di Franco Pittau e Antonio Ricci
Siamo stati i curatori, per conto dell’European Migration Network (un programma comunitario che in Italia fa capo al Ministero dell’Interno, Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione, Direzione centrale delle Politiche per l’Immigrazione e l’Asilo), del volume Immigrati e sicurezza sociale. Il caso italiano (Edizioni IDOS, Roma, marzo 2014), che prende in considerazione il rapporto tra i cittadini non comunitari e il sistema italiano di sicurezza sociale, sia quando essi vivono in Italia, sia nel caso che essi decidano di rimpatriare. È a questo secondo aspetto che qui ci limitiamo, soffermandoci sull’esportabilità delle prestazioni.
Il legislatore italiano ha adottato circa la garanzia dei diritti previdenziali del lavoratore non comunitario diverse strategie. Inizialmente l’immigrato ha avuto la possibilità di trasferire i contributi nel suo Paese in caso di rimpatrio avvenuto prima di aver maturato il diritto a pensione in Italia (legge 335/1995 e Testo Unico sull’immigrazione D. lgs 286/1998). Successivamente, per effetto della legge 189/2002, sempre in caso di rimpatrio senza maturazione del diritto a pensione, è stato soppresso il trasferimento dei contributi ed è stata prevista la possibilità di ottenere una prestazione a 65 anni, sia per gli uomini che per le donne, anche sulla base di una carriera contributiva inferiore al minimo previsto per il diritto a pensione, naturalmente con una prestazione commisurata alla consistenza dei contributi.
Con l’entrata in vigore della cosiddetta “riforma Fornero” (legge 214 del 22 dicembre 2011), l’età pensionabile è stata portata a 66 anni e il minimo contributivo a 20 anni, con la possibilità tuttavia (prima richiamata), per i lavoratori non comunitari assicurati dopo il 1996 e rimpatriati prima di aver maturato il nuovo minimo, di poter avere una prestazione calcolata pro-rata al compimento dei 66 anni, tuttavia senza alcuna prestazione ai superstiti in caso di decesso dell’assicurato prima del 66° anno di età (vd. G. Aronica, F. Candida, A. Fucilitti, I diritti previdenziali dei lavoratori non comunitari in caso di rimpatrio, Caritas-Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2012, Edizioni IDOS, Roma, 2012, pp. 288-289).
Pertanto, il lavoratore immigrato, nel caso desideri tornare nel proprio Paese prima di aver maturato il diritto alla pensione secondo la legge italiana, potrà ottenere la totalizzazione dei contributi previdenziali maturati in Italia (con quelli versati nel proprio Paese), solo a condizione che sia in vigore una convenzione che lo consenta. In assenza di convenzione, il lavoratore che decida di rimpatriare conserva i diritti previdenziali e di sicurezza maturati, ma potrà goderne solo a partire dall’età pensionabile e previa maturazione del requisito contributivo minimo sulla base della normativa vigente in Italia. Quando questi requisiti non sono soddisfatti, il cittadino straniero, non importa se uomo o donna, al compimento di 66 anni di età potrà chiedere la quota parte di pensione (pro rata) corrispondente alla sua ridotta anzianità contributiva. Non è invece possibile, dopo l’entrata in vigore della legge 189/2002, che i lavoratori stranieri che rientrano nei Paesi di origine, cessando l’attività lavorativa in Italia, ottengano il rimborso dei contributi versati in Italia.
Avviene così che attualmente, un certo numero di persone potrebbero essere costrette a rientrare, senza poter ricevere (loro stessi o i loro aventi diritto) un corrispettivo in termini di prestazioni per i contributi versati. Infatti, non tutti sono a conoscenza della possibilità di chiedere all’estero un pro-rata al compimento dei 66 anni oppure, pur sapendolo, non sanno come presentare la domanda.
Più soddisfacente è, invece, la situazione se gli interessati si spostano in un Paese, legato all’Italia da un accordo in materia previdenziale, o in un altro Stato membro.
Le possibilità offerte dagli accordi bilaterali in materia di sicurezza sociale
Al fine di tutelare la circolazione all’estero dei suoi lavoratori, l’Italia, che fino agli anni ’70 è stata un’area di grande emigrazione, ha stipulato numerose convenzioni bilaterali di sicurezza sociale, in base alle quali gli Stati contraenti si impegnano ad applicare, nei rispettivi territori, un regime di sicurezza sociale che tuteli in modo non discriminatorio i cittadini migranti dell’altro Stato contraente. Per essere concretamente applicati, tali accordi devono essere ratificati da una legge del Parlamento italiano, a differenza di quanto avviene per i Regolamenti comunitari di sicurezza sociale che, una volta approvati, sono direttamente applicabili dagli Stati membri per via della preminenza del diritto comunitario.
La finalità delle Convenzioni bilaterali si propone, quindi, di garantire la parità di trattamento di lavoratori e pensionati che si spostano da un Paese all’altro, nonché di coordinare le legislazioni degli Stati contraenti e di equiparare i territori nazionali affinché la migrazione non comporti la perdita dei diritti in materia previdenziale o ne impedisca la maturazione. I principi generali sui quali si basano le Convenzioni bilaterali sono i seguenti: parità di trattamento dei cittadini dei Paesi contraenti; territorialità dell’obbligo assicurativo (applicazione della legge dello Stato in cui avviene la prestazione lavorativa); totalizzazione dei periodi assicurativi (e cioè cumulo dei contributi versati nei due Paesi), evitando la sovrapposizione di due coperture contributive per lo stesso periodo; requisito di un minimo contributivo per l’assoggettamento alle convenzioni; esportabilità delle prestazioni maturate nello Stato di residenza; possibilità di essere autorizzati alla prosecuzione volontaria anche previa totalizzazione dei periodi assicurativi maturati nei due Paesi.
Nel passato le Convenzioni bilaterali stipulate dall’Italia avevano l’obiettivo principale di tutelare gli emigrati italiani nei Paesi in cui la presenza italiana era particolarmente presente (in Europa, in America, in Australia). La prima intesa bilaterale fu infatti l’Accordo italo-francese (15 aprile 1904), che introduceva la parità di trattamento in materia di infortuni sul lavoro ispirandosi agli schemi dei numerosi trattati commerciali già stipulati dall’Italia. L’accordo italo-germanico del 31 luglio 1912, oltre ad occuparsi della tutela infortunistica, prevedeva la conservazione dei diritti pensionistici e la possibilità, in caso di rimpatrio, del rimborso di parte dei contributi versati. Quindi, l’evoluzione delle normative nazionali sulle assicurazioni sociali e l’azione svolta dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro favorirono una migliore copertura. Di segno positivo furono, infatti, le convenzioni stipulate dall’Italia con il Regno serbo-croato-sloveno (20 luglio 1925) e con la Francia (13 agosto 1932). Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con la ripresa dell’esodo migratorio, furono stipulati nuovi accordi dal contenuto più ampio quanto alle materie trattate, alle modalità di raccordo e all’esportabilità delle prestazioni. Infine, in applicazione dell’articolo 51 del Trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità Economica Europea, entrarono in vigore dal 1° gennaio 1959 i Regolamenti sui regimi di sicurezza sociale applicabili ai lavoratori migranti originari degli Stati membri della Comunità, che con il tempo hanno conosciuto diverse modifiche e nel 2003 hanno incluso anche i lavoratori non comunitari nel loro ambito di applicazione.
Negli anni ’80, con la trasformazione dell’Italia da area di emigrazione a Paese di immigrazione, sono state ratificate nuove Convenzioni anche con i principali Paesi di provenienza dei flussi migratori (quali Capo Verde e la Tunisia), mentre con altri non si è andati oltre intese preliminari e, tutt’al più, la firma senza procedere alla ratifica (questo è il caso del Marocco). Infatti, l’onere economico che questi accordi comportano ha dissuaso l’Italia dal sottoscrivere altri accordi e dal procedere alla ratifica di alcuni di essi già firmati.
Complessivamente, l’Italia ha firmato e ratificato Convenzioni di sicurezza sociale con i seguenti Stati: Argentina (in vigore dal 1° gennaio 1984); Australia (in vigore dal 1° ottobre 2000); Brasile (in vigore dal 5 agosto 1977); Canada (in vigore dal 1° gennaio 1979); Capo Verde (in vigore dal 1° novembre 1983); Croazia (in vigore dal 1° novembre 2003); Israele (in vigore dal 6 febbraio 2014); Jersey (in vigore dal 1° maggio 1958); Principato di Monaco (in vigore dal 1° ottobre 1985); Repubbliche dell’Ex Jugoslavia Bosnia-Erzegovina, Macedonia-FYROM, Serbia, Montenegro, Kosovo (in vigore dal 1° gennaio 1961); Repubblica di San Marino (in vigore dal 1° gennaio 1961); Stati Uniti (in vigore dal 1° gennaio 1961; accordo aggiuntivo del 1° gennaio 1986); Tunisia (in vigore dal 1° giugno 1987); Uruguay (in vigore dal 1° giugno 1985); Vaticano – Santa Sede (in vigore dal 1° gennaio 2004); Venezuela (in vigore dal 1° novembre 1991).
Le Convenzioni bilaterali tutelano generalmente solo i cittadini degli Stati contraenti. Tuttavia, nel caso di Argentina, Canada, San Marino, Stati Uniti, Uruguay e Venezuela, gli accordi stabiliscono che non è necessario essere cittadini di uno dei due Stati contraenti, ma è sufficiente essere stati assoggettai alle gestioni previdenziali in entrambi i Paesi. Ad eccezione della Convenzione italo-argentina, non sono compresi nel campo di applicazione i dipendenti pubblici, assicurati presso gli specifici Enti di previdenza (i Regolamenti comunitari includono invece anche questi dipendenti). Sono, inoltre, destinatari delle Convenzioni i pensionati nonché i familiari e i superstiti dei lavoratori (e dei pensionati), a prescindere dalla nazionalità di appartenenza, ma limitatamente ai diritti che derivano loro dal lavoratore o dal pensionato assicurati, come avviene ad esempio per le pensioni di reversibilità.
Le prestazioni che vengono erogate sulla base delle Convenzioni bilaterali sono esplicitamente elencate nelle singole Convenzioni e riguardano i seguenti ambiti assicurativi: vecchiaia, supersiti, invalidità; infortuni sul lavoro e malattie professionali; assegni familiari; malattia e maternità; disoccupazione. Le convenzioni assicurano l’uguaglianza di trattamento ma solo per i comparti assicurativi che rientrano nel loro ambito di applicazione. Sussistono restrizioni per quanto riguarda le prestazioni di natura assistenziale (non basate sui contributi), riconosciute ai cittadini non comunitari solo a determinate condizioni e solo durante la loro permanenza in Italia, per l’assistenza sanitaria (riconosciuta in Italia ma non esportabile se non nei casi stabiliti dalle convenzioni bilaterali) e la presa in considerazione dei figli che vivono all’estero per i carichi familiari.
La totalizzazione dei periodi assicurativi (specialmente ai fini pensionistici ma anche per altre prestazioni) consente di sommare i vari periodi di contribuzione accreditati negli Stati convenzionati per raggiungere i requisiti minimi previsti dalle leggi nazionali. Si tratta di una somma fittizia in quanto non implica alcuna ricongiunzione dell’assicurazione di uno Stato a quella di un altro. L’importo della pensione viene determinato dal singolo Paese in base al proprio sistema di calcolo e in proporzione ai periodi assicurativi maturati ai sensi della normativa nazionale (sistema del pro-rata). Per la totalizzazione sono validi tutti i tipi di contributi: obbligatori (lavoro dipendente e autonomo), figurativi (servizio militare, malattia, maternità, cassa integrazione guadagni, disoccupazione, tbc, mobilità), da riscatto (corso legale di laurea, contribuzione omessa, contribuzione per attività svolta in Paesi esteri non convenzionati), derivanti da versamenti volontari.
Alcune convenzioni bilaterali ammettono la totalizzazione dei contributi con Paesi terzi a condizione che essi risultino legati, a loro volta, da convenzioni di sicurezza sociale sia all’Italia che all’altro Stato contraente. È questa la cosiddetta totalizzazione multipla, prevista nelle Convenzioni sottoscritte con Argentina, Capo Verde, San Marino, Spagna, Svezia, Svizzera, Uruguay e Tunisia. Solo la convenzione con l’Argentina permette la totalizzazione dei contributi con qualsiasi Stato, purché legato da accordi anche solo all’Italia o all’Argentina, a patto che il richiedente sia cittadino italiano o argentino.
I Regolamenti comunitari di sicurezza sociale e l’esportabilità delle prestazioni
In ambito comunitario novità importanti sono state introdotte con l’entrata in vigore, il 1° giugno 2003, del Regolamento CE n. 859/2003 che ha esteso le disposizioni previste dai regolamenti comunitari in materia di sicurezza sociale (regolamenti n. 1408/1971 e n. 574/1972) ai cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti all’interno dell’UE nonché ai loro familiari e superstiti, purché risultanti in situazione di soggiorno legale nel territorio di uno Stato membro. Come noto, i regolamenti comunitari in materia di sicurezza sociale sono state approvati allo scopo di facilitare la libera circolazione dei lavoratori garantita dall’articolo 48 del Trattato istitutivo (ora articolo 39), evitando la perdita dei diritti previdenziali o la mancata possibilità di acquisirli.
Il regolamento n. 1408/1971, riguardanti i regimi di sicurezza sociale applicabili ai lavoratori migranti, è stato successivamente abrogato e sostituito dal regolamento n. 883/2004 del 29 aprile 20o4 che ha introdotto semplificazioni e attuato un maggior coordinamento in materia di sicurezza sociale. Inoltre, il nuovo regolamento comunitario in materia di sicurezza sociale n. 883/2004, che inizialmente era applicabile solamente ai cittadini comunitari, agli apolidi e ai rifugiati residenti nell’UE, è stato, a sua volta, esteso ai cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti nel territorio di uno Stato membro per effetto del regolamento n. 1231/2010 il cui articolo 1 recita testualmente: “Il regolamento (CE) n. 883/2004 e il regolamento (CE) n. 987/2009 si applicano ai cittadini di Paesi terzi cui tali disposizioni non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità, nonché ai loro familiari e superstiti, purché risiedano legalmente nel territorio di uno Stato membro e si trovino in una situazione che non sia confinata, in tutti i suoi aspetti, all’interno di un solo Stato membro”. La seconda condizione posta dal regolamento evidenzia il fatto che le disposizioni non si applicano quando la situazione del cittadino straniero presenta unicamente legami con un solo Paese terzo e un solo Stato membro. Il citato regolamento è stato poi modificato e ampliato in alcuni suoi aspetti dal Regolamento UE n. 465/2012 che, per citare pochi esempi, introduce alcune novità riguardo ai lavoratori autonomi transfrontalieri e ai distaccati.
È opportuno tenere presente che il regolamento n. 883/2004 prevede disposizioni specifiche per ciascuno dei diversi settori dell’assicurazione: malattia e maternità, invalidità, vecchiaia, superstiti, infortuni sul lavoro, malattie professionali, disoccupazione, prestazioni familiari. Il regolamento riconosce il principio della totalizzazione dei periodi, secondo cui vengono sommati i benefici maturati dal lavoratore nei diversi Paesi membri dell’UE in cui è stato assicurato, ha risieduto e/o ha lavorato come dipendente o come lavoratore autonomo. Secondo il principio di totalizzazione, nell’assicurazione pensionistica la prestazione dovuta viene calcolata sommando tutti i periodi di lavoro svolti dall’interessato negli Stati membri e determinando l’importo da porre in pagamento in proporzione ai contributi versati in ogni singolo Paese.
Questa normativa include attualmente tutta l’area dei lavoratori dipendenti (inclusi i dipendenti pubblici iscritti in un regime speciale di sicurezza sociale) nonché i lavoratori autonomi (inclusi i regimi previsti per i liberi professionisti). Dal punto di vista territoriale, il Regolamento in questione si applica, anzitutto, negli Stati membri dell’Unione, nonché negli Stati terzi per i quali vigono accordi specifici, in particolare quelli vincolati dall’accordo sullo Spazio Economico Europeo e la Svizzera. Fanno eccezione la Danimarca e il Regno Unito che sono entrambi estranei all’applicazione del regolamento n. 883/2004. La Danimarca non ha neppure applicato e il precedente regolamento n. 1408/1971.
I principi di base del regolamento comunitario n. 883/2004 di seguito sono simili a quelli che regolano le convenzioni bilaterali in materia di sicurezza sociale: parità di trattamento, unicità delle legislazione applicabile, totalizzazione dei periodi, esportabilità delle prestazioni, divieto di sovrapposizione dei benefici. È importante tenere conto che l’estensione del Regolamento n. 883/2004, ai cittadini di Paesi terzi, non conferisce un autonomo diritto all’ingresso, soggiorno, residenza e all’accesso al mercato del lavoro in uno Stato membro (lo precisa il 10° ‘considerando’ del preambolo al regolamento n.1231/2010), fatto salvo lo spostamento in un altro Stato, anche per motivi di lavoro, consentito ai cittadini non comunitari titolari di permesso CE come lungosoggiornanti. Tuttavia, la Direttiva n. 109/2003 del 25 novembre 2003, relativa allo status giuridico dei cittadini dei Paesi terzi residenti di lungo periodo (recepita in Italia con il D. Lgs. n. 3/2007), attribuisce il diritto al soggiorno, per periodi superiori a tre mesi, in uno Stato membro diverso da quello che ha conferito lo status di residente di lungo periodo, in particolare per l’esercizio di un’attività lavorativa dipendente o autonoma, per motivi di studio o di formazione, nonché per altri motivi.
In conclusione, se si guarda al passato, è indubbio che siano stati fatti dei passi in avanti, sia in forza degli accordi bilaterali stipulati dall’Italia che in forza dei regolamenti comunitari. Ciò, tuttavia, non consente di ritenere che la situazione sia soddisfacente. In particolare, la recente evoluzione della normativa previdenziale italiana ha determinato per gli immigrati, che dovessero rimpatriare, dei problemi aggiuntivi. Inoltre, ha di fatto conosciuto un arresto l’impegno dell’Italia nel sottoscrivere accordi bilaterali di sicurezza sociale (e anzi alcuni, come quello con il Marocco, è da tempo firmato senza però essere stato ratificato). Questo stallo si è determinato per il fatto che, il costo soggiacente alla gestione di un accordo bilaterale di sicurezza sociale non sono più sopportabili nell’attuale fase di accresciute difficoltà nel bilancio sociale. Si può dire, pertanto, che questa sia una fase di ripensamento e che siano percorribili delle vie che consentano di alleviare, almeno in parte, le problematiche incontrate dagli immigrati, con particolare riguardo al Nord Africa o ad altre di cui sono originari molti immigrati attualmente in Italia.
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014