra tradizione, coppie di nozioni come autentico/inautentico, capolavoro/artefatto, originale/seriale ecc. che consentono di operare spostamenti da un ambito all’altro, di far diventare cioè un qualunque prodotto dell’arte turistica (seriale e inautentica) un oggetto apprezzabile come espressione creativa di una cultura autentica e quindi definibile come «opera d’arte» di un certo valore.
Entrando ora più propriamente nel tema che si vuole affrontare in questo contributo, si può dire che anche il marketing si basa su discorsi commerciali sugli oggetti e sulla creazione di eccedenze di significato rispetto all’oggetto stesso. Marx ne Il capitale (1867), ragiona per esempio sul concetto di «feticismo» (già introdotto, come si è detto, da Charles de Bross nella seconda metà del 1700) e sull’eccedenza di senso della merce che, da materia lavorata, diventa oggetto di scambio economico. Diventando merce, ed assumendo particolari sottigliezze metafisiche, cambia il suo status proprio perché aggiunge la caratteristica di meta d’acquisto al puro elemento sensibile. In questo modo l’oggetto acquistato è una forma di allusione a qualcos’altro. La merce nasconde le relazioni e i processi produttivi precedenti e diventa oggetto di passioni, di sogni e per questo ne siamo sedotti.
Quando l’oggetto diventa merce
Le merci raggiungono gli scaffali dei negozi al termine di un intreccio di relazioni che coinvolge numerose componenti sociali. Fra gli scaffali i clienti scelgono e acquistano le merci secondo una prassi che dipende dalle loro categorie socio-culturali (Bourdieu, 1979; Douglas and Isherwoo, 1979; Miller 1998) e dalle istituzioni che riproducono lo spazio di vendita (Mantoani, 2009).
In generale si può definire«merce» un oggetto che ha valore economico. Georg Simmel, in The Philosophy of Money (1907) fornisce la seguente definizione di valore: «Value is never an inherent property of objects, but is a judgment made about them by subject. (Value) lies in a region where that subjectivity is only provisional and actually not very essential» (Simmel, 1978: 73). Inoltre, secondo Simmel, il valore emerge e funziona laddove la materia: «is neither wholly subjective nor quite objective. (…) We call those objects valuable that resist our desire to possess them» (Simmel, 1978: 68). Simmel intende per «oggetto economico» quel particolare oggetto che esiste nella distanza tra puro desiderio ed immediato godimento, distanza che, nel momento d’acquisto, viene colmata.
«Through economic exchange, in which economic value is determined, […] one’s desire for an objects is fulfilled by the sacrifice of some other object, which is the focus of the desire of another. Such exchange of sacrifice is what economic life is all about and the economic as a particular social form consist not only in exchanging values but in exchange of values. Economic value is generated by this sort of exchange of sacrifice».
Molte sono le considerazioni che possono essere argomentate seguendo l’analisi di «valore economico» di Simmel. In prima istanza si può dire che il valore economico non è un valore in generale, ma definisce una somma di valori che sono il risultato del rapporto tra due diverse intensità di domanda. Ciò che emerge nel momento dell’acquisto di un prodotto assume contemporaneamente, secondo Simmel, la forma di sacrificio e di guadagno. Perciò l’oggetto in sé non possiede alcun valore economico, ma è la domanda che dota l’oggetto di valore.
Seguendo la prospettiva di SimmelArjunAppadurai, in The social life of the things, riflette sulla costruzione di significati culturali delle cose attraverso lo scambio e sul modo in cui le persone si definiscono in relazione agli oggetti. Anche per Appadurai (1986:3), gli scambi economici creano un valore, il quale è incorporato nelle merci scambiate. Queste ultime, al pari delle persone, hanno una vita sociale che, se studiata, permette di evidenziare la loro stretta relazione con la cultura e di allargare così la riflessione antropologica non solo alle cosiddette culture tradizionali, ma anche alla cultura occidentale. A suo avviso è quindi indispensabile cercare il «potenziale di merce» in tutte le cose e abbandonare la ricerca della distinzione tra merce, baratto e dono.
Appadurai e Igor Kopitoff – come successivamente James G. Carrier (1995) e John Frow (1997) – hanno mostrato come per la maggior parte degli oggetti lo status di merce non sia permanente, ma indichi solo una fase della loro biografia. Decostruendo la costante preoccupazione della razionalità occidentale a opporre le cose, associate alla sfera naturale delle merci, alle persone, immaginate come l’universo naturale della singolarizzazione e dell’individualità (Kopitoff, 1986: 64), la merce non appare più come un semplice prodotto materiale, ma rappresenta un processo culturale e cognitivo, un sistema di relazioni segnato da un costante cambiamento di condizione sociale. Le merci possono infatti diventare inalienabili attraverso quello che Carrier definisce il «lavoro di appropriazione» (Carrier,1995: 110) e che Kopitoff indica come la «singolarizzazione» (Kopitoff, 1986: 73). Al contrario, un possesso inalienabile può diventare di nuovo alienabile grazie al processo di mercificazione. La mercificazione e l’alienabilità, come la non mercificazione e l’inalienabilità, caratterizzano la vita sociale di un oggetto nel tempo. Appadurai afferma inoltre che la condizione di merce rappresenta solo una fase nella vita delle cose, attraversate dalla permanente tensione tra la spinta ad espandere la giurisdizione delle merci, propria di tutte le economie, e la propensione a restringerla comune a tutte le culture.
Quando il marketing è la società
Afferma John Sherry (professore di Antropologia del Marketing all’University of Notre Dame) che il marketing è «the foremost Utopian influence abroad in the contemporary world and that a moral toll may be exacted if marketers become the principal cartographers of this journey» (Sherry, 2014: 44).
Le radici del marketing affondano nella rivoluzione industriale della fine del XIX secolo, quando si crearono le condizioni per un continuo sviluppo tecnologico che consentì una più elevata produttività del lavoro e lo sviluppo di sempre nuovi prodotti. Da qui nel tempo derivò un sensibile aumento dei consumi, precedentemente rimasti a livello di sussistenza per gran parte della popolazione. In questo contesto erano quindi i consumatori che andavano alla ricerca dei prodotti da acquistare.
Il marketing vero e proprio nasce però negli Stati Uniti alla fine degli anni Venti del Novecento, in particolare dopo il 1929, cioè dopo il crollo della borsa di Wall Street. Fino ad allora l’impresa non avvertiva il bisogno di concentrarsi sulle caratteristiche e sulle esigenze del mercato, ma solo sul prezzo, sull’assortimento e sulla distribuzione della merce, tanto che la letteratura statunitense all’inizio del ‘900 intendeva con il medesimo significato distributione marketing.
Nel 1929, però, la depressione economica e la disoccupazione furono la conseguenza di una crisi della domanda interna. E poiché non esistevano significativi mercati di sbocco, oltre a quello interno, le merci restavano invendute. L’impresa infatti non era più in grado di contare sulla spontanea capacità di assorbimento da parte del mercato e dovette incentivare lo sviluppo di metodi e politiche – il marketing appunto – capace di potenziare la possibilità di influenzare e di controllare il mercato. Con il New Deal il mercato interno cominciò ad essere pianificato fondando una politica di sviluppo economico sui consumi e proponendo agli americani una vera e propria etica del consumo (il cosiddetto consumismo e la promozione del nuovo american way of life).
Come afferma John Sherry, oggi però le conseguenze socio-culturali, economiche e morali del consumismo, hanno incentivato studiosi di varie discipline, in primis gli antropologi, ad esplorare i comportamenti, le norme e i valori dei consumatori al di là delle metodologie e delle tecniche di ricerca del marketing. Dopotutto già alla fine degli anni Settanta Mary Douglas scriveva che:
«The very idea of consumption itself has to be set back into the social process, not merely looked upon as a result or objective of work. Consumption has to be recognise as an integral part of the same social system that accounts for the drive to work, itself part of the social need to relate to other people and to have mediating materials for relating them. […] Good, work and consumption have been artificially abstracted out of the whole of social scheme. The way the excision has been made damages the possibility of understanding these aspects of our life» (Douglas, 1979: VIII).
Sherry afferma che l’evoluzione degli studi delle scienze sociali relativi all’influenza del marketing nella società hanno seguito tre principali orientamenti. Un primo orientamento,che lo studioso definisce come «Marketing and society», che comprende i «Sei principali interessi del marketing» coniati da Jeffrey Gundlach (2007), fondatore dell’agenzia di investimenti Double Line Capital LP e che sono: il «Macromarketing», interessato a comprendere le dinamiche d’impatto tra sistemi di marketing e le società in cui vengono promossi.
Il «public policy and marketing area», che si basa su tecniche di accordo politico tra economia domestica e sistemi legislativi. L’«international consumer policy area» si concentra sulla regolamentazione dei mercati stranieri. Il «Social marketing» è relativo alle questioni di cambiamenti sociali. Il «Marketing ethics» tratta i cambiamenti della moralità aziendale. Ed infine il «Consumer interesteconomics area» rappresenta la vasta area di interesse, da parte di studiosi di varie discipline, sull’esperienza di consumo.
Un secondo orientamento definito da Sherry è «Marketing in society». Esso implica che la società sia l’agente strutturante all’interno del quale agisce il marketing. La società governa il marketing proprio come governa i sistemi religiosi, politici e altre istituzioni.
Il terzo orientamento è «Marketing is society», sorto alla fine degli anni Novanta. Questo orientamento, di matrice antropologica, permette a Sherry di introdurre un suo fondamentale costrutto teorico, ossia quello di «shadowland» con il quale intende una realtà, etichettata come «consumismo», nata in risposta ad un’attività manageriale ed assunta come forma di comportamento globale in rapporto alle merci. Insomma una sorta di principio fondante dell’intera cultura occidentale moderna. Sherry scrive infatti che:
«Encouraging us to imagine ever fewer opportunities to escape the market, producing local cultural dislocation in the wake of its adoption, and inviting marketers, consumer and activists alike to conflate consumption, politics and identity, consumer culture is alleged to efface anything that stands in its path. Consumption pervades everything we do. It has become a measure of moral development, in that the level of one’s ability to consume often determines self-worth, not merely fiscal worth, rendering some lives perceptually more valuable than others. With marketing as its engine, consumption pits the forces of destructive creation» (Sherry, 2008: 88)
Quest’ultima riflessione è emersa a seguito di un suo confronto con il collega Robert Kozinets (il fondatore della Netnografia), il quale gli chiese: «Can consumer escape the market?».
Dolente o nolente il marketing e il consumismo sono tra le più potenti forze di stabilità e scambio culturale presenti oggi in tutto il mondo. Nonostante l’interesse tardivo dell’antropologia in questo settore di studi, Sherry sostiene però che l’approccio antropologico al consumo offre indispensabili strumenti, rispetto ad approcci comunemente utilizzati, in grado di evidenziare e ripercorrere l’itinerario di vita degli oggetti e dei prodotti, consentendo in questo modo di ricostruire la complessa struttura di significati che si arricchisce ad ogni passaggio. Sherry spiega, in maniera originale, l’avanzamento del marketing nello studio della consumer experience attraverso la seguente metafora:
«Imagine the early stages of a lunar eclipse. The bright surface of the moon represent the field of consumer behaviour, broadly construed. The shadow moving across the moon’s face represent the field of marketing. As the eclipse progresses, the dark shadow of marketing engulf the disk of consumer behaviour until the event culminates in the complete domination of the latter field by the former. From this perspective, the biobasic, culturally diverse phenomenon of consumption is inexorably marketized. Consumer behaviour is so commodities that it becomes coterminal with marketing. In this view, marketing reduce our understanding of consumption to buyer behaviour and applies that knowledge solely in the service of increasing sales. I think this conceit has much anthropological currency» (Sherry, 1995: 10).
Invece di perpetuare dicotomie, Sherry sostiene, e personalmente anche io con lui, la possibilità di creare una visione strategica comune tra marketing e antropologia, oltre che con altre discipline. In particolare, argomenta Sherry, se il marketing necessita di nuove teorie-guida e ricerche programmate sull’esperienza emica dei consumatori, l’antropologia ha la possibilità di aprire la sua torre d’avorio e fornire soluzioni nuove verso una maggiore umanizzazione del capitalismo.
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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