di Linda Armano
La sfida dell’antropologia contemporanea passa attraverso la dialogica, e a volte il conflitto, tra forme espressive ed inter- pretazioni interdisciplinari che intrecciano la loro conoscenza e metodologia sopra un oggetto di studio. Nuovi percorsi teorici e metodologici, nuovi sincretismi e nuove esperienze epistemologiche, esitati grazie all’incontro e alla collaborazione tra discipline che generalmente collochiamo in settori distinti, sfidano il monopolio ormai obsoleto della sola scrittura accademica connessa ad un unico soggetto legittimato. Codici multi-espressivi attraverso cui narrare la cultura o alcuni tratti culturali di un gruppo umano, sperimentano modalità di volta in volta innovative attraverso la compresenza di più linguaggi e di più soggetti.
Già dalla seconda metà del Novecento, alcuni eminenti antropologi come Clifford Geertz, Victor Turner, Mary Douglas, Claude Lèvi-Strauss, Edmund Leach, contribuirono a smantellare l’autoritaria rigidità dei confini tra discipline diverse e soprattutto tra arte e scienza. In particolare gli antropologi cominciarono a pensare che la produzione artistica, sia occidentale che extra occidentale, doveva essere considerata, non semplicemente come una forma di estetica applicata, ma come un’attività embedded nel tessuto sociale.
Che l’espressione estetica sia un dato universale è provato dal fatto che se non tutte le società praticano quelle che per noi sono le arti (dal teatro alla pittura, dalla musica alla letteratura, alla scultura ecc.), tutte producono un qualche oggetto, eseguono una qualche “performance” capace di generare nei destinatari delle reazioni di tipo estetico. Ciò avviene perché, come accade per tutti gli altri modelli culturali, anche quelli estetici sono introiettati e condivisi da un certo numero di individui. Ne consegue quindi che la produzione estetica di una data cultura è collegata ai valori, alla visione del mondo e al modo, o ai modi, di sentire che sono tipici di una certa comunità. Quando ci troviamo di fronte ad un oggetto o ad una performance (danza, recitazione) che ai nostri occhi (o alle nostre orecchie) possiede un valore estetico, piuttosto che qualificarli immediatamente come delle “opere d’arte”, dovremmo porci una serie di questioni al fine di determinare quali possano essere i significati estetici che quell’oggetto o quella performance rivestono all’interno della cultura in cui sono prodotti.
Le immagini, intendendo con questo termine sia le rappresentazioni concrete di percezioni visive, figure o raffigurazioni contenute in disegni, dipinti, sculture, fotografie, film, sia altre performance artistiche o le loro rappresentazioni mentali individuali e collettive, vanno a costituire i vasti depositi culturali dell’immaginario, i quali sono centrali nella ricerca etnografica in quanto oggetti da raccogliere e allo stesso tempo strumenti per raccogliere dati. In ogni cultura circolano densi flussi di immagini, sotto forma di raffigurazioni di vario tipo prodotte con diverse tecnologie, ciascuna delle quali tende a sviluppare codici semiotici particolari.
Alcuni dei massimi sostenitori del rapporto dialogico tra arte ed antropologia sono Arnd Schneider and Christopher Wright che, in Contemporary Art and Anthropology (2006), criticando l’insufficiente cooperazione tra antropologi ed artisti con il conseguente mantenimento di rigidi confini tra antropologia, arte e scienza in generale, affermano come questa lacuna possa essere superata attraverso una reinterpretazione e una rielaborazione critica della gamma di pratiche sensorie e materiali tipiche di ciascuna delle due discipline. Dopotutto, riprendendo Mauss, arte ed antropologia sono delle “tecniche del corpo”, definizione che non è ristretta alla meccanica delle formule fisiche di intervento, né alla morfologia degli oggetti quali reperti neutri, ma impegna un intreccio assai profondo di funzioni e attitudini psicosomatiche culturalmente plasmate. Schneider e Wright affermano che sia l’arte che l’antropologia hanno la peculiarità comune di re-interpretare e re-immaginare le pratiche sociali, culturali ed estetiche attraverso la loro capacità intrinseca di svelare la vita sociale. Insomma, arte ed antropologia possiedono la caratteristica comune di fare vedere le cose che non si vedono.
Altri antropologi hanno notato la connessione tra l’arte contemporanea, soprattutto di avanguardia e in particolar modo del surrealismo, e l’antropologia (Clifford 1988; Marcus, Myers 1995; Sansi 2015). Marcus afferma, per esempio, che la ricerca malinowskiana può essere interpretata, all’interno della disciplina antropologica, non solo come particolare metodo di ricerca sul campo, ma anche come un immaginario estetico a partire dal quale l’antropologo ha potuto costruire una figura di sé (Marcus 2010: 266). Ovviamente il campo di Malinowski non è il campo che oggi incontrano gli antropologi in cui i soggetti, lungi dall’essere semplicemente “nativi”, si muovono all’interno di un contesto globale. Proseguendo il discorso di Marcus, Roger Sansi, in Experimentaciones participantes en arte y antropología. Participa- tory Experimentation in Art and Anthropology (2016), afferma che l’arte può essere un riferimento importante nella pratica etnografica, tanto da parlare di «estetica del lavoro di campo» (Sansi 2016: 70) e di «sperimentazione partecipante» (Sansi 2016: 72). Secondo Sansi, la critica al concetto di “osservazione partecipante” riguarda soprattutto il primo termine “osservazione” che connota una distanza piuttosto che una vicinanza, come invece sostiene il secondo termine “partecipante”. La nuova “estetica collaborativa” proposta da Sansi implica una “sperimentazione partecipante” in quanto il lavoro di campo antropologico si è sempre basato su un processo sperimentale, spesso anche di attrito, tra l’antropologo e i soggetti con cui interagisce. Sostiene Sansi che grazie al carattere generale dell’arte contemporanea:
«La antropología puede a portar una visión más radical, de procesos participativos en losque no se trata solo de trabaja rjuntos por elbien común, sino de hacerse y deshacerse los unos a los otros. Esta visión radical no es necesariamente nueva, quizá ha estado siempre implícita en eltrabajo de campo etnográfico. Pero siempre va bienre pensar la etnografía a partir de otros modelos —como las colaboraciones experimentales» (Sansi 2016: 72).
Altri autori sostengono che l’arte sia un valido supporto per ripensare a costrutti teorici antropologici e filosofici. Michael Richardson, per esempio, afferma che se l’arte riesce a raggiungere la profondità della natura umana, essa necessita dell’antropologia per spiegare come riesce a raggiungerla. L’antropologa Susanne Küchler considera invece la possibilità di esplorare l’arte attraverso la lente concettuale delle scienze matematiche piuttosto che, come succede tradizionalmente, in meri termini estetici, elaborando inoltre intriganti implicazioni teoriche e metodologiche anche nel settore dell’antropologia visuale.
Jonathan Friedman afferma che la metodologia artistica ed antropologica e l’esposizione museologica procedono parallelamente. Alla fine del XIX secolo, per esempio, “l’arte primitiva” suscitò – come è noto – entusiasmi ed ispirazione tra gli artisti. Del resto Primitive Culture di E. B. Tylor risale allo stesso periodo (1871). Contemporaneamente le mostre di materiale etnografico, organizzate sempre più frequentemente dai musei, mettevano gli artisti in contatto con una moltitudine di pezzi, di provenienze disparate e non illustrati da alcuna spiegazione, destoricizzati certo ma tali da obbligare a rivedere i criteri artistici, i canoni di bellezza, le possibilità espressive e il linguaggio (Boas 1981: 9). Si spiega così la tragedia romantica di Paul Gauguin che nella fuga alle isole dei Mari del Sud dà corpo alla sua rottura con la tradizione naturalistica greco-romana e rinascimentale, alla ricerca di un’espressione artistica guidata da criteri come immaginazione, purezza e autonomia creatrice del colore. Gauguin affermava infatti che: «La grosse erreur c’est le Grec, si beauqu’ilsoit». Ai loro primi passi nello studio dell’arte primitiva, anche gli artisti passano quindi per gli stessi percorsi seguiti dagli etnologi.
Se quindi arte ed antropologia si incrociano soprattutto per la capacità di interpretare e di rappresentare la vita sociale, sorprende l’attuale lentezza verso una matura esplorazione metodologica della border zone tra le due discipline. L’obiettivo di questo mio contributo è pertanto quello di considerare nuove possibilità di sperimentazione tra arte e antropologia. Lo farò attraverso la presentazione di una particolare opera artistica contemporanea, al fine di mostrare come il dibattuto tema dell’Identità in antropologia possa essere rielaborato e modellato in immagine.
«Is that what we call identity?»
Qualche tempo fa ebbi la fortuna di collaborare con Chiara Tubia, grande artista contemporanea, nella realizzazione di una sua opera d’arte, intitolata Is that what we call identity? ed esposta a Palazzo Marchesale ad Arnesano (Lecce) nel mese di dicembre 2016. L’opera, come tutta la produzione artistica di Chiara Tubia che è caratterizzata da sincretismi artistici, antropologici, religiosi e filosofici, affronta un tema di profonda rilevanza e attualità anche sotto il profilo antropologico, attraverso una performance sinestetica che univa immagine e suono.
Quando Chiara Tubia mi chiese di collaborare con lei, mi fu offerta l’occasione di riflettere su come l’arte possa fornire interessanti spunti di riflessione, sia tematici che metodologici che applicativi, all’antropologia e viceversa. Mi fu chiesto di scrivere il testo, recitato poi dall’attrice Valentina Violo, che accompagnava l’opera. Entrai quindi in stretta sinergia con Chiara Tubia ed insieme riflettemmo su come applicare il linguaggio antropologico all’immagine che lei voleva rappresentare. Nel ripensare al concetto di identità, ne abbiamo valutato lo spessore concettuale sia dal punto di vista dell’antropologo, sia dal punto di vista dell’artista. Il dibattito antropologico sul concetto di identità – tema quanto mai controverso – è stato prevalentemente orientato sulla critica ontologica di tale concetto. Al concetto di identità – come già diceva Hegel – non corrisponde nulla di reale nel mondo. L’identità quindi rischia di essere un mito spesso pericoloso. Sullo stesso piano si poneva la riflessione di Tubia secondo cui:
«L’identità può essere qualcosa di devastante nel senso bello e brutto del termine. Alla fine è come se, quando si identifica qualcosa, quel qualcosa non è mai fondamentalmente un punto di arrivo, perché c’è sempre qualcosa che slitta in avanti. È un qualcosa di mutevole perché è una continua scoperta. Posso riflettere sul concetto di identità grazie al percorso che ho fatto nella vita, all’uso di varie metodologie, di varie conoscenze, fondendo anche concetti quantistici piuttosto che matematici, filosofici amalgamandoli per esempio con concetti religiosi o con le discipline naturali. L’identità è utile per trovare concettualmente una unità, ma è un’unità che a volte rischia di sgretolarsi e poi riformarsi e magari quando si riforma diventa più forte».
Afferma Francesco Remotti che l’identità è più che altro una questione di decisioni. Nel nostro ordinamento sociale, per ogni persona esiste una carta di identità, dove sono riportati i dati anagrafici, alcuni dei quali sono perenni e immodificabili (luogo e data di nascita), mentre altri sono variabili nel tempo (le fattezze del volto riportate nella foto, la statura, il colore dei capelli, la residenza, la professione, lo stato civile); altri ancora, nonostante siano invariabili nel tempo, possono essere modificati con più difficoltà (nome, cognome e sesso). Dov’è quindi l’identità della persona? Se le parole hanno un senso, il significato di identità dovrebbe consistere in ciò che fa sì che una cosa (un’entità, un soggetto) permanga uguale a sé stessa nel tempo e nello spazio. Possiamo allora asserire che l’identità di una persona sia adeguatamente rappresentata dagli elementi invariabili della sua carta d’identità? È lì che si concentra la sua identità? Mi sembra di poter dire che, nella percezione comune, la nostra identità non è data dagli elementi invariabili (luogo e data di nascita). Siamo invece molto sensibili ai mutamenti di nome, cognome e sesso, a tal punto da concepirli come mutamenti di identità; il cambio di sesso viene infatti inteso come un mutamento di identità sessuale.
Quando parliamo di identità personale intendiamo certamente qualcosa di più complesso del codice fiscale. Ma allora che cos’è una persona nel suo insieme? Secondo Tubia: «la persona, almeno come sono io, come mi sento e quindi quello che posso dire, è qualcuno che dovrebbe cercare non solo sé stesso, ma anche il significato profondo di tutto ciò che lo circonda. È capire il senso dell’Io e il senso di tutto». La persona verrebbe dunque a coincidere con un nucleo sostanziale indivisibile. Ma se volessimo avvicinarci a questo nucleo per osservarlo con maggiore esattezza e precisione, non scopriremmo – come Blaise Pascal sosteneva nel XVII secolo – tutta una molteplicità di elementi, di aspetti, di articolazioni? E allora, non sarebbe più giusto affermare che la persona è fatta non di unità, ma di molteplicità? (Remotti 2010). In effetti, chi – come per esempio Amartya Sen (2006) – vuole salvare comunque il concetto di identità, sarà disposto ad affermare che ciascuno di noi è portatore non di una, ma di molteplici identità (a seconda dei ruoli svolti e delle appartenenze sociali).
Giunte a queste conclusioni, con Chiara Tubia ragionammo ulteriormente sul testo da stilare che avrebbe accompagnato l’opera. Anziché interpretare la molte- plicità nell’io come un mazzo di identità molteplici, proposi all’artista di concepire la molteplicità dell’io come fattore decisamente antagonistico rispetto alla identità. Invitai dunque a pensare come la molteplicità dell’io si combina con il flusso di cui è fatto; c’è un ricambio continuo, che impedisce di immobilizzare non solo l’io, ma anche le sue parti, i suoi elementi, le sue identità, anche se, beninteso, i soggetti si sforzano con diversi mezzi per contrastare il flusso. Insomma era esattamente l’idea affermata da Tubia secondo cui l’identità è: «un’unità che a volte rischia di sgretolarsi».
Ogni soggetto è sottoposto ad auto-rappresentazioni e ad etero-rappresentazioni. Ognuno di noi non è identico, ma simile a sé. Ogni sé – se così vogliamo esprimerci – consiste in un groviglio di somiglianze e differenze. Il soggetto è un groviglio a cui si applicano idee e progetti di riconoscimento, tali per cui il groviglio non sia una matassa confusa e indecifrabile, bensì una matassa in cui traspaiano un certo ordine, una certa intenzionalità, una certa progettualità. Un io si forma mediante questo processo di auto-riconoscimento, ma esso non coincide con l’acquisizione di un’identità (un io finalmente stabile e nettamente definito), bensì con un processo continuo e incessante di «somigliamento» e di «differenziamento» rispetto al proprio passato e al proprio presente. Potremmo aggiungere insomma che in un soggetto c’è sia coerenza che incoerenza. Un soggetto ha bisogno di auto-riconoscersi e lo fa ammettendo anche etero-rappresentazioni di altri soggetti che con lui interagiscono. Tra interno ed esterno c’è evidentemente una qualche linea che fa da confine.
Per penetrare con maggiore profondità la percezione di questo confine che la nostra cultura ci offre sono fondamentali queste considerazioni personali di Chiara Tubia:
«Mi sono sempre sentita aliena alla società, alle persone che mi circondavano, al pensiero collettivo. Guardavo le cose, rispetto al mondo che mi circondava, in maniera diversa. Vivevo nel mio mondo e tutto ciò che c’era fuori, come le persone mi vedevano e mi giudicavano, mi feriva molto. Era come se non fossi in grado di proteggermi».
Riprendendo il lavoro di Francesco Remotti L’ossessione identitaria (2010), è qui opportuno sottolineare la differenza tra il paradigma dell’identità e il paradigma della somiglianza. Se si adotta il principio dell’identità e si concepisce il soggetto – non importa se singolare o collettivo – come necessariamente dotato di identità, inevitabilmente si istituisce la categoria, opposta, dell’alterità. Tra identità e alterità corre un confine nitido e invalicabile: un’eventuale infiltrazione dell’alterità è concepita come una minac- cia, e dunque si deve fare di tutto perché il confine tra identità e alterità venga mantenuto nel suo significato di netta separazione e di inequivocabile opposizione (Remotti, 2010: 72). Se invece si adotta il paradigma della somiglianza, non solo il confine è assai meno netto e invalicabile, ma soprattutto esso non esiste in maniera preventiva. Se in origine c’è un groviglio di somiglianze e di differenze, il confine è qualcosa che si viene a formare durante il processo di soggettivazione; esso inoltre non rimane fisso e invalicabile, in quanto coincide con una zona di costante attraversamento. Diventare soggetto comporta infatti compiere gesti di somigliamento e di differenziamento non soltanto con sé stessi, ma anche con tutti coloro con cui in un modo o nell’altro si entra in contatto. La persona coincide insomma non solo con un individuo a sé, con un’auto-rappresentazione, ma contemporaneamente con un fascio di relazioni in cui egli è inserito (Remotti, 2009: 333).
Il risultato della commistione di conoscenze interdisciplinari e soprattutto del profondo ed intimo intreccio di pensieri tra Chiara Tubia e me, ha permesso la stesura del testo che segue e che accompagnava l’opera:
«Nasciamo con la possibilità di avere mille vite diverse, ma poi ne viviamo una sola
Ma quanto è vero?
Qu’est-ce qui définit l’homme, les hommes?
Mon identité c’est ce qui me rend semblable à moi-même et différent des autres?
Mon identité c’est ce par quoi je me définis et me connais?
Oppure ogni essere umano ha centinaia di persone separate che vivono sotto pelle?
Dove ogni uomo ha in sé diversi uomini che rimbalzano da un’identità all’altra.
Entità in mutazione.
Infiniti caleidoscopici sistemi che si coaugulano e si scompongono.
¿La imagen que tenemos nosotros mismos es la misma quelo sotrostienen sobreno sotros?
The accord between the image we have created of ourself and ourselves
Just who is that?
Our selves
Siamo specchi che si guardano?
Entità riflesse?
È il modo in cui ci vedono gli altri a definire ciò che noi siamo?
Ma ciò che noi siamo rappresenta la nostra identità?
To know where you belong
To know yourself worth
To know who you are
How do you recognize identity?
We are creating an image of ourselves
We are attempting to resemble this image
Is that what we call identity?
Identity
Of a person, of a thing, of a place
Identity
The word itself gives me shivers
A ring of calm, comfort, contentedness
What is it?
Identity».
(https://soundcloud.com/chiara-tubia/is-that-what-we-call-identity)
L’effetto artistico prodotto dall’opera di Chiara Tubia è un’immersione sonoro-visiva dello spettatore, inserito fisicamente nell’opera e guidato dalla voce narrante che pone interrogativi, affermazioni, suggerimenti sul concetto di Identità nella cultura occidentale. La sfida del suo lavoro artistico è il tentativo di abbandonare le dicotomie che separano arbitrariamente la mente dal corpo. L’opera è caratterizzata da una serie di volti umani, che sono il calco del viso dell’artista, posti lungo file parallele divise da corridoi. Lo spettatore, camminando tra i volti realizzati in gesso ed appoggiati al pavimento, utilizza un sistema sensoriale integrato, dove non si separano aristotelicamente né i cinque sensi tra loro né il soggetto dall’ambiente.
L’immersione fisica nell’opera pone in prima istanza una particolare sensazione di sospensione, una costante oscillazione fra materialità e immaterialità che rimanda a sua volta alla riflessione sul significato di identità e del suo simultaneo e complementare concetto di «assenza» (Mikkel Bille, Frida Hastrup, Tim Flohr Sørensen, 2010: 8). Nella composizione si delinea, nella sua estemporaneità, un tragitto antro-popoietico che condensa, in un’immagine, l’eredità dell’antico dibattito sulla natura umana tra il pieno e il vuoto (pitagorici e atomisti). L’opera sembra in qualche modo rievocare ciò che Democrito intende per «vuoto», ossia lo spazio in cui si muovono gli atomi, i quali, con la loro indivisibilità («atomo» in greco significa appunto «indivisibile»), sono un concentrato di essere. Lo spettatore si sente preso in causa in prima persona. La creazione di Tubia è un’esperienza da vivere, una «sensopoiesi» in cui i sensi diventano i mezzi per incorporare l’opera. Lo spettatore è dunque sottoposto all’operazione plasmatrice della produzione artistica.
Conclusioni
A guardar bene, l’opera Is that what we call identity? di Chiara Tubia fornisce spunti interessanti all’interno del dibattito metodologico e delle possibilità tecniche etnografiche di raccolta dei dati. Il lavoro di Tubia permette di riflettere sulla necessità creativa di esplorare nuove possibilità di sollecitazione e coinvol- gimento dei sensi. Che la vista, per ragioni storiche e culturali, sia stata considerata a lungo il senso assolutamente preminente nel mondo occidentale è indubbio. Il fatto è che questo processo ha prodotto non solo il predominio di un senso sugli altri, ma anche una forma di esperienza del mondo piuttosto monosensoriale. Gli studi neuroscientifici hanno però aperto uno spazio inedito al ruolo dell’ambiente di plasmare la percezione. Campi di indagine come quello della sensorialità rappresentano perciò l’occasione per gettare un ponte interdisciplinare e fare dialogare l’antropologia sia con altri settori del mondo scientifico sia, a mio parere, in particolare con l’arte contemporanea.
L’opera di Chiara Tubia si dimostra dunque occasione e mediazione sia per contribuire ad una riflessione metodologica per un’etnografia che tenga conto della dimensione sensoriale, sia per fornire, nella sua estemporaneità, l’immagine del significato che attribuiamo al concetto di Identità così come è stato elaborato nella nostra cultura.
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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