di Sergio Todesco
Una breve vacanza in Ungheria e Croazia mi ha offerto la possibilità di verificare, come peraltro già in passato mi era avvenuto, che la cultura tradizionale europea, quella che fin dal Neolitico si è venuta determinando e costruendo attraverso continui apporti, mescolamenti, interferenze di modelli e stili culturali, in questi Paesi mantiene ancora ampi margini di vitalità e di condivisione.
Girare per i mercati di Zagabria o di Budapest permette ad esempio di valutare come sia in questi luoghi ancora forte il legame città-campagna, e come queste capitali, a dispetto del loro essersi trasformate in città “europee”, riescano ancora oggi a mantenere stratificati elementi significativi del loro passato rurale, che coinvolge gran parte dei rispettivi territori nazionali. Le realtà dell’Impero Austro-Ungarico prima e della lunga parentesi comunista dopo hanno paradossalmente (ma non tanto) trovato convergenza nel favorire ampie enclaves tradizionali all’interno delle quali i ritmi della vita quotidiana sono ancora scanditi da modelli di cultura e stili di vita che altrove sono da decenni scomparsi.
Ma non di questo intendo riferire, trattandosi di tema assai complesso e non sintetizzabile in poche battute. Descriverò piuttosto due visite da me compiute al museo etnografico di Zagabria e alla Kunsthalle di Budapest. A Zagabria ho rivisto, dopo quasi dieci anni, l’Etnografski Muzei (Trg. braće Mažuranić 14), che custodisce al proprio interno manufatti e testimonianze del patrimonio etnografico del Paese. La mia prima visita mi aveva riservato un’immagine deludente della struttura, attesi gli allestimenti spartani ed elementari e la complessiva povertà di apparati disponibili. Questa volta la visita è stata gratificante, poiché con tutta evidenza – pur all’interno di un contesto per molti versi ancora ingenuo (ad es. i grandi espositori pieni di manichini in costume) – i curatori mostrano di avere implementato le loro competenze in tema museografico, pare quasi che abbiano iniziato ad assimilare la lezione di Alberto M. Cirese. Gli allestimenti infatti si sono arricchiti con pannelli esplicativi bilingue e hanno fatto la loro comparsa monitor sui quali vengono proiettati documentari relativi a feste, cicli produttivi, storie di vita ed esperienze di lavoro.
Su poco meno di 85 mila pezzi posseduti dal museo ne vengono esposti circa tremila. Fanno la parte del leone i ricchissimi costumi croati, presenti in grande numero, nonché i manufatti dell’arte e dell’artigianato popolare croato (dai merletti ai gioielli ai dipinti su vetro etc.), mentre uno spazio consistente è riservato alle attività lavorative tradi- zionali, pastorizia in testa, e ai lavori domestici. È però altrettanto degna di menzione la sezione strettamente antropologica, che espone manufatti (oggetti d’uso e rituali, armi, strumenti musicali) raccolti nel corso di missioni etnografiche o viaggi di esplorazione di aree extraeuropee (Etiopia, America latinae meridionale, Cina, Giappone, Nuova Guinea, Australia) divenuti in seguito collezioni donate al museo. Un ingente patrimonio fotografico e una discreta Biblioteca (circa ventimila volumi) completano il patrimonio museale.
La caratteristica che più colpisce in questo museo è la particolare cura rivolta agli aspetti didattici e formativi. La struttura è continuamente meta di visite da parte di scolaresche (ben quattro durante la mia ora e mezza di permanenza) e si nota con un certo stupore come la fruizione dei reperti, accompagnata dalle spiegazioni di insegnanti e di personale del museo, venga praticata da questi giovani con attenzione e curiosità molto lontane dagli atteggiamenti annoiati e distratti di tante delle nostre comitive di fronte alle testimonianze di culture desuete. L’impressione che se ne ricava è che le visite facciano parte di un progetto consapevole e mirato, da parte delle istituzioni, di educazione dei giovani all’identità nazionale.
Altro aspetto concernente una peculiare caratteristica dell’allestimento, è l’interes- se accordato al rapporto tra l’uomo e l’animale, esaminato in una pluralità di forme che vanno dalle attività lavorative alla dimensione simbolica che entra in gioco nei contesti cerimoniali e rituali. Notevole e illuminante, sotto tale profilo, una piccola ma molto ben costruita sezione dedicata alla presenza rituale dell’orso in alcuni areali europei, in specie nelle feste di carnevale. Un filmato quivi offerto stimola impressionanti suggestioni comparative con ritualità presenti in Sicilia, come l’orso nel carnevale di Saponara.
Al Műcsarnok-Kunsthalle Budapest (Dózsa Györgyút 37) ho avuto la fortuna di trovare (dopo averla mancata in Italia) Genesis, una straordinaria mostra foto- grafica di Sebastião Salgado, fotografo brasiliano, forse il miglior documentarista oggi esistente. La Kunsthalle, che prospetta sull’imponente Piazzale degli Eroi (Hősöktere), è un’istituzione della Accademia Ungherese delle Arti che offre uguale spazio a tutte le forme di espressione artistica. In questo caso all’arte di un grande fotografo si accompagna un apparato didascalico che non sfigurerebbe in un museo di antropologia.
Curata da Lélia Wanick Salgado, l’esposizione si caratterizza per la sua ricchezza (245 spettacolari fotografie di grande formato) e per la felicità dello sguardo etnografico che le immagini dispiegano. Le didascalie delle foto sono estremamente articolate e puntuali, volte a fornire allo spettatore notizie circostanziate sui contesti eco-antropologici nei quali le immagini sono state realizzate.
Genesis è una sorta di lucido viaggio sentimentale attraverso le plaghe del nostro pianeta condotto da Salgado mediante trenta differenti percorsi esplorativi da lui visitati nell’arco di sette anni, dal 2004 al 2011. È, altresì, un appassionato allarme lanciato al mondo sulle sorti della terra, i cui tesori – umani, animali e naturalistici – rischiano oggi di essere cancellati per i motivi a tutti noti, già peraltro preconizzati da Claude Lévi-Strauss nel suo profetico Tristes Tropiques.
Il viaggio si articola in direzione di cinque ampi areali. Nella Sezione Planet South si dipana la storia dell’Antartide, delle Falklands, dell’Arcipelago Diego Ramirez e delle Isole Sandwich. Qui risultano pro- tagonisti i pinguini, gli albatros, i leoni di mare e i cormorani. In Sanctuaries vengono ripresi i paesaggi vulcanici e la fauna delle Isole Galápagos, ma anche gli abitanti della Nuova Guinea, delle isole indonesiane e del Madagascar. Qui natura e cultura iniziano ad intrecciarsi. Nella Sezione Africa la documentazione etnografica prende il sopravvento, fornendo con straordinarie immagini i volti, i momenti di vita quotidiana e i costumi di indigeni del Botswana, della Namibia, del Sudan, del deserto del Kalahari, dell’Etiopia. Ancorché ricche di presenze umane, le fotografie dischiudono ampi squarci di rocce, oceani, deserti, montagne.
In Northern Spaces spiccano i paesaggi di Alaska, Colorado, Isola di Baffin, ma non manca l’estremo nord della Russia, con una più marcata attenzione rivolta alle popolazioni indigene del Nord Siberia e della penisola Kamchatka. Nella Sezione Amazonia and Pantanal, forse la più coinvolgente, alle spettacolari immagini naturalistiche (le immense foreste pluviali amazzoniche, gli alberi giganteschi del Mato Grosso, le formazioni geologiche venezuelane tra le più antiche del pianeta) si accompagnano immagini di gruppi etnici tra i meno conosciuti al mondo, quali gli indios Zo’e e le tribù dell’AltoBacino del fiume Xingu in Brasile.
Ciò che colpisce in molte immagini è la estrema solidarietà tra uomo e natura. I “selvaggi” di Salgado, pur vivendo in un pianeta ormai attraversato da una globalizzazione che come una macchina schiacciasassi frantuma e distrugge al suo passaggio ogni differenza, ogni specificità culturale, ancora riescono a vivere le loro giornate storiche secondo un modello di società “fredda” come quello che Lévi-Strauss già individuava all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso (Race et Histoire). Un’esistenza giocata su risposte elementari a elementari bisogni, e dunque – in larga misura – sulla gratuità e su un forte investimento simbolico che mira a sacralizzare una natura dalla quale, ancorché in essa “gettati”, non ci si percepisce estranei.
Arricchisce e completa l’esposizione un prezioso documentario su Sebastião Salgado, realizzato da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado. Questo straordinario fotografo, umile come tutti i grandi documentaristi («In Genesis, my camera allowed nature to speak to me. And it was my privilege to listen») ci consegna un messaggio che vuole essere al contempo lucida testimonianza di un mondo segnato dalla bellezza, e drammatico appello a che la spietata logica del profitto che oggi governa il Pianeta non giunga a decretarne la fine.
Come sempre avviene laddove si abbiano occhi e cuore capaci di dispiegare sguardi sulle alterità che ci circondano, un viaggio di piacere ha avuto come esito anche un ampliamento di conoscenza e un incremento della capacità di riflettere criticamente sul mondo e sulla sua storia.
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra li quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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