di Valeria Dell’Orzo
Incuranti delle realtà che basilarmente hanno dato forma a quell’immagine societaria che le strumentalizzazioni del potere spacciano per consolidata e rassicurante, gli uomini continuano a muoversi sulla Terra, portando in sé il bagaglio personale di tutte le proprie mescolanze, con le tracce, impresse dentro ciascuno di noi, di percorsi, conoscenze e scoperte.
Di fronte a questo pressante ribollire mediatico, considerato sia poco rilevante inseguire i cavilli e le astuzie linguistiche che i vari esponenti politici propongono per affrontare la questione, piegandola al meglio al proprio fine propagandistico, ritengo invece necessario porre l’attenzione sull’essenza della nazionalità negata, vincolata, e relegata non al sentire del singolo e della comunità, ma alle burocrazie di esclusione e alle meccaniche della paura dell’altro.
Affermato nel 1948 nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani [1], il diritto alla cittadinanza è stato accettato dai Paesi firmatari, riconosciuto irrinunciabile per un sano sviluppo del singolo e della società, e la sua negazione è stata stigmatizzata trasversalmente come condizione distorta e portatrice di sofferenze e violenze destinate a esplodere; come, tra l’altro, dimostra, uno fra tanti, il caso dei Rohingya, che rimasti esclusi dal riconoscimento dei popoli birmani pur facendo parte di quella realtà geografica e umana da secoli, sono oggi vittime di un eccidio tanto ottuso e deplorevole quanto prevedibile. Il caso, recentemente affrontato dalle istituzioni internazionali, ha suscitato indignazione anche tra coloro che si fanno ogni giorno promotori dell’estromissione, dichiarando così l’aperta scorrettezza concettuale o l’ipocrita incapacità di una lettura critica e consapevole dei fatti.
Essere riconosciuti come parte integrante della realtà entro la quale si agisce quotidianamente è un requisito impre-scindibile della costruzione di sé, ancora più necessario quando ci si trova a affrontare una vita fatta di spostamenti, di nuove interazioni, di percezioni rifor- mulate della propria immagine e di ciò che circondandola ne è forgiato e la plasma.
Trovarsi in un luogo diverso da quello di origine, diverso da quello dei propri genitori, mette chiunque in una condizione di iniziale difficoltà, dal momento che occorre ricostruire l’immagine che si ha di se stessi, ricreare un campanile di identità, ma farlo rimanendo intrappolati in un groviglio di ostacoli quotidiani e di diritti limitati o negati diventa, se non impossibile, ingiustamente pesante.
Il tanto discutere attorno al tema del diritto alla cittadinanza, mostra chiaro il dramma dell’imbarbarimento socioculturale che attraversa sempre più prepotentemente il mondo globalizzato dell’Occidente. Il riemergere battente delle peggiori derive politiche che la storia moderna ha conosciuto dovrebbe atterrire chiunque sia consapevole degli orrendi frutti che il razzismo e il nazifascismo hanno prodotto con la loro violenta e illogica smania di un’identità fatta di separazioni e discriminazioni. Invece continuiamo ad assistere nell’indifferenza collettiva o nella inerzia delle istituzioni pubbliche al rinfocolare continuo di paure e insicurezze, che alimentano l’odio, l’isteria e l’esasperazione.
Indipendentemente dalle differenze formali [2] che di Paese in Paese sanciscono la possibilità di vedersi riconosciuti entro la società in cui si vive, il tratto comune rimane proprio la delimitazione dell’accesso a quello che in evidenza appare come un basilare diritto umano: essere ammessi quale parte comunitaria del nucleo socio-statale che si abita e che dunque si contribuisce a costituire. Cittadini tra i cittadini, votanti, riconosciuti, inseriti a pieno titolo in quello spaccato di mondo nel quale il loro quotidiano si svolge; non più ospiti, estranei più o meno accettati, ma titolari di un diritto al pari degli altri, inseriti in quello che dovrebbe essere un comune progetto di sviluppo e progresso, ma anche di costruzione continua della cultura, imprescindibile proprio perché duttile come l’esistenza umana che l’abita e la vive.
Il progetto di limitazione, se non di formale separazione, che si persegue ancora oggi, nella realtà del brulicante spostarsi umano, racchiude in sé tutti quei paradossi sociali che la storia ha già sperimentato a discapito della cultura del contatto, dell’inclusione e dello scambio, ma porta con sé anche le pesanti falle della tanto acclamata sicurezza nazionale, un fattore, questo, non trascurabile in una contemporaneità attraversata da violenze covate proprio lungo le trincee dell’emarginazione, rancori e frustrazioni, legittimazioni alla brutalità che prendono forma nel distillare e macerare la paura dell’incontro, il risentimento individuale, il rancore sociale.
Nel segno della separazione e della ghettizzazione materiale e culturale, ci si fa beffa del più intimo e attraente slancio umano, quello del conoscere, dello scoprire, l’istinto a esplorare e sperimentare nuove realtà, nuove formule del vivere che di volta in volta, adattandosi, si rendono più funzionali e più rassicuranti. Ma quello che ancor più vilmente si fa, è costruire da una parte la categoria del più debole, degli ultimi, e dall’altra le flottiglie sociali dei penultimi indotte a sfogare sul presunto rivale, su colui che deve rimanere un estraneo, tutta la rabbia generata dalle mancanze e dalle inadeguatezze dello Stato.
Retaggio di una sanguinosa Roma imperiale, la politica del parlamento e delle piazze esagitate dei comizi, ripropone ancora oggi lo schema di una lotta tra gli ultimi della società; ultimi perché stranieri, oppure ultimi perché incolti, o ancora perché accecati dalle privazioni di una vita di stenti, o dal presunto fasto del potere violento dell’esclusivismo fascista. E mentre i togati di turno rimpinguano le proprie tasche di ori e di consensi elettorali, nel vivere quotidiano dei cittadini, riconosciuti e non, si protrae la lotta per l’affermazione della supremazia del sé, o per la tutela della propria esistenza.
Frange umane contrapposte, incasellate in un ruolo e private del piacere della conoscenza, da una parte, e del diritto di ricostruirsi e sentirsi parte riconosciuta della propria realtà quotidiana dall’altra, vittime di una perversa manipolazione del potere che ha bisogno dello scontro per occultare le proprie mire e le proprie colpe.
Quello della cittadinanza dovrebbe essere non un diritto da discutere, da chiedere, da attuare tra timbri e fascicoli, permessi e domande, non dovrebbe essere l’etichetta di carta e inchiostro da apporre sul documento per riconoscerne l’identità individuale e l’appartenenza sociale. Questa idea la svilisce nella sua intima essenza di civico collettore, di etica obbligazione e di umano legame.
La cittadinanza dovrebbe essere, invece, null’altro che la naturale conseguenza del convivere, della condivisione partecipata di spazi, luoghi e tempi tra coloro che ogni giorno percorrono le stesse strade, affrontano i problemi comuni della realtà politico-geografica in cui si svolge la propria quotidianità, una realtà fatta della presenza di ogni singolo individuo che ne compone l’insieme, in un sistema di relazioni e di reciprocità sostanziato dei diritti e dei doveri la cui complementarietà costituisce il tessuto connettivo di una democrazia. La cittadinanza immiserita nelle trame della burocrazia politicizzata stride non solo con l’auspicabile coesistenza armonica tra gli abitanti delle singole realtà statali, ma anche con quella concettualizzazione da propaganda che l’Occidente, in particolare, fa della globalizzazione quale panorama continuo di contatti e scambi.
Se alla base del contatto c’è la necessità di eliminare le distanze, di muoversi da pari su un suolo comune, allora quel contatto deve spingersi oltre la tolleranza per diventare rispettosa coesistenza e feconda convivenza.
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
Note
[1] Riportata dall’UNHCHR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf
[2] Ius sanguinis, un diritto ottenuto nascendo da genitori in possesso della cittadinanza, o nascendo sul territorio e avendo almeno un genitore in possesso di nazionalità, come nel caso della Gran Bretagna; ius soli temperato, come nel caso della Germania, esteso a chi nasce da genitori extracomunitari in possesso di permesso di soggiorno permanente ottenuto da almeno tre anni e a seguito di una permanenza di almeno otto anni nel Paese ospitante; ius soli particolarmente debole è poi quello applicato, e discusso, in Itala, Spagna e Olanda che impongono un intricato sistema di attribuzione della nazionalità non riferita al paese di nascita, ma sulla base dello ius sanguinis o di una serie di requisiti quali un prolungato tempo di permanenza senza interruzioni, compimento del ciclo di studi, raggiungimento della maggiore età, o a seguito del matrimonio se contratto con qualcuno in possesso di cittadinanza e mantenuto per un arco di tempo variabile di Stato in Stato, da uno a due anni. Secondo quanto discusso in questi ultimi tempi, in Italia, pur abrogando l’attuale legge, in vigore dal 1992, acquisire la cittadinanza non sarà automatico, anche in possesso dei requisiti imposti, ma avverrà solo a seguito di una formale richiesta e di una procedura di verifica.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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