di Marcello Carlotti
In queste settimane, due argomenti dominano la cronaca: i processi migratori e la violenza (non solo fisica) che la società (non solo gli uomini, non solo i maschi) perpetrano sul corpo delle donne. L’anello di congiunzione fra il primo ed il secondo tema, per dirla con Hobbes, consiste nel dominio del più forte sul più debole, sia esso un migrante o una donna. Tuttavia, alla riflessione in corso (sopratutto su giornali, talk e social media) manca, a mio avviso, un vero approfondimento antropologico che, attraverso comparazioni culturali ed estraniamento metodologico, consenta al dibattito di progredire mediante una messa in prospettiva.
Per questo, mi è tornato alla mente quanto mi accadde la prima volta che, da antropologo, misi piede in Madagascar per realizzare un documentario antropologico su un tema veramente scabroso: il turismo sessuale e lo sfruttamento della prostituzione femminile. Preparandomi al viaggio, mi accorsi che la letteratura sul Madagascar era (ed è), al riguardo, a dir poco scarna. Gli unici, poco lusinghieri dati che ebbi modo di raccogliere mi informavano che, fra i tanti stranieri che viaggiano per turismo sessuale, gli italiani erano in cima alla classifica e, incredibilmente, fra gli italiani, i sardi occupavano il primo posto. Due record, per me sardo ed italiano, veramente imbarazzanti. Sul fenomeno della prostituzione, purtroppo, non trovai nulla di affidabile dal punto di vista scientifico, per cui mi basai, per iniziare, sui racconti dei miei contatti italiani. Nessuno di loro era antropologo e, per questo, presi con le pinze i loro resoconti: parlavano di prostitute e prostituzione nei termini in cui, il fenomeno, si svolge nelle periferie italiane: donne sfruttate e costrette a vendere il proprio corpo. Non solo, mi dissero anche che volevano sensibilizzare gli stranieri, chiamati vasaha dai malgasci, su un fenomeno secondario e connesso al turismo sessuale: i bambini meticci, ovvero i figli di una donna costretta a prostituirsi e di un occidentale. A sentir loro, quei bimbi erano degli emarginati, reietti dalle loro famiglie.
Il periodo passato in Madagascar mi ha confermato un monito che ogni antropologa ed antropologo dovrebbe tener sempre a mente: il racconto delle culture altre è un mestiere difficile che richiede la capacità di costruire categorie nuove per accogliere, nel nostro, il senso degli altri, evitando di banalizzarne i significati culturali, appiattendoli sui nostri, o, al contrario, di esotizzarli al punto da renderli caricaturali. Nessuna donna e nessun uomo che avevo sentito prima di partire, infatti, mi aveva saputo spiegare cosa fosse una makorelle, che per loro era l’equivalente di prostituta, e, men che meno, nessuno di loro era arrivato (neanche lontanamente) a pensare e comprendere che i meticci (vasaha veri) lungi dall’essere emarginati dalle loro famiglie, erano considerati veri e propri doni, motivo di vanto in seno ai villaggi. Prima di lasciare il lettore al resoconto della mia prima settimana malgascia, vorrei sottolineare alcuni aspetti:
- il Madagascar è grande quasi due volte l’Italia;
- ha una popolazione stimata di circa 25 milioni di abitanti, parecchi gruppi etnici in contrasto tra loro, una distribuzione della popolazione diversificata per zone;
- è uno dei Paesi più poveri del mondo (il Pil procapite annuo è di meno di 500 US Dollars) ma paradossalmente uno dei più belli;
- la sua insularità lo ha reso unico ed importantissimo in termini di biodiversità (possiede in esclusiva il 5% delle specie del mondo);
- pur essendo molto vicino al Corno d’Africa, è stato antropizzato solo recentemente (i primi uomini che vi hanno messo piede, lo fecero circa 2.000 anni fa);
- ha subito una colonizzazione devastante da parte dei francesi (finita solo nel 1960, non senza strascichi ed ingerenze che continuano tutt’oggi);
- ha una delle popolazioni più giovani del pianeta (gli under 14 rappresentano il 45% della popolazione, mentre gli over 65 raggiungono a malapena il 3%).
- nel nord del Madagascar, fra l’altro, è forte il matriarcato (la donna comanda), e, incredibilmente, lo fa saltando una generazione (mentre la mamma biologica si costruisce i presupposti economici per avere stabilità, la nonna – spesso poco più che trentenne – si occupa dei nipoti una volta che questi sono svezzati);
- Le makorelle non possono essere equiparate alle nostre prostitute.
Resoconto
Dopo nove ore di volo, atterriamo dentro una foresta. All’apertura dei portelli, il caldo umido regala ghirlande di sudore. Noi siamo in tre – P., G. ed io – ma per ora ciascuno è solo. P. fa parte della onlus che mi ha invitato quaggiù. G. è un aspirante giornalista. Io faccio l’antropologo. Siamo venuti a capire bene cosa accada in questa strana isola nell’isola malgascia. Pare che qui si sia radicato uno strano e inquietante fenomeno. Come nella Cuba degli anni ottanta, ciurme di europei si sobbarcano il volo per la ragione più vecchia del mondo: il sesso. Nosy be è oggi una meta, a buon mercato, del turismo sessuale.
In aeroporto non esistono trattorini, così tonnellate di valigie giacciono impilate su rimorchi spinti a mano. La coda per il visto si preannuncia lunga, il caldo eccessivo. Entriamo in una baracca col tetto di latta e le finestre chiuse. Trovo un ventilatore e mi ci piazzo sotto. L’arrivo dei turisti scatena voglie predatorie tra i doganieri. I più svegli capiscono e, facendo finta di nulla, tutti noi cerchiamo di diventare scaltri. Aspettiamo che ci si avvicini il doganiere di turno, che ci offra di scavalcare la fila, gli allunghiamo due euro e passiamo tutti avanti. Ma dato che tutti passiamo furbescamente avanti, il risultato non cambia e la fila rimane invariata.
Sono trascorse due ore, e finalmente usciamo. Ad attenderci R., fondatore di una onlus che cerca di operare in Madagascar, e suo figlio, A. Figlio di R, di una malgascia e del turismo sessuale. R. ha avuto A. da una malgascia conosciuta qui, in un ristorante dove faceva la cameriera. Dopo due giorni, la donna era incinta. Dopo nove mesi è nato A., che ha i tratti malgasci, la pelle bianca, i riccioli stopposi e biondi, gli occhi azzurri.
R., a differenza degli altri, di quasi tutti, ha riconosciuto il figlio ed è riuscito a portarlo con sé. Ora vivono a cavallo tra l’Italia e il Madagascar. Un uomo e un bambino. Soprattutto un figlio che sta facendo un padre. Anche per questo ho accettato di essere qui. R., colpito dall’idea che tanti altri bimbi meticci come A. vengano abbandonati qui dai loro padri biologici, spaventato che possano essere discri- minati, ha pensato di fondare una onlus e investire i suoi soldi per costruire una scuola e, per questo, mi ha chiesto di venire a dargli una mano.
L’idea è semplice ed ingenua: la madre di A. è una maestra che, per arrotondare, fa la cameriera e, forse, si prostituisce. «Non con me» precisa R. Dunque, R. pensa di prendere due piccioni con una fava: costruire una scuola coi suoi soldi (finora ha speso di tasca sua una cifra impressionante), dare un lavoro degno alla madre di suo figlio e ad altre maestre come lei, dare un’istruzione ai bambini vasaha veri (bianchi mancati).
Arrivati in albergo, scopro di essere considerato vasaha (bianco) anche io, che sono più scuro della maggior parte dei malgasci. Con un vecchio trucco antropologico appreso da Nigel Barley, racconto una balla: dico di essere meticcio, figlio di un genitore hawaiano e di uno italiano. Alla lunga, questa bugia si rivelerà una chiave per aprire molte porte e qualche cuore.
R. e P. ci dicono che è il caso che andiamo a fare un po’ di spesa se vogliamo mangiare. Abbiamo due macchine. Davan- ti i due della onlus, dietro l’aspirante giornalista ed io, che abbiamo smesso la fase di studio e cominciamo a parlare del da farsi. Io ho montato una delle mie videocamere appena uscito dall’aeroporto e continuo a girare. Perdiamo nel traffico i due della onlus che sono partiti a razzo come non ci fosse un domani, e allora noi puntiamo, pragmaticamente, dritti al mercato. L’isola è piccola e poi tanto conosciamo la strada fino all’albergo. Dalla quantità di cose scorte finora, io e G. siamo concordi: una settimana non ci basterà mai per fare neanche la millesima parte di quel che vorremmo.
Ci addentriamo nel mercato di Hell-Ville. Io ho una macchina appesa al collo, e ne porto un’altra nello zaino. Facciamo una prima vasca. All’inizio della seconda chiedo a G. di prendere l’altra macchina e di appendersela al collo pure lui. Sono spente e col tappo. Non stiamo girando a vanvera, stiamo mandando un messaggio: siamo due innocui vasaha.
Dopo un paio d’ore sotto il sole malgascio, ritroviamo R. e P. Con loro Corette, che è l’interprete diffidente, ma che diverrà, nei giorni, guida, giornalista, amica, madre e sorella. Tagliamo corto sull’esserci persi, perché tutti, col sole che picchia a 40°, preferiamo una birra fresca. In fondo, dico ai due della onlus, noi non ci siamo persi: abbiamo cominciato a lavorare.
Il pomeriggio, grazie a Corette che ha emesso un comunicato via radio locale sul nostro documentario, abbiamo le prime interviste da fare: una ragazza di 19 anni che vive spaccando le pietre in miniera e arrotonda facendo la makorelle. Ha avuto un figlio da un italiano, che vive ancora a Nosy be. Abbiamo approntato delle domande. Si riveleranno tutte fuori fuoco. Non puoi chiedere ad una che passa il tempo a spaccare pietre con un martello paleolitico il senso della famiglia per i malgasci.
La sera, con l’aiuto di Corette, redigiamo un altro questionario di domande. La notte andiamo ad Ambatoloaka, il quartiere delle makorelle. Pensavamo di essere preparati, ma quel che vediamo ci sconvolge. È pieno di vecchi laidi che, al prezzo di una birra italiana, palpeggiano e adescano tante cloni di Naomi Campbell. Io personalmente non ho mai visto una concentrazione così alta di bellezza femminile. Potrebbe essere il paradiso, invece sembra l’anticamera dell’inferno. La cloaca che raccoglie le deiezioni della decadenza e della frustrazione occidentali. Decido che il giorno dopo torneremo qui, e filmeremo di nascosto.
Il secondo giorno la sveglia suona alle 5 del mattino, e filmiamo l’intera giornata. La sera torniamo nel quartiere delle makorelle, che ruota attorno a due bar e due discoteche. Ho nascosto una macchina in una pochette che P. porta in giro con lo zelo di un agente della STASI. Si attacca come una patella ai vecchi bavosi e, con mille scuse, filma.
Il terzo giorno ripetiamo il copione, ci alziamo dopo appena un’ora di sonno. Filmiamo tutto il giorno e poi la sera torniamo ad Ambatoloaka. Stavolta si va in discoteca. E lì conosco Nina.
P., G. e R. sono scesi in discoteca in macchina con altre due italiane incontrate in albergo. Io prendo un passaggio da N, il proprietario del resort nel quale alloggiamo che, durante il tragitto, mi racconta di essere stato quasi medico, ma di aver mollato la carriera nei primi anni settanta, «quando tu di sicuro non eri ancora nato». Da allora, passa la vita a girare il mondo, dapprima come antiquario e poi, con uno scrupolo sempre più certosino, ad aprire, avviare e vendere alberghi nei luoghi più reconditi del globo. L’ultima tappa prima del Madagascar è stata lo Srilanka. Vende, mi racconta mentre la macchina evita ombre scure sui lati della strada, prima che la presenza dell’uomo bianco diventi eccessiva, fastidiosa.
Il suo problema, qui in Madagascar, è che il posto gli piace. Vorrebbe rimanerci, ma sa già che dovrà andar via.
«Vedi, Marcello, io ho sessantasette anni, in Italia, alla mia età, sei un uomo morto, non conti più un cazzo per nessuno. Qui sei vivo. Puoi parlare ancora con un gruppo di bambini senza che nessuno pensi che sei un pedofilo, puoi attaccare bottone a dei ventenni al bar senza che accada nulla. Puoi giocare a biliardo con degli sconosciuti. Puoi farti una bella trombata senza che nessuno ti giudichi. Qui la vita è ancora vita. Nel bene e nel male. Da noi, invece, se tutto va bene, se hai ancora voglia di vivere ti prendono per un rincoglionito». «Un patetico − dice con un sospiro mentre tira il freno a mano − Dai, siamo arrivati, andiamo a ballare. E preparati, che una cosa del genere non l’hai mai vista».
Mentre entriamo in discoteca, mi trovo a rimuginare su una frase che N. ha detto a cena mentre cercavo di capire cosa spinga ciurme di vecchi europei ad arrivare quaggiù per adescare le giovani malgasce.
«Il Madagascar è una lente di ingrandimento. Non si sfugge. Nulla è come sembra».
La musica, un ritmo forsennato a cui nessuno di noi è abituato, mi colpisce fisicamente. Mentre P. filma, e G. e R. stanno in disparte protetti dal tavolo, io e N. continuiamo la nostra conversazione in prima linea. Conosce tutte le makorelle. Comincia a snocciolarmi prezzi e difetti. I pregi, dice con ironia, sono evidenti, mi pare. Mentre si allontana mi fa: «Non puoi venire a Nosy Be e non provare il piatto forte del luogo».
Alcune makorelle mi abbordano come iene su una carcassa, evitando però di pestarsi i piedi l’un l’altra. Se una ci prova più esplicitamente, le altre si ritirano. E così, nel breve volgere di un minuto, approfittando del fatto che N. mi ha lasciato solo, una cerca di schiaffeggiarmi coi seni, un’altra mi tira su dalla sedia come fossi un fuscello, una terza mi si struscia addosso e una quarta, mentre finalmente torno a sedermi, mi impone una visione ravvicinata del suo fondo schiena. Io mi limito a dire di no a tutte, suscitando l’ilarità dell’ambiente. E i miei ripetuti no, a quanto pare, fanno scattare una sfida tra le makorelle. Tutte ridono, molte mi abbordano. Ce n’è una, più bella delle altre, inguantata in un vestito rosso mozzafiato che non ride, non mi abborda e non si muove: ogni tanto mi guarda e poi abbozza l’inizio di un sorriso.
«Quella è una troia pazzesca, la peggiore di tutte, fa’ attenzione» mi dice N. riappropriandosi del suo spazio al mio fianco. «Si chiama Nina. Figurati che una volta, ero appena arrivato, ci ho trombato e voleva 10mila ariari in più di quanto le avevo dato. Mi ha piantato un casino della madonna, voleva chiamare i gendarmi. Occhio, mi raccomando, qui a Nosy be la conoscono tutti. È la makorelle numero uno».
Mentre N. parla, io calcolo che 10mila ariari sono circa 3 euro. Mentre penso a cosa siano 3 euro per noi, vedo che attorno ci sono due fasce d’età prevalenti: giovani e anziani. E noto che gli anziani hanno smesso di farmi rabbia. Mi suscitano tenerezza mista a pena. Non cercano amore − del resto come potrebbero? Non cercano neppure sesso − cosa vuoi combinare tu a settant’anni suonati con una donna di 20 alta un metro e ottanta? Cosa cercano, allora? Cosa li spinge fin qui, a parte il low cost?
«Il Madagascar è una lente di ingrandimento. Non si sfugge. Nulla è come sembra»
Comincio a sentirmi a disagio. Tutto mi sembra patetico e grottesco. Meno il sorriso di Nina, che nel frattempo è sparita. Finita la serata, torniamo in albergo esattamente come siamo venuti. N. ed io sul suo fuoristrada, gli altri sull’altra macchina. N., col suo fuoristrada, i suoi mocassini scuri e scamosciati, le sue camicie di lino bianco, il suo sorriso calcificato e il suo resort in cima alla collina, è una perfetta metafora della nostra civiltà.
Crediamo di vivere più in alto, di essere superiori e portatori di non si sa bene quale forma di progresso e civilizzazione, e invece viviamo solo e letteralmente al di sopra delle nostre possibilità, sulle spalle degli altri. E se ci riusciamo, ci si scolpisce un sorrisetto beffardo sul volto, una sorta di strano ghigno di malcelata insoddisfazione.
Mentre la macchina arranca nel punto più arduo della salita verso casa, mi scopro a pensare pensieri moralisti. Deve essere la stanchezza, oppure è che non sempre possiamo far finta di non vedere. Io, comunque, di certo non sono meglio di lui. Probabilmente, al suo posto, farei esat- tamente le stesse cose, se non peggio. Ciascuno di noi, in fondo, è fatto di quello strano impasto di carne e debolezze, argilla e anima, spirito e feci che ci tiene in vita tutti i giorni con le nostre ansie, le nostre paure, ma anche i nostri sogni e desideri.
Quali sogni e quali desideri si possono coltivare quaggiù allora? Cosa veniamo a cercare, noi bianchi, in fondo a questa porta di paradiso? Non può essere solo il sesso facile e a pagamento ristretto. Ci dev’essere qualcosa di più che non riesco a capire, e non capire è una cosa che non sopporto. Anche perché la sensazione è che quel qualcosa sia là, a portata di mano eppure sfuggente come il sorriso di Nina.
Per non sapere né leggere, né scrivere, R., N., G. ed io ci accoccoliamo vicino alla piscina e sorseggiamo del rum locale discutendo fino all’alba dello stato di avanzamento del documentario. A causa della stanchezza, del caldo e forse anche del rum, finisco per ammettere di aver perduti tutti i punti di riferimento coi quali questo progetto mi era stato introdotto e proposto. Da quando sono in Madagascar, tutto sfugge e le categorie non bastano, recinti vuoti dentro ai quali nessuno significato ha voglia di stare.
Così, prendo la parola e articolo, con molta poca diplomazia, che non capisco cosa cazzo stiamo facendo quaggiù. Sono stato coinvolto in un progetto il cui fine è quello di realizzare una scuola per i vasàha veri, ovvero per i figli nati dal turismo sessuale e poi discriminati dalle famiglie malgasce d’origine. I poveri bambini meticci, senza padre, con una madre prostituta che non si occupa di loro e li abbandona a se stessi. Dopo aver fatto un po’ di interviste e ricerca in loco, questo modello mi sembra fare acqua da tutte le parti. Le donne che abbiamo intervistato, makorelle o meno che fossero, ci hanno raccontato una storia molto diversa. Un figlio meticcio non è un disonore, tutt’altro. Qui avere un figlio con un bianco è ancora un fatto d’onore, un vanto. Per cui sì, come ci ha spiegato Corette, quei bimbi sono discriminati, ma in meglio, non in peggio.
C’è poi un altro fattore che, con stupore, abbiamo appreso: qui le donne sono indipendenti e nessun uomo dice loro cosa fare (non esistono protettori, in sostanza), qui ogni uomo che va con una donna, anche il marito che va con la propria moglie, poi le deve fare un piccolo regalino, preferibilmente pecuniario. Ed infine, spesso sono le nonne, che hanno in media 30/35 anni, ad occuparsi dei nipoti e crescerli, mentre le madri lavorano, nei campi più disparati, per farsi una posizione e poi, eventualmente, prendersi cura dei loro nipoti, figli delle figlie, a maggior ragione se meticci.
Ma se addirittura il marito deve pagare la propria moglie, la storia della prostituzione, in un posto che non ha alcun tabù rispetto al sesso, si complica davvero tanto, soprattutto se, come ci fanno notare tutte le donne malgasce intervistate, spesso il regalino del bianco, 20 o 30 euro lasciati sul comò la mattina, equivale ad un mese di stipendio di chi lavora 11 ore al giorno, sette giorni su sette a spaccar pietre con le mani.
Cosa dovrei documentare allora? I patetici uomini bianchi avanti con gli anni che vengono quaggiù per sentirsi speciali a prezzo di saldo, oppure le donne che preferiscono mercificare il proprio corpo, allo spaccarsi la schiena sotto al sole? Oppure i meticci che sono trattati meglio dei loro fratellastri malgasci al 100%? L’unica cosa che ricordo, prima di chiudere gli occhi, è il sorriso di Nina. Devo rincontrarla, penso.
Siamo stati in giro tutto il giorno ad intervistare e riprendere paesaggi. Siamo tornati al mercato piccolo, ci siamo infiltrati in quello grande chiuso ed in quello all’aria aperta. Mentre riprendevo due giovani, marito e moglie, che insaccavano il carbone, quelli si sono fermati e hanno confabulato fra loro per qualche minuto. Poi la donna mi ha fatto cenno di avvicinarmi e ha sospinto il marito verso di me. Quest’ultimo, in un rudimentale italiano, mi ha detto che per venti euro potevo andare con la sua bellissima moglie, che si è sorpresa quando ho risposto no, grazie. Siamo andati al porto e infine abbiamo fatto un sopralluogo nel villaggio dove vivono il nonno e la mamma di R. e dove la onlus sta cercando di costruire la scuola.
Abbiamo vissuto tanto intensamente la luce del sole, che in un giorno sembrava essersi concentrata una settimana. Eppure, mentre il sole compiva il suo arco e G., Corette ed io scorrazzavamo da una parte all’altra di Nosy Be armati di domande, curiosità e videocamere, dentro di me sapevo che di sera, quando fossimo andati a filmare ad Ambatoalaka, non solo avrei rivisto Nina, ma lei mi si sarebbe avvicinata. E per questo mi preparavo, come un giocatore di scacchi, ad andare avanti di un paio di mosse.
Stavolta G. ed io andiamo in una macchina e gli altri vanno sull’altra. N. accenna a dei lavori da fare e per questo probabilmente non ci raggiungerà. Ci dirigiamo verso il bar coi biliardi e ci sediamo fuori, su due sgabelli. Non passano neppure cinque minuti che Nina, con una sua amica, è seduta dentro, esattamente di fronte a noi: ha un vestito corto e aderente, bianco immacolato, che dà risalto alla sua pelle mulatta, ai suoi capelli ricci da leonessa e sopratutto ai suoi enormi occhi neri. Quando sorride, i suoi denti sono così candidi da brillare, come sale sotto al sole.
Mi guarda e sorride. Aspetta un mio cenno, esattamente come pensavo. O aspetta che io la guardi il tempo necessario affinché lei possa farne uno. Invece io la guardo di sottecchi, ogni tanto sorrido ma proprio ogni volta, mentre lei sta per dire qualcosa, io guardo altrove. Non si tratta di due giovani che si piacciono, si tratta di una partita tra una giovane makorelle malgascia e un potenziale cliente. Ma mentre il gioco di sguardi va avanti, comincio a capire come i tanti anziani occidentali che popolano l’isola siamo potuti cadere nelle reti di queste sirene. È davvero come se Naomi Campbell ti facesse la corte. E tu, che magari in Italia non hai mai avuto occasione di corteggiare la donna dei tuoi sogni, qui ti ritrovi circondato da donne infinitamente più belle che, in un modo o nell’altro, ti danno l’impressione di corteggiarti tutte, di essere tutte lì solo per fare la corte a te.
Ovviamente, la vita non è una partita a scacchi, tu puoi portarti avanti di tutte le mosse che vuoi che non potrai mai computare l’imprevisto o l’intervento esterno; così, nella scacchiera che avevo predisposto tra me e Nina, improvviso come una mangusta, si abbatte G. «Oh, ma quella non è Nina?» mi fa sorseggiando la birra. «Sì» rispondo. E un attimo dopo G. le fa un cenno, con la mano, un cenno come di un uncino nel quale lei s’impiglia subito. Pochi secondi dopo Nina è con noi e si presenta. Mi cinge il corpo con le sue lunghe braccia e comincia, piano piano, ad attaccarsi fisicamente a me. Mi ha catturato, ha preso la preda. Il vasaha con le telecamere che lavora con Corette e di cui parlano tutti sull’isola, al punto che la polizia ormai saluta G. e me mentre passiamo, è caduto fra le sue grinfie.
Nina sorride, ma a me non sfugge un riverbero diabolico nel suo sorriso, mi preme i suoi seni sul braccio, avvicina sempre più il suo viso al mio, soprattutto cerca di trascinarmi via dal bar. Mi dice che oggi è luna piena, che il mare è a due passi e che potremmo andare a sederci in riva, a vedere come quella luce si riflette sulle onde. Mi parla all’orecchio, in un sussurro profumato e con le mani tira un po’ il mio braccio, in direzione del mare, dove saremmo soli. Mi fa pensare ad un pescatore che progressivamente stordisce e stanca il suo pesce. La sua bellezza è un’esca alla quale è difficile sfuggire. Ma io non sono un pesce, non ancora.
Ordino un boccale di birra, e chiedo a G., Nina e la sua amica cosa gradiscono. G. mi segue nella scelta (il sole della giornata chiede il suo pegno di fluidi), mentre Nina e Clemance ordinano uno strano intruglio dall’odore dolciastro di un improbabile color fucsia. Noi non parliamo malgascio, loro non parlano italiano, né inglese. Cerchiamo di capirci in un francese basico. La conversazione langue. Dato l’ultimo sorso alla sua birra, G. sparisce nella pista da ballo con Clemance, mentre Nina ed io restiamo appollaiati negli sgabelli. D’improvviso, sfoggia un rudimentale italiano e mi sussurra che ha voglia di vedere la luna con me. L’indomani ho un volo presto, rispondo, e sono molto stanco. Mi offro di riaccompagnarla a casa, dato che io ho l’auto e lei è a piedi. Mi guarda stranita, di solito i vasaha portano le donne in albergo, e lei non è abituata a portare un uomo bianco nella sua piccola capanna, però per me farà una eccezione. La ringrazio, così ci alziamo dai trespoli e ci avviamo verso la macchina. Mi prende la mano e la stringe forte, come normalmente fanno i bambini con i propri genitori.
Saliamo in macchina e mi guida nell’intrico di stradine, finché arriviamo alla sua capanna. La faccio scendere, l’accompagno alla porta e faccio per salutarla. Lei sorride e arrossisce e mi chiede perché non voglio entrare: forse ho vergogna di entrare in una capanna povera? La rassicuro dicendole che si sbaglia, semplicemente l’indomani parto alle 7 del mattino ed è già l’1:30 di notte. Poi, non so come, realizzo che Nina ed io non siamo amici e che questi sono convenevoli in uso fra amici in Italia, e non certo qui, a nove mila km di distanza. Così, con velocità e stanchezza, provo a ragionare sulla cosa giusta da fare. Lei era andata ad Ambatoalaka a lavorare, e non per essere riaccompagnata a casa da uno strano vasaha, dico a me stesso. Quindi, cercando di non offenderla, le chiedo come mai vada ad Ambatoalaka, e lei mi risponde che ci va per guadagnarsi il cibo.
Ora, davanti a me ci sono tre differenti opzioni: quella laida (fai come farebbero in tanti); quella moralista teoretica (maledire le ingiustizie del mondo e fare un sermone tanto lungo quanto ipocrita); quella pragmatica (costruire un ponte fra lei e me). Scelgo la versione pragmatica. Le chiedo quanto guadagna di norma. Lei tace per qualche istante e, tamburellandosi la fronte con le dita, fa dei conti. Infine mi dice che guadagna dai 15 ai 20€, talvolta 30€.
Lo so, agli antropologi di norma piace fare molti discorsi e spaccare il capello in quattro con le teorie ermeneutiche, strutturaliste, storiciste ed evenemenziali, oppure affrontando la questione di genere ed egemonia, ma in quel momento, sotto la luna e le stelle, davanti alla porta di una capanna malgascia, di fronte ad una delle più belle donne che io abbia mai visto, ho scelto la via del silenzio e dell’accettazione. Così le dico che capisco il suo punto di vista e le sue aspettative. Sicuramente non sono state la mia avvenenza e/o la mia intelligenza che, quella sera, l’avevano spinta a giocare le sue carte scegliendo me. Ed il fatto che io le abbia fatto fare dieci km in macchina portandola via dal “suo lavoro” e che ora difficilmente ci sarebbe potuta tornare a piedi, hanno per lei un solo significato: si aspetta di passare la notte con me e di ricevere un mio regalino l’indomani. Così tiro fuori il portafogli, prendo due banconote da 20€, rimango un secondo a pensare, le rimetto dentro, e infine le allungo un pezzo da 50€. Ora tu entra con me in mia casa?, mi dice sorridente. Le rispondo dicendole che è tardi. Al che lei mi ridà i 50€.
«Tu non dorme con me, io non accetta tuo regalo», dice. Mi gratto un po’ la testa, disorientato dalla sua inattesa reazione. Per un verso, usando le mie categorie culturali, sono colpito ed onorato. Per l’altro, ragionando con le categorie apprese in quella prima settimana malgascia, penso che lei, con me e a causa mia, ha perso i soldi della giornata, ed io me ne sento responsabile. Così, le chiedo se ha qualcosa da mangiare e se, per caso, abbia del rum arrangé (rum nel quale viene fatta macerare della frutta esotica). Sorride e mi fa cenno di sì. Ha della frutta e anche il rum arrangé. Bene − le dico − Tu mi offri frutta e rum e io ti offro in cambio i 50€. Troppo, risponde, tu da me 20€ e io contenta. Entriamo nella sua capanna, mangio un po’ di frutta e mi addormento seduta stante su una vecchia poltrona sfondata che, con tutta probabilità, Nina ha recuperato da qualche immondezzaio.
Alle 4:20 mi sveglia un odore di caffé, dietro al quale fa capolino il suo sorriso divertito. Tu vasaha più strano io ha conosciuto, mi dice. Tu addormentato, io ti ho lasciato dormire per fare te riposare. Ora tu deve andare, tu avere aereo. Ora che tu avere dormito in mia capanna, tu dare a me anche altri 30€, se tu volere, conclude con logica implacabile. Rido della sua arguzia, prendo il portafogli e le porgo una banconota da 50€. La guarda e prima di prenderla fa cenno di volermi ridare indietro i 20€. Ridendo le dico che quelli erano per la cena, mentre i 50€ glieli sto dando volentieri non tanto per avermi fatto dormire nella sua capanna, quanto per avermi svegliato in tempo per non perdere il volo. Ride anche lei, e mentre ridiamo insieme, penso che il mondo è troppo complesso per lasciarlo sintetizzare agli opinionisti tv, ai post di facebook o ai titolisti dei giornali.
Mi accompagna alla macchina tenendo stretta in mano una borsetta colorata, prima che io apra la portiera mi abbraccia molto forte, ride ancora e poi mi dà la borsetta, divertita dal mio non capire. Tu ha pagato anche per rum arrangé, ma tu ieri troppo sonno per bere, così io ti dare a te una bottilia piccola di rum molto buono e tu bere per ricordare me.
Mentre torno in albergo, penso ancora una volta alla frase di N. «Il Madagascar è una lente di ingrandimento Non si sfugge. Nulla è come sembra».
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
________________________________________________________________
Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.
________________________________________________________________