di Fabiola Di Maggio
“Ho fotografato invece di parlare. Ho fotografato per non dimenticare. Per non smettere di guardare”. Michele Di DonatoNel 1992 nascevano i Nonlieux di Marc Augé. Da allora la post-storia si è legata a un neologismo antropologico definendo e acquisendo di fatto i contrassegni della fin troppo rinomata società surmoderna (2009). Augé captava e descriveva i nuovi tratti dell’uomo contemporaneo e dello spazio che si trasformava per trasformarlo definitivamente. Da animale sociale che viveva all’interno di condivisi “riti di passaggio”, il sempre più solitario flâneur occidentale fa del passaggio e dell’effimero il suo rito quotidiano che, come ogni rito, non può che divenire mito. Ed è allora che la storia si complica. Il nonluogo diventa un pacchetto concettuale per tutto e per tutti. Un passepartout gnoseologico e multidisciplinare, utile e alla moda da sfoggiare nelle aule universitarie, nei convegni, addirittura un argomento di conversazione per sentirsi intellettuali a cena o durante un happy hour. Tutti oggi ne sanno parlare, ma pochi effettvamente ne hanno compreso la reale portata antropologica. I nonluoghi delineati da Marc Augé, se intesi come semplice negazione del luogo non funzionano, nel senso che non esprimono il potenziale immaginativo e agentivo che è intrinseco ad ogni luogo sia esso o non (Meschiari-Montes 2015; Ronzon 2008). I nonluoghi sono segni spaziali di un’epoca, la caratterizzano in ogni suo aspetto, e come scrive Augé:
«Ne danno una misura quantificabile ricavata addizionando – con qualche conversione fra superficie, volume e distanza – le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti “mezzi di trasporto” (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso» (2009: 77-78).
Il nonluogo non è un posto che non c’è, è quello spazio reale che si carica del senso dell’assenza, della transizione, della solitudine nella moltitudine, della lontananza, di una gradazione dell’estensione che si risolve nella riflessione narrativa, propria della nostra specie, nella quale una piazza, la sala d’attesa di una stazione o un aeroporto, un treno o un aereo, un turistico centro storico, come anche un centro commerciale, le hall di alberghi e musei, acquistano una dimensione altra, fondamentalmente accessibile eppure sempre labile e temporanea. Il nonluogo è dunque una teoria dell’assenza, un’antropologia della solitudine, dell’impersonalità e del rimando a un altrove che oggi l’uomo sembra sempre più rincorrere..
A distanza di venticinque anni, e grazie a una lunga serie di viaggi, Michele Di Donato [1] realizza un ricco portfolio fotografico proponendo il suo punto di vista sui Nonluoghi augériani, reso ancora più famoso in questi anni da una sequenza di personali che hanno fatto il giro del mondo. Di Donato adotta una prospettiva inedita che lascia a casa le parole per fare spazio alle immagini e all’immaginazione. Si tratta di scatti dal sapore metafisico, dove il soggetto, la sua ombra e i suoi riflessi rimandano alle statue e ai manichini di De Chirico in una sequela enigmatica di immagini che invitano l’osservatore a immergersi in un’estetica della sparizione e dello spaesamento, a proiettarsi in quelle figure e in quelle ombre delle quali nulla si conosce
I nonluoghi ritratti dall’artista ricordano le scene grafiche e pittoriche di certi film di Michelangelo Antonioni (L’avventura, 1960; La notte 1961; L’eclisse 1962), con i suoi toni enigmatici e ipnotici fatti di attese, assenze, silenzi e desideri. Le immagini di Di Donato testimoniano una sensibilità analitica che si lega a quella “crisi della rappresentazione etnografica”, verificatasi negli anni Settanta del secolo scorso, la quale ha portato molti antropologi a rivolgere lo sguardo sulla contemporaneità occidentale non ponendo più gli “Altri” in un tempo “altro” e/o lontano. L’analisi delle pratiche culturali e degli spazi dell’Occidente, in termini di contemporaneità, è chiaramente legata alle dinamiche della globalizzazione che ha portato le società e le culture a essere analizzate all’interno di contesti molto ampi e di flussi spesso omogeneizzanti, «cosmopoliti» come li definisce Appadurai (2012), in cui le une si connettono e si mescolano alle altre. Per queste ragioni l’identità subito riconoscibile ed esperibile da tutti di certi luoghi di oggi è divenuta oggetto di interesse per l’antropologia e – come ci mostra Di Donato – anche per l’arte. L’estetica del nonluogo mira a catturare e a raccontare l’essenza visiva di modi odierni di vivere, di essere e di situarsi nello spazio surmoderno.
In linea con le dinamiche della cultura visuale contemporanea (Belting 2011; Boehm 2009; Elkins 2001; Mirzoeff 2002; Mitchell 2009; Pinotti-Somaini 2009, 2016), ovvero di quella che potremmo definire la storia visibile, l’artista racconta attraverso il linguaggio energico, eppure aleatorio, della fotografia, fluida come lo spazio-tempo immortalato nello scatto, i tratti antropologici dell’uomo moderno (Appadurai 2012; Lyotard 2008) sempre più anima-le virtuale: ovunque e da nessuna parte, connesso sempre da solo, protagonista anonimo di storie sul cellulare, produttore e fruitore di immagini e di immaginazioni (De Certeau 2010). In un mondo sempre più governato dall’ottica del visibile, la resa antropologica che Di Donato offre di un concetto come quello di nonluogo deve farci riflettere su come i modi della rappresentazione e della documentazione della cultura, in tutte le sue forme, stiano sempre più passando dalla parte dell’immagine, sia essa pittorica, fotografica o cinematografica. Quello di Michele Di Donato è un vero e proprio esperimento antropologico-visuale che mette l’osservatore nella posizione di riflettersi in ciò che vede, perché in fondo la distanza iconica che intercorre tra realtà, percezione e rappresentazione è labile e spesso illusoria. Come scrive Jonathan Crary ne Le tecniche dell’osservatore:
«La visione e i suoi effetti sono sempre inseparabili dalle possibilità di un soggetto osservatore che è allo stesso tempo sia il prodotto storico sia il luogo dove si verificano le parole. Le tecniche, le istituzioni e le procedure di soggettivazione. […] Sebbene sia evidente che si tratta dell’azione del guardare, un osservatore è soprattutto un individuo che compie tale azione all’interno di una determinata serie di possibilità, un soggetto che è dunque inquadrato in un sistema di convenzioni e di limitazioni» (2014: 8-9).
Le istantanee realizzate dall’artista sono spazi in fieri che si avverano nell’occhio del fruitore. Questi nonluoghi sono come personaggi pirandelliani in cerca d’autore, scene da scrivere, da pensare e spesso da rivivere con lo sguardo in quegli scatti momentanei ritratti dall’artista che rivelano, per dirla con Walter Benjamin, la grande forza dell’«inconscio ottico» (2000: 42) propria del medium fotografico sin dai primi esordi, quale mezzo più efficace nell’elaborazione dell’immagine in cui lo spazio e il tempo si fondono divenendo simultaneamente per l’autore e il fruitore dispositivo relativo e relazionale.
Di Donato sceglie appositamente di non specificare l’identità dei luoghi fotografati: Amsterdam come Roma, Monaco di Baviera o Cefalù. Ed è proprio nella privazione identitaria, nell’anonimato e nella non riconoscibilità dell’altro e dell’altrove, che ci si trova a passare dall’altra parte dello spazio, quello cioè in cui si avvia il meccanismo antropologico di proiezione e immaginazione che con le sue fotografie Di Donato ci offre. È come se l’autore ci fornisse degli input spazio-visuali da completare, addirittura da creare in modo visionario. Tutti possiamo vederci riflessi in qualche scatto, indossare la maschera di un luogo e di un suo momento, sospesi in una nuvola di pensieri e di fermo-immagini che scorrono di fronte al nostro sguardo come il paesaggio visto dal finestrino di un treno o come la scia astratta di un metrò in corsa pieno di gente, la cui visione ci sfugge svanendo in un colpo d’occhio
E come nella lotta tra luci e ombre che governa queste immagini – giocate tra vigorosi e nettamente protagonisti bianchi e neri, fluidi e inafferrabili come ciò che rappresentano – la battaglia percettiva ed emotiva si combatte nell’orbita di un inspiegabile, surreale e ossimorico de- siderio nostalgico grazie al quale ci si può al contempo ricordare di un momento o di un sentimento vissuto come il lampo di un colpo di fulmine, e soprattutto si può immaginare e provare a raccontarsi dove ci si vorrebbe trovare altrimenti, sottraendosi a un qui presente per rappresentarsi in un chissà dove futuro e, perché no, magari passato. L’artista, dunque, spersonalizzando uno spazio per farlo nonluogo di chiunque, in qualche modo lo addomestica rendendolo inconsciamente familiare come si trattasse di un déjà-vu o di una previsione dal sentimento perturbante. E in quest’azione di messa a fuoco delle possibilità narrative dello spazio, il nonluogo è un racconto virtuale perché è uno spazio praticato, fruito, una rete di spostamenti, incontri e attese.
La potenzialità del racconto trasforma i luoghi in spazi e gli spazi in luoghi, e i nonluoghi non sfuggono a questa logica dinamica, fluida e instabile, identica a quella che governa le dicotomie vedere/ guardare, sentire/ascoltare o dire/fare delle quali è difficile controllare i confini osmotici. I nonluoghi sono dunque a tutti gli effetti degli spazi antropologici, in quanto luoghi dell’esistenza, della esperienza degli uomini in rapporto a un determinato ambiente. «I luoghi», dunque, come i nonluoghi, «sono storie frammentarie e ripiegate, passi sottratti alla leggibilità da parte di altri, tempi accumulati che possono dispiegarsi ma sono là piuttosto come racconti in attesa e restano allo stato di scarti, di simbolizzazioni incistate nel dolore o nel piacere del corpo» (De Certeau 2010: 165).
Nelle fotografie di Michele Di Donato il nonluogo acquista quindi un vero e proprio potere, e da spazio anonimo e fantasmatico diventa un proficuo contenitore antropologico della flânerie e dello storytelling odierno (Salmon 2008), come anche dell’immaginazione proiettiva «in quanto tratto costitutivo della soggettività moderna» e fatto sociale comune (Appadurai 2012: 9), che ogni osservatore può decidere di attraversare e riempire con il suo punto di vista, il quale in fondo, nel transito effimero e frivolo degli spazi contemporanei, è sempre o solo un punto di fuga.
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Note
[1] Michele Di Donato nasce in Puglia nel 1968, ma è a tutti gli effetti un siciliano di adozione. La sua passione per la fotografia arriva quando, ancora bambino, gli viene regalata una Diana F. che segna il suo itinerario fotografico nel desiderio di andare sempre a caccia di istantanee particolari e suggestive. Lo stile di Di Donato si caratterizza per il suo essere intellettuale, metafisico e a tratti surreale, giocato tra bianchi e neri teatrali e sfumature tenui e velate. Di Donato ha realizzato numerosi portfolio; ha partecipato a numerosi concorsi fotografici nazionali e internazionali; ha esposto in diverse mostre collettive e realizzato numerose mostre personali. I suoi reportage fotografici sono stati presentati in molte riviste di settore come Reflex, FOTO Cult, Die Angst e su siti web quali Il Giornale.it, LaStampa.it e NationalGeographic.it. Per ulteriori informazioni rimando al sito ufficiale e aggiornato dell’artista in cui è possibile visionare integralmente tutti i suoi reportage: www.micheledidonato.it
Riferimenti bibliografici
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Fabiola Di Maggio, dottore di ricerca in Studi Culturali e Visuali, antropologa delle immagini e curatrice d’arte. Si occupa di Arte fotografica satellitare ed è esperta nell’analisi di fenomeni visivi legati alle immaginazioni frattali e apofeniche per le quali ha proposto un’inedita connessione. Nell’ambito dei Visual Culture Studies, e dei Museum Studies specificamente, ha messo in rilievo l’importanza del Cold Visual Turn relativo alle forme e alle dinamiche che negli ultimi decenni caratterizzano la cultura museale contemporanea indicando con il neologismo “musiconologia” una nuova area di ricerca che unisce le prospettive epistemologiche dell’antropologia e dell’iconologia. Dal 2009 si occupa dello studio del concetto di “primitivismo” nell’arte contemporanea e del fenomeno della musealizzazione dell’arte extra occidentale secondo una prospettiva che incrocia le analisi culturali dell’antropologia e quelle estetiche della storia dell’arte. Nell’orizzonte dell’antropologia delle immagini di Aby Warburg, le sue riflessioni sono inoltre rivolte all’indagine dei rapporti formali tra astrazione e figurazione nell’arte occidentale, extra occidentale e preistorica.
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