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Dolore, narrazione, medicina. Un’analisi antropologica della sindrome da affaticamento cronico

copertinadi    Walter Nania

L’antropologia medica è stata riconosciuta ufficialmente come una branca della antropologia da circa quarant’anni. Il corpo umano, in stato di salute e malattia, è il punto di partenza della ricerca in questo ambito, ricerca che, inoltre, include studi sulle rappresentazioni legate al corpo. Un’ottica antropologica nell’analisi della Sindrome da Affaticamento Cronico (per abbreviare utilizzerò l’acronimo inglese di CFS, Chronic Fatigue Syndrome) [1] può fornire un valido contributo nel mettere in risalto le politiche della malattia, ovvero l’esame delle relazioni che concorrono nel processo di definizione delle patologie e della realtà che caratterizza l’afflizione stessa. Questa disciplina contribuisce altresì al ripensamento antropologico dell’azione medica letta nei termini di una relazione più completa fra medico e paziente, a partire dalla considerazione che molteplici studi in proposito pongono l’accento sull’importanza di conoscere le specificità culturali del contesto entro cui sia il medico che il paziente si trovano ad operare (Good 1999). Infatti è di fondamentale importanza conoscere quali siano gli orizzonti ideologici e i modelli di interpretazione attraverso cui gli uomini vivono la condizione di malattia, quale sia il codice culturale attraverso il quale esprimono i loro bisogni e negoziano il sapere intorno alla malattia (Kleinman 1980).

La malattia cronica rappresenta un attacco ontologico (Garro 1992), nel senso che mina gli assunti su cui riposa la nostra esistenza quotidiana. La malattia cronica sembra distruggere la datità di ciò che più viene dato per scontato, mostrandone il valore arbitrario e relativo e in tal senso mette in discussione i nostri punti di riferimento esistenziali ed ontologici, imponendo di rinegoziarne di nuovi. La cultura di appartenenza determina il modo di sentire il proprio corpo, di sperimentare il dolore e la sofferenza, di descriverlo. A partire da questa considerazione, il dolore e la malattia come esperienza soggettiva sono caratterizzati dal silenzio, dall’impossibilità di dire, senza riuscire a saturare l’esigenza di dare senso all’esperienza di sofferenza (Le Breton 2007). Grazie ai contributi di Pierre Bourdieu (1972) e di Michel Foucault (1993), il corpo è divenuto luogo privilegiato per esaminare i modi in cui sono prodotte le soggettività e come sono elaborate le forme culturali. Come suggerisce Claudia Mattalucci-Yilmaz, «spostando l’attenzione verso il corpo, è oggi diventato possibile analizzare l’impatto che le categorie culturali […] hanno sull’esperienza incorporata e, reciprocamente, i modi in cui la nostra condizione di esseri corporei influisce sulle categorie culturali e sulle pratiche sociali» (Mattalucci-Yilmaz, 2003, p.10).

1Facendo riferimento a quanto afferma Thomas Csordas (2003), gli studi che trattano il corpo, non lo analizzano semplicemente in sé, ma i modi in cui le persone lo abitano, ovvero le forme di incorporazione, il cui termine si riferisce alle abitudini apprese e alle tecniche culturalmente informate grazie alle quali gli esseri umani sono nei loro corpi e nel mondo. Ivo Quaranta sostiene che «il corpo non sia soltanto entità biologica, materiale, ma anche il prodotto di processi sociali, storici e culturali. La cultura modifica i corpi determinandone i gesti e i movimenti, ma il corpo restituisce una conoscenza, non è semplicemente informato ma a sua volta informa» (Quaranta, 2006, p. XIV).

Csordas (2003) mette in questione i rapporti tra biologia e cultura[2], sottolineando anch’egli l’urgenza di considerare la biomedicina non solo come strumento per gestire la sofferenza, ma anche come sistema culturale a sua volta embricato in contesti sociali, economici e politici, sistema che può servire a occultare le cause della sofferenza che caratterizzano quegli stessi contesti.Se il soggetto scompare, nella prospettiva biomedica la persona diviene una riduzione metodologica e la malattia, in questo quadro teorico e operativo, diventa la disfunzione di una macchina. Il rischio della biomedicina è di ridurre la sofferenza a dolore trattabile, di non lasciar venire alla parola il grido che esprime la lacerazione del soggetto in crisi alla ricerca della propria verità, alla ricerca di senso della propria malattia. Un simile approccio al vissuto di malattia sollecita a riflettere sui soggetti afflitti[3], o meglio sulla conoscenza che i medici hanno dei loro pazienti e della loro cultura.

In considerazione di queste brevi riflessioni, il vissuto di malattia è il momento di sintesi fra aspetti cognitivi ed emotivi, fra aspetti individuali e collettivi, che viene elaborato dall’essere umano nel corso di questa esperienza. Esso dipende da un lato dalla natura e dalla gravità della malattia, che può essere acuta o cronica, dalla sua prognosi, come dai suoi connotati specifici. Dall’altro, dipende dalla personalità dell’individuo e dalle esperienze precedenti della sua storia personale e sociale (Basaglia 1982). La salute si realizza e si manifesta non soltanto per l’assenza di malattia avvertita o rilevata, quanto come dispiegamento di tutte le proprie potenzialità fisiche e psichiche in un contesto in cui siano assicurati fabbisogni esistenziali essenziali. Tutto ciò configura la malattia come esperienza rilevante nella vita dell’uomo colpito e non cancellabile dalla sua memoria emotiva. È dunque possibile affermare che le cure alle quali sono sottoposti i soggetti afflitti, agiscono sul corpo di chi soffre di CFS rendendolo il luogo di una nuova identità prodotta dal rapporto di tensione tra il mondo locale, ovvero il mondo proprio del soggetto afflitto, e più ampi scenari storici, politici ed economici (Quaranta 2006).

02Secondo la biomedicina la CFS è una malattia complessa, caratterizzata da una forte stanchezza e da un livello di resistenza estremamente basso, problemi di memoria, sintomatologia influenzale, dolori diffusi e migranti alle articolazioni, disturbi del sonno e numerosi altri sintomi. La CFS nelle sue forme più acute può essere debilitante ed invalidante. Inoltre può durare per molti anni. Spesso questa sindrome non è riconosciuta o non diagnosticata, l’eziologia è incerta e può essere confusa con altre patologie quali mononucleosi, sclerosi multipla e malattie autoimmuni. I sintomi variano ampiamente da persona a persona e fluttuano nella severità. Altrettanto fluttuanti sono i sintomi specifici, determinando quindi difficoltà di trattamento. Molti sintomi sono invisibili agli altri, il che rende ancora più difficile per gli amici, familiari e per chi non è a conoscenza della malattia, comprendere il disagio, il dolore, che gli afflitti sono quotidianamente costretti ad affrontare.

Così mi racconta Roberto, 49 anni, afflitto da ventitre anni: «disagio per tante cose, perché cominci a non riuscire più a fare le cose che facevi. […] dall’andare a fare la spesa per mio figlio e fargli da mangiare, ai colleghi, alle amicizie che non puoi più coltivare. È che ti vai a togliere tante cose che reputi superflue, che poi superflue non sono, tipo l’uscita con la famiglia o con gli amici. E poi hai il problema che quando stai male, hai paura di stare male. Ma non tanto per te, quanto per non pesare sugli altri, sei insicuro nell’andare da solo, alcuni hanno delle fobie nell’uscire di casa per paura di stare male».

«È stato un incubo fin dall’inizio. Non mi capacitavo di aver perso l’autonomia, e di aver bisogno, come un bambino piccolo, che mi lavassero, che mi preparassero da mangiare, che mi accompagnassero. Io collassavo in continuazione, non avevo neanche la forza di parlare, e poi, in seguito, le amicizie sono sparite tutte»( Eleonora, 51 anni, afflitta da undici anni).

«Ha cambiato la mia vita sotto molti aspetti. I primi due anni riuscivo a fare il due per cento di quello che facevo prima, cioè riuscivo solo a lavarmi i denti (a volte nemmeno, per farmi il bagno avevo bisogno di aiuto; tutt’oggi per asciugare i capelli necessito aiuto), a mangiare e a respirare…a volte faticavo anche a respirare. Vita sociale ovviamente azzerata, per me era una fatica ricevere anche persone a casa perché la sera crollavo presto e non potevo tenere le luci accese, e riuscire ad ascoltare una persona parlare per me era molto difficile e mi veniva subito male alla testa. Per quasi un anno non ho potuto nemmeno parlare al telefono, figuriamoci usare il pc, dal dolore alla testa che mi veniva» (Francesca, 28 anni, afflitta da quattro anni).

03Quando si tratta di infermità grave o cronica invalidante, al linguaggio biomedico improntato sulla funzionalità, i soggetti afflitti oppongono un discorso che situa la loro sofferenza all’interno di un modo preciso di vivere il corpo. Una malattia come la CFS non può essere guarita, al momento, semmai scompare con l’avanzare dell’età. Si tratta, dunque, di una patologia che deve essere gestita nel tempo, in un tempo che sarà scandito dalla malattia stessa. Chi soffre di CFS non può che adattarsi a questo nuovo vissuto di sofferenza del proprio corpo. Ma questo processo di adattamento ha delle ripercussioni sul suo mondo, ovvero sulle reti sociali all’interno delle quali egli è inserito.

Emerge con chiarezza che chi è affetto da questa patologia rivela, attraverso la narrazione, un rapporto con il corpo e una nuova interpretazione della malattia e delle sofferenza che, se da un lato considera ancora di primaria importanza i modelli propri della biomedicina, dall’altro tiene conto dei modelli culturali veicolati dalle relazioni sociali che ognuno vive e dei modelli dell’esperienza prossimi alla propria storia individuale. Se il dolore può essere misurato, la sofferenza deve essere raccontata. Questa distinzione tra dolore e sofferenza scandisce concetti che si riferiscono a cose le quali, nella realtà, sono unite. Occorre ascoltare le narrazioni per comprendere la sofferenza dei soggetti afflitti.

La narrazione disegna rappresentazioni sociali e vissuti individuali particolarmente ricchi, apre prospettive inedite nella descrizione della realtà. Nei racconti di malattia vengono a conflitto valori, visioni del mondo, nozioni di malattia o di salute, ideali di medicina o di scienza. Per comprendere il dolore del soggetto afflitto, occorre entrare in relazione con lui, riconoscere l’importanza del suo vissuto soggettivo, ascoltare ciò che egli ha da dire sulla sua condizione fisica. Talvolta, nel solo atto narrativo viene trovato il senso della drammaticità dell’esperienza: la malattia si presenta nella storia di una persona come evento che segna una discontinuità nella sua vita o come una strategia per mantenere un possibile equilibrio nel suo sistema vitale. Attraverso una storia narrata possono emergere possibili significati, nuove connessioni, o strategie più vivibili. La narrazione è forse la via migliore per accedere all’evento di malattia e all’esperienza di cura, come vissuti originari della persona. Dunque, la narrazione diviene motore e simbolo di una trasformazione della pratica clinica, una trasformazione che non deve restare confinata nel tempo di malattia né venire limitata alle condizioni patologiche in cui non è più possibile guarire.

04Dalle narrazioni dei soggetti afflitti emerge la condizione di precarietà che segue la malattia. Una precarietà non solo relativa ai loro impieghi, ma anche da un punto di vista affettivo: la CFS causa la perdita del lavoro frantumando la loro identità di lavoratori, e il mancato riconoscimento della malattia implica nei rapporti sociali la negazione di una stabilità precedentemente acquisita. Chi è colpito da CFS vive inizialmente una condizione di parziale disabilità, spesso non immediatamente riconosciuta da conoscenti e familiari. Dunque, al centro della vicenda degli afflitti vi sono la perdita di identità, la riduzione delle relazioni sociali, la malattia stessa nonché la eventuale somministrazione di psicofarmaci che spesso ne riduce la combattività. La malattia vissuta dai soggetti ha a che fare con la biologia, ma riguarda anche fattori che parlano della vita: fattori quindi estremamente soggettivi, validi per un singolo individuo e non per altre persone pur affette dalla medesima patologia. La malattia descritta dal medico appare agli occhi del malato come avente una struttura lineare. Essa ha un nome, un decorso, un esito. Della malattia in quanto processo biologico, il medico sa tutto o quasi; della malattia come esperienza del paziente invece spesso conosce poco. Si tratta di un territorio ignoto: l’evento malattia infatti modifica il mondo del paziente determinando la dissoluzione del suo mondo (Scarry 1990).

Un ultimo punto da notare è che il dibattito sulla CFS è slittato da una discussione sulla definizione della sindrome, a una lotta circa la sua (il)legittimità. A mio avviso al cuore di tale slittamento giace la dicotomia mente-corpo, nella misura in cui imposta la polarizzazione tra eziologie organiche e psicologiche, polarizzazione riflessa nell’opposizione tra reale (materiale, organico) e non-reale (mentale, psicosociale) (Cohn 1999; Ware 1993, 1994). Infatti i soggetti afflitti vedono nell’approccio psicologico la negazione stessa della realtà della loro condizione di sofferenza; di contro la prospettiva psicologico-psichiatrica, in questo caso, fonda le sue basi proprio sull’inesistenza di specifiche evidenze organiche. La “retorica del reale” che ha informato il dibattito sembra basata sulla definizione (costruzione) biomedica del corpo come misura di verità e criterio di realtà[4]. La CFS sembra, quindi, imporre un’analisi dei meccanismi della legittimità: nel dibattito in corso, la controversia viene a concentrarsi sui criteri di demarcazione tra sapere legittimo e sapere illegittimo, e sulle strategie dei differenti gruppi sociali, professionali o meno, che competono sulla definizione della realtà e su differenti forme di sapere.

Il dibattito sul sapere attorno alla malattia mostra chiaramente come quello della legittimità sia un processo sociale radicato in profondi egemonici assunti epistemologici, ontologici e strutturali. In larga misura, lo statuto della CFS dipenderà dal risultato di questo gioco di poteri tra diversi gruppi e forme di sapere (Cooper 1997). Se le narrazioni sono dispositivi per la creazione di senso, quest’ultimo però affonda le sue radici non solo nel tessuto esistenziale e biografico del soggetto, ma trascende la contingenza specifica (dove tuttavia trova un momento di riattivazione e rielaborazione creativa). I discorsi messi in scena, le loro metafore, le loro forme, hanno una profondità storica che va oltre il singolo vissuto personale.  Come sostiene Byron Good, «uno degli obiettivi centrali nella guarigione è simbolizzare la fonte della sofferenza, trovare un’immagine intorno a cui possa prendere forma una narrazione» (Good 1999: 197), e se tale tematizzazione narrativa gioca un ruolo fondamentale nell’organizzazione simbolica dell’esperienza di malattia e di guarigione, allora sembra rilevante indagare le immagini intorno a cui i soggetti articolano i loro resoconti di sofferenza, ed il più ampio contesto culturale che gli fa da sfondo. 5

Alla luce dell’odierno dibattito medico non sorprende che gli afflitti e le loro associazioni propendano per una costruzione organica delle cause della loro sofferenza, rifiutando l’interpretazione psichiatrica o psicologica. Nel cercare una risposta alle domande generate dall’afflizione, la biomedicina è la risorsa cui automaticamente gli afflitti  si sono rivolti in cerca di senso, di risposte. Il concetto di egemonia sembra pertanto particolarmente appropriato in riferimento ai saperi ed alle pratiche della biomedicina. I resoconti tendono a localizzare l’inizio dei disturbi in coincidenza con un evento infettivo di natura abbastanza comune, quasi banale (mal di gola, febbre, mal di testa, tonsillite, raffreddore, varicella, ecc.) ma che si rivela devastante nella sua ostinata cronicità. Nell’indagare i discorsi culturali posti in essere, ad emergere con regolarità ed una certa prepotenza è il ruolo del sistema immunitario, intorno a cui possa prendere forma una narrazione: «la CFS è una malattia legata a una deficienza del sistema immunitario. Il mio sistema immunitario era indebolito da tutto lo stress che avevo avuto nei due anni precedenti la malattia. Sai, stavo lottando per fare andare avanti il mio lavoro, e la lotta era estenuante, in più anche a casa le cose non andavano proprio bene. Tutte queste situazioni insieme hanno abbassato le mie difese immunitarie, così quando questo virus è arrivato io non ero in grado di resistergli, ha preso possesso di me, anche perché all’epoca non mi sono mai concessa il tempo di rimettermi in sesto. Si, penso che sia il sistema immunitario ad essere carente, e così un virus può avere degli effetti diversi da quelli che avrebbe in circostanze normali» (Giovanna, 59 anni, adesso guarita dopo dieci anni di malattia).

Il sistema immunitario emerge dai resoconti dei soggetti come uno strumento metaforico per collocare l’esperienza di malattia e le sue cause in un più ampio contesto socio-morale. È proprio attraverso il discorso immunologico che i soggetti esplicitano un’implicita antropologia, l’analisi della quale offre un punto di ingresso per l’esame delle locali rappresentazioni della malattia, della salute e della corporeità, che vanno a trovare una loro giusta collocazione alla luce del contesto sociale, storico e politico economico in cui sono calate.

Dialoghi Mediterranei, n.7,maggio 2014

Note


1   La Gran Bretagna è il primo paese ad avere riconosciuto l’insorgenza della malattia, pertanto luogo privilegiato di dibattito anche in seno a saperi differenti dalla biomedicina.

2   Sul superamento del rapporto natura-cultura in antropologia medica, cfr. Lock e Scheper-Hughes, 1990.

3   Ho deciso di evitare il termine di “pazienti” (alla luce del fatto che la legittimità a ricoprirne il ruolo è al centro del         dibattito alla specifica forma di sofferenza in esame), e ho scelto il termine di “afflitti”, nel tentativo di  rimanere il più fedele possibile al termine inglese di sufferers.

4    Le due linee interpretative sono radicate entrambe in un pensiero dicotomico. In ottica organica, le  malattie sono espressioni di processi biologici, dotati di vita propria, che generano segni di malessere negli afflitti. Di contro, linterpretazione psicologica della CFS cerca di superare i limiti del modello empirista attraverso il concetto di somatizzazione, nel tentativo di dare una spiegazione alla massiccia presenza di sintomi fisici nei soggetti afflitti.

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