Migrazione è una parola che oggi rimanda, per automatica associazione, ai viaggi della speranza di milioni di africani diretti in Europa: viaggi di altri popoli, morte di uomini e donne di un’altra nazionalità. Un balzo indietro nel tempo di circa cento anni e, alla stessa parola, sono legate invece immagini diverse: sono le immagini delle valigie e dei sorrisi degli italiani pronti a sbarcare in America, dei quartieri che divenivano i tristi ghetti nominati Little Italy. Dei naufragi in cui, allora come ora, capitava si imbattessero i cosiddetti “vascelli della morte”. Uno di questi portava il nome – ironia tragica e beffarda della sorte – di “Utopia”, e naufragò nelle acque del porto di Gibilterra nel marzo del 1891. Allora come ora, l’utopia si trasforma in morte.
All’interno di questa macrostoria – che è la storia della migrazione degli italiani tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento – si colloca la storia raccontata da Ester Rizzo in Camicette bianche. Oltre l’8 marzo, appena uscito per Navarra Editore (Palermo 2014). Un libro che racconta la speranza di riscatto di centoventisei donne migranti (per lo più italiane, meridionali in particolare, e russe) e l’epilogo di morte del loro “sogno americano” il 25 marzo 1911, nell’incendio alla Triangle Waist di New Work, la “fabbrica delle camicette bianche”, dove lavoravano come operaie per pochi dollari alla settimana.
«Non erano balle preziose di stoffa quelle che i passanti videro volare dall’Asch Building.
Erano i corpi delle operaie della TriangleWaist Company.
Cadevano giù a decine, alcune con i vestiti e i capelli in fiamme.
Dissero che somigliavano alle comete».
Così comincia il libro. Con l’immagine cruda, quasi straniante, dei corpi infuocati delle donne che si gettano dalle finestre della fabbrica. Il sonoro è un’alternanza dolorosa di urla di disperazione e tonfi sordi al momento dell’impatto. Sembra di sentirli. Un libro-memorandum che ci scuote dal torpore apatico di cui i nostri tempi sembrano particolarmente forniti. Soprattutto quando si parla di storie di migrazione e morte, connubio al quale siamo ormai così abituati da non fare neanche più scalpore.
Dall’impressionismo feroce dell’incipit si passa alla ricostruzione dettagliata e appassionata delle vite delle centoventisei donne morte nel rogo. Clotilde, Caterina, Provvidenza, Anna, Michelina, Elisabetta, Rosa, Vincenza, Serafina… vengono ripescate dalla moltitudine dell’anonimato e riportate in vita: leggendo, riusciamo quasi a immaginarne il volto, a sentirne la voce. Ad alcune viene anche restituito il colore degli occhi o quello dei capelli, o una frase pronunciata in quel giorno di disperazione.
Ester Rizzo, «scrittrice per caso» – come si è lei stessa definita durante la presentazione del libro, avvenuta il 23 aprile nella Sala Magna di Palazzo Steri, a Palermo – ricostruisce la vita e la morte delle centoventisei operaie della TriangleWaist con la precisione certosina di una storica. Ma se la storiografia è spesso un romanzo dove i personaggi sono una corale, numeri senza individualità, in Camicette bianche. Oltre l’8 marzo i morti hanno di nuovo un nome, un vissuto; una provenienza e un passato. Sono storie che divengono il triste emblema delle difficoltà della migrazione e dell’indifferenza dell’America capitalista verso le condizioni dei lavoratori.
Da quel giorno di fine marzo del 1911 ci separano cento anni e innumerevoli battaglie per i diritti delle donne e dei lavoratori. Ma la strage di Barletta, in Puglia, in cui il crollo di una palazzina che ospitava una maglieria uccide cinque operaie (la vittima più giovane aveva solo quattordici anni) è dell’ottobre 2011: recentissima. E ancora più recente è il rogo all’interno dell’azienda tessile cinese a Prato dove sono morti carbonizzati sette operai di cui non è stato neanche possibile risalire al sesso: lo scorso dicembre. Passato e presente continuano a parlarsi attraverso una fitta rete di sottili, spesso spietate, rispondenze.
In un’intervista del 1987 a Claude Ambroise, Leonardo Sciascia aveva parlato dell’importanza di quella che definiva la scrittura del riscatto: una scrittura che avesse la prerogativa, etica, di combattere la damnatio memoriae di quelle storie ricoperte dalla coltre spessa dell’indifferenza collettiva. Di ridar vita, sebbene letteraria, alle vittime di una storia ingiusta. Spesso più ingiusta coi vinti che coi vincitori.
Ci sembra che quella di Ester Rizzo possa a buon diritto rientrare in questa definizione: il suo libro recupera una storia che, in Italia, era quasi sconosciuta: «nessun testo, nessun riferimento nei musei dell’emigrazione, quasi nessun ricordo nei paesi d’origine delle vittime, quasi nulla sulla stampa eccetto pochi articoli», dissipa un oblio, riporta alla parola ciò a cui la parola era stata tolta. Perché, spesso, «chel ch’a si dimentica a zova/ Pì di chel ch’a si recuarda» (Quello che si dimentica è più importante di quello che si ricorda), per dirla con Pasolini.
Il suo – come scrive l’autrice nella Nota introduttiva al libro– è un «atto d’amore»:
Amore verso le giovani vite spezzate che trovarono la morte in modo così terribile e quasi del tutto dimenticate.
Amore per i migranti di tutti i tempi e di tutti i mari per ricordare che i confini sono solo delle “invenzioni umane” e che la Terra appartiene a tutti.
(…)
Amore per tutte le donne ultime fra gli ultimi, vittime di quotidiana violenza e discriminazione.
E con l’obiettivo di rendere la memoria tangibile, Maria Pia Ercolini, ideatrice del “Gruppo Toponomastica Femminile”, e Navarra Editore hanno lanciato una petizione rivolta alle istituzioni comunali dei Paesi di provenienza delle vittime italiane, per intitolare loro una piazza, una via, un giardino o altro luogo di pubblico interesse.
È possibile firmare la petizione all’indirizzo: http://www.change.org/it/petizioni/franco-curto-ridiamo-dignit%C3%A0-alle-donne-vittime-dell-incendio-della-triangle-waist-2
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014