Il 23 novembre a Torino, presso la Binaria, si è tenuto l’incontro Stanze del silenzio, stanze dei culti a cui hanno partecipato molti esponenti del Comitato Nazionale per le Stanze del Silenzio e per le stanze Multifede. I numerosi interventi in questa sede si sono concentrati sulle concrete possibilità di creare spazi dove la spiritualità e la fede possano essere praticate e vissute, presentando casi estremamente positivi di dialogo tra differenti culture, di comprensione del diverso, esperienze che migliorano non solo il soggiorno degli utenti in spazi come ospedali, carceri e aeroporti, ma anche il lavoro svolto dagli operatori.
Dal dibattito nel convegno è emerso che la società contemporanea occidentale non è affatto secolarizzata, priva cioè di una dimensione trascendente; al contrario si conferma la vitalità di un contesto in cui la secolarizzazione si relaziona continuamente con il piano religioso e con i diversi aspetti della spiritualità. L’Occidente, così come l’Italia, si trova così a dover sciogliere dinamiche molto più complesse di una semplice laicizzazione: l’immigrazione verso l’Europa ha importato diverse secolarizzazioni assieme ai differenti culti religiosi dei Paesi di provenienza. Sono costantemente in corso nuove negoziazioni e compromessi, personalizzazione delle pratiche e delle ritualità, ardui e originali adattamenti per poter professare il proprio credo anche fuori dalla terra d’origine: la religione viene così inserita all’interno del percorso individuale di ognuno che non può essere scollegato dalla realtà sociale, politica e storica nella quale si è immersi.
Ciò che si impone quindi è un progetto per nulla utopistico e che non si limiterebbe ad essere un esempio di “integrazione di facciata”, bensì porterebbe benefici concreti, palpabili, sulla quotidianità di tutti coloro che si scontrano con l’impossibilità di vivere la propria spiritualità in alcuni luoghi pubblici. È importante sottolineare che non sono spazi unicamente per i credenti, ma sono – e devono – essere progettati anche per chi si dichiara ateo, il quale ha comunque necessità di luoghi per la riflessione, per il distacco da una caotica e concitata quotidianità che a volte può disorientare e sopraffare.
Due ospiti del convegno in particolare hanno accettato di contribuire a questo numero di Dialoghi Mediterranei rispondendo ad alcune domande intorno ad esempi concreti di stanze multifede, sulle dinamiche migratorie nelle città e sulla diffusione di nuovi culti. Lo scopo è proprio quello di offrire uno sguardo duplice, orientato a ragionare su questioni complesse che coinvolgono istituzioni, spazi pubblici, mobilità sociali e vecchie e nuove identità religiose. Abbiamo incontrato Maria Chiara Giorda, storica delle religioni per l’università di Torino, e Daniele Campobenedetto, architetto e ricercatore del Politecnico di Torino.
Sara Raimondi: Come antropologa parlare di spazio sacro mi riporta all’idea di un luogo a parte, tenuto lontano dalla mondanità e quindi dalla contemporaneità. Eppure, la riflessione intorno allo spazio urbano e all’architettura insegnano l’opposto: lo spazio sacro è dunque immerso nella città e non può prescindere da essa. In quale modo le pratiche determinano l’organizzazione urbana e danno luogo a esperienze di dialogo interreligioso e multiculturale?
Maria Chiara Giorda: In epoca contemporanea, è la dimensione della città, sia come unità fisica che amministrativa, il contesto privilegiato di gestione della pluralità e della sua osservazione, dove i luoghi religiosi condividono il medesimo spazio e si creano di continuo conflitti e relazioni. La città è dunque il soggetto, oltre che lo spazio, non solo della diversità ma anche del pluralismo contemporaneo inteso come progetto (politico) di gestione della diversità.
Sara Raimondi: All’interno dell’articolo The temple and the city [1] si sottolinea un nuovo aspetto della città connesso alle migrazioni degli ultimi trent’anni, cioè lo spazio cittadino come un crocevia di religioni: proprio i culti sono una lente attraverso cui è possibile leggere i fenomeni urbani. Come è cambiata dunque la città per effetto del pluralismo religioso dei suoi abitanti?
Maria Chiara Giorda: La diversità religiosa contemporanea è parte del più ampio fenomeno della “super-diversità”, cioè l’insieme delle dinamiche e dei processi di diversificazione tramite cui si formano i profili identitari delle comunità e dei contesti cittadini, resi ancora più sfaccettati e plurali a causa dei movimenti migratori e dei processi di diaspora. Spostamenti più frequenti e rapidi, di singole persone, di famiglie, di gruppi, corrispondono a viaggi spirituali che mettono in moto i credenti, che spingono un numero sempre maggiore di persone ad attraversare contesti culturali, religiosi e spirituali multipli. Nuove religioni e nuove forme di spiritualità sono investimenti continui da parte di ogni età e ogni classe sociale: presenze new-age, neo-hindu, buddisti, neo-spiritualità vivono nelle città italiane, si radicano e si esprimono: basta citare la presenza di circa 1 milione e 500 mila musulmani, 1 milione e 400 mila ortodossi, circa un milione tra protestanti storici ed evangelici, più di 100 mila buddisti, 400 mila testimoni di Geova, più di 100 mila provenienti dal subcontinente indiano (di cui circa 30 mila di religione sikh).
I processi di appropriazione dello spazio urbano non si risolvono solamente in progressivi adattamenti al contesto, ma sfociano apertamente in un conflitto che coinvolge tutta la città sul piano dei significati. L’espandersi di una religione come l’Islam in contesti di diaspora ha creato conflitti, dibattiti e sollecitato le riflessioni di studiosi, ma anche delle istituzioni: quasi in ogni contesto dove si è cercato di costruire un luogo di culto legato alla religione musulmana, sia in Europa che altrove, il dibattito è sfociato in una questione di spazi e pratiche. Attraverso simili modalità di affermazione e di visibilità, chiese, comunità e gruppi intendono trarre vantaggio, ma anche essere parte delle trasformazioni urbanistiche dello spazio e delle modalità in cui se ne costruiscono i processi di utilizzo. Così, religione e spazio urbano si trasformano vicendevolmente all’interno degli attuali processi sociali e la religione è sempre di più ridisegnata e spazializzata come attesta la nuova ondata di interesse di architetti, geografi e urbanisti.
Sara Raimondi: La società contemporanea è la società che sempre più costruisce confini, articola e suddivide spazi e gruppi umani sulla base di differenze culturali e religiose. Ma soprattutto oggi non pare più carat- terizzata dalla determinazione spaziale del sé: lei parla in questo senso di geografia elettiva. Perciò quanto lo spazio ci definisce da un punto di vista identitario nella città di oggi in cui possiamo, forse, scegliere a quale luogo appartenere?
Daniele Campobenedetto: Le geografie elettive di cui abbiamo parlato nei nostri articoli si riferiscono in modo particolare alle persone [2]. Osservando i fenomeni religiosi in campo cristiano, in Piemonte, abbiamo trovato delle analogie con fenomeni che sembrano avere una scala globale: l’elezione di luoghi particolari per pratiche di fede da parte di gruppi di persone che condividono una spiritualità comune. Quella che può sembrare un’affermazione banale in senso generale, lo è forse di meno dal momento che questo è un fenomeno che avviene anche all’interno di singole religioni e singole confessioni. Taizé in Francia, Bose in Italia, se rimaniamo in campo cattolico, sono esempi di questi luoghi elettivi, a cui oggi si rivolgono comunità sempre più numerose di persone, forse in fuga dalle più frustranti, ma anche quotidiane, esperienze delle parrocchie. La geografia di queste parrocchie, presidi di territorialità delle comunità cattoliche, accoglie al suo interno conflitti e negoziazioni più di quanto non succeda nella dimensione elettiva dei poli della fede a cui ho accennato prima. All’interno del sistema isotropo delle parrocchie ogni fedele si scontra con il diverso, con tradizioni spirituali differenti dalla propria, con visioni della comunità distanti dalla propria, o almeno è più probabile che questo accada. E tutto ciò senza chiamare in gioco differenze religiose macroscopiche, ma rimanendo all’interno della stessa confessione cristiana.
Questo è stato un punto di partenza per iniziare a studiare i contesti in cui i conflitti venivano esplicitati in maniera più o meno naturale, e la città stessa, con la sovrapposizione di diritti, di spazi, di interazioni che la caratterizza, è diventata il nostro oggetto di studio. La sovrapposizione della dimensione materiale e immateriale della vita dell’uomo che avviene nella città porta forse a contraddire una delle premesse della domanda rivolta in principio: proprio perché luogo dell’incontro, spesso obbligato, conflittuale, aspro, col diverso, è del tutto vero che in città si possa scegliere a quale luogo appartenere? Lo spazio che ne risulta da questo più o meno marcato “obbligo alla convivenza” sarà allora il terreno di una negoziazione continua.
Sara Raimondi: All’interno di una società multiculturale, una moschea, una sinagoga, un tempio buddista non sono semplicemente edifici che garantiscono un culto ma producono esiti positivi anche da un punto di vista dell’integrazione, così come fu per la sinagoga di Torino edificata a fine Ottocento. Questo aspetto vale ancora oggi o, poiché lo spazio è un nuovo terreno di scontro identitario, rischia di creare in primis conflitti e dissapori?
Maria Chiara Giorda: Nei paesaggi super-diversi delle città di oggi, possiamo individuare i segni di una contesa per la visibilità dei diversi gruppi religiosi nella quale la diversità diventa ambiguamente un marcatore territoriale identitario e il segno di un’alterità del territorio, un possibile strumento di integrazione come un possibile segno di divisione. È in contesti urbani che si può leggere il modo più interessante di interazione tra religioni e spazio (urbano), vale a dire le differenti forme di diversità religiosa e di gestione della convivenza da parte di comunità religiose differenti che spesso hanno portato e tuttora portano a conflitti che, soprattutto in contesti contemporanei, sono risolti con una negoziazione top-down (le istituzioni prevengono o intervengono per mediare) e, ancora più raramente, bottom-up.
Sara Raimondi: Il Quartiere San Salvario di Torino fu progettato con l’espansione della città a metà del XIX secolo e si cercò di garantire alle principali comunità religiose i rispettivi luoghi di culto. L’allargamento del tessuto urbano in periferie concentriche deve non solo prevedere un’attenta progettazione dello spazio, ma deve anche garantire una condivisa qualità dell’abitare. In realtà le periferie sono nate come luoghi scadenti e mal gestiti, si pensi ai sobborghi di Londra dopo la seconda rivoluzione industriale. Le nostre periferie contemporanee non sono certo i neri quartieri industriali di Londra, ma non si può dire che costituiscano il primo interesse delle amministrazioni: sono luoghi in cui il cittadino fatica a identificarsi e sviluppare un senso di appartenenza. Dalle periferie si vuole fuggire, migliorare la propria condizione del vivere e dell’abitare. Quindi per i residenti delle periferie, la presenza di spazi destinati alle diverse comunità religiose e alle differenti minoranze etniche, può migliorare il senso di appartenenza cittadino?
Daniele Campobenedetto: Possiamo tentare una risposta provando ad ampliare il concetto di periferia. Sicuramente nel corso della seconda metà del XIX secolo e del XX, il fenomeno dell’inurbamento ha portato ad una corrispondenza sostanziale tra le periferie territoriali della città e le periferie sociali. Oggi, seppur questa corrispondenza continua ad esistere e ad essere registrata, le lenti con cui si tenta di guardare a queste parti di città sono si sono forse affinate. Appaiono così esempi in cui il tessuto sociale, le persone che vivono quelle parti di città, hanno permesso la creazione di un forte senso di identità e cittadinanza, nato a volte proprio dalle difficoltà che quei gruppi devono fronteggiare in situazioni con servizi pubblici carenti e interventi sporadici delle amministrazioni. Questi esempi, riportati tra gli altri da studiosi come Arnaldo Bagnasco o dai ricercatori del Politecnico di Milano che lavorano sul quartiere di San Siro, sono un valido indizio di come ci sia una stretta circolarità tra spazio e tessuto sociale. La presenza di luoghi di culto potrà quindi, insieme ad altri elementi essere utile per rafforzare la coscienza di cittadinanza di abitanti e comunità religiose, così come un forte tessuto sociale sarà essenziale per il radicamento di uno spazio multi-fede.
Sara Raimondi: In molti casi il quartiere San Salvario di Torino è presentato come esempio concreto di multiculturalità e convivenza religiosa, ma, in verità, ancora non sono garantiti gli spazi per ogni culto. Ad esempio la comunità musulmana è spesso costretta a raccogliersi in preghiera all’interno delle moschee-garage. È possibile quindi affermare che privare una comunità di uno spazio consono per il proprio culto rappresenti una lesione grave dei diritti imprescindibili?
Maria Chiara Giorda: In prospettiva di un’analisi della funzione sociale e politica dei luoghi religiosi, è ormai un dato di fatto riferirsi ad essi non solo come spazi di pratiche condivise, ma come luoghi contestati e della contestazione per la proprietà, l’uso, la negoziazione degli interessi, la creazione di risorse simboliche. In tal senso i luoghi religiosi diventano un campo di creazione di confini all’interno dei quali forme nuove di identità e di cittadinanza, anche alternative, si sviluppano e interagiscono. In alcuni casi, ma non sempre, tali processi emergono e divengono visibili, si manifestano nello spazio urbano in termini di riconoscimento pubblico di simboli e rituali religiosi.
Assieme a Becci e Burchardt [3] abbiamo di recente proposto la strategia del “place-keeping” per le religioni del’’esta- blishment, come il Cattolicesimo, ma anche la tradizione ebraica e alcune Chiese della riforma che hanno contribuito a conformare lo spazio (religioso) urbano da secoli. Esse si trovano oggi di fronte alla sfida del continuare ad avere una traccia nel paesaggio urbano, come segno del loro potere religioso, sociale e culturale; l’architettura esprime le relazioni complicate tra autorevolezza, risorse materiali e riconoscimento pubblico. Esse devono mantenere la loro posizione, il loro posto nello spazio urbano: chiese cattoliche semi-vuote devono cercare strategie per riempire di fedeli lo spazio a disposizione. Il “place-making” include l’abitare, il costruire, l’occupare; questa strategia è normalmente legata a storie più recenti nelle città, espresse da luoghi religiosi edificati che devono conquistare la visibilità, giustificare e difendere la loro presenza pubblica. Sono le religioni dei migranti, le religioni della diaspora, sono nuovi culti o nuove modalità di espressione e organizzazione di vecchi culti.
Infine, per gli attori di nuovi movimenti religiosi o nuove spiritualità, l’unica preoccupazione è trovare, cercare uno spazio (e non necessariamente un luogo) per esprimere il loro valore, inventando nuove estetiche, collocando in modo più transitorio la loro presenza. Tali aspirazioni sono sintetizzabili nella nozione del “placeseeking”, una sorta di aspirazione non radicata nella tradizione, a trovare uno spazio che spesso è simile o è un luogo secolare per lo sport, il divertimento, le arti, la cultura, il benessere psico-fisico. L’intreccio di questi gruppi e delle tre modalità di occupare lo spazio urbano non sempre ha come esito la negoziazione e la conciliazione degli interessi ma è, non di rado, alla base di conflitti urbani legati, ad esempio, alla visibilità dell’Islam (si pensi alla questione delle moschee/minareti), alla mancanza di luoghi adeguati alle esigenze di nuove comunità, all’assenza di fedeli in spazi ormai vuoti e poco popolati: la super-diversità religiosa, legata a compromessi e conflitti, è di conseguenza un aspetto sempre più centrale dei sistemi e delle strategie di pianificazione urbani.
Sara Raimondi: Nel corso del convegno Stanze del Silenzio, Stanze dei culti lei ha presentato una serie di possibilità con cui si può dare avvio ad un luogo multifede, non essendo necessario costruire ex novo una struttura. In quali modi si possono sfruttare edifici preesistenti?
Maria Chiara Giorda: Uno degli esempi più recenti (anni 60 del XX secolo) sono le numerose sale multi-fede in edifici preesistenti che addensano e concentrano in pochi metri quadri la diversità religiosa: è il caso delle sale di preghiera o del silenzio che si trovano in ospedali, aeroporti, università e che hanno differenti modelli architettonici. Un progetto recente dell’Università di Manchester, UK, ha definito queste sale come uno spazio intenzionale, disegnato per ospitare una pluralità di pratiche religiose e per indirizzarsi a una molteplicità di scopi pragmatici; un luogo simbolico del modello del pluralismo religioso che le istituzioni di quei contesti sostengono. Per citarne alcune, basterebbe entrare nella sala di preghiera di un aeroporto come Heathrow o Vienna, o nella Manchester Royal Infirmary nel suo New Multifaith Centre, o ancora nella multi-faithprayer room dell’Università di Londra, che sono spazi aperti a fedeli di ogni fede e tradizione.
Sara Raimondi: Dai diversi progetti che ha presentato nel corso del convegno la versatilità emerge fortemente come una delle caratteristiche prioritarie. Come si configura a livello pratico questa versatilità?
Daniele Campobenedetto: Il maggior elemento di versatilità ha forse poco a che fare con lo spazio in sé, la sua distribuzione e le sue forme. Ha invece molto a che fare con gli usi e i valori simbolici che un tale spazio può accogliere.
Per quanto riguarda gli usi, è emblematico che molte delle stanze utilizzate per attività di preghiera o meditazione all’interno di grandi edifici di servizio (università, ospedali, aeroporti), siano chiamate stanze del Silenzio. La condivisione di una modalità d’uso (lo stare in silenzio, appunto) permette l’accoglienza di persone con identità anche molto distanti, favorendo un uso flessibile degli spazi.
Un’altra condizione essenziale perché questo avvenga è l’assenza di simboli identitari che possano richiamare conflitti sopiti. Il silenzio in questo senso riguarda quindi anche le immagini.
La presenza di un arredamento che permetta di assumere varie posizioni all’interno della sala, di inginocchiarsi, di sdraiarsi, di sedersi… è sicuramente un elemento utile alla sua versatilità, ma, almeno nei casi delle sale multi-fede di edifici ad uso pubblico, di importanza secondaria rispetto alla mitigazione dei conflitti che potrebbero nascere da simboli o pratiche conflittuali.
Attraverso lo studio Una Casa delle Religioni [4] il gruppo di ricerca di cui faccio parte ha provato a estendere il campo di indagine, guardando a quelle esperienze che, pur mettendo in gioco identità e possibili conflittualità di diverse comunità religiose, sono riuscite a tenere insieme la diversità. Per noi è forse questa la sfida più interessante.
Sara Raimondi: Invece la House of One a Berlino è riuscita nell’intento di promuovere integrazione religiosa attraverso la creazione di un edificio che ha al suo interno spazi dedicati ai tre monoteismi più un quarto spazio comunitario, grazie all’azione delle istituzioni. Dal suo punto di vista, in Italia un intervento bottom-up come nel caso berlinese sarebbe possibile?
Daniele Campobenedetto: L’esperienza che il Comitato Interfedi della Città di Torino, insieme alla fondazione Benvenuti in Italia, stanno tentando di portare avanti a Torino, potrebbe essere un elemento per rispondere positivamente a questa domanda. L’impegno delle comunità religiose in questa esperienza è essenziale e arriva anche agli aspetti di sostentamento economico. Tuttavia è molto importante che esista una qualche forma di coordinamento del progetto che vada al di là delle intenzioni delle singole comunità. La sfida del bottom-up è, in questo come in altri casi, quella di incontrare il diverso da sé in una condizione di parità e di gestire e mitigare rapporti di forza che altrimenti porterebbero a egemonie di vario tipo. La buona riuscita di un progetto, almeno nella nostra esperienza, dipende in larga misura da questo fattore.
Sara Raimondi: La convivenza di più religioni all’interno del medesimo spazio come nel caso di una stanza multifede ha senso solo se è sentita come necessaria e positiva dalle comunità coinvolte al contempo però è necessario che vi siano figure istituzionali a tenere le fila di questo dialogo. Nel momento in cui si progetta un luogo di questo tipo, l’architetto con quali richieste della comunità si trova a far fronte e quali invece sono le necessità istituzionali?
Daniele Campobenedetto: Nell’esperienza che ho fatto e continuo a fare a Torino, le richieste delle comunità sono estremamente pratiche e ben si adattano alle norme che la legge impone e i tecnici sono in grado di spiegarne il significato. Anche le prescrizioni liturgiche, necessarie ad utilizzare alcune parti della sala multi-fede per officiare il culto (cristiano ortodosso e musulmano, nel caso di cui parlo), sono spiegate nelle loro motivazioni dalla comunità, permettendo così un dialogo proficuo tra le varie istanze. Questo dialogo è reso possibile dal fatto che sia tecnici che ministri e fedeli guardino all’insieme delle regole da rispettare in senso performativo, ovvero ponendo attenzione all’obiettivo ultimo a cui tendono, e non in maniera prescrittiva, ovvero ponendo attenzione solamente alla prescrizione che è suggerita per raggiungere quell’obiettivo.
Ne risulta che fedeli musulmani accettano di pregare non perfettamente in direzione della Mecca, o che il presbiterio dietro l’iconostasi sia ridotto ad uno spazio minimo, così come ne risultano lunghi dibattiti attorno all’accesso ai bagni delle donne e degli uomini, o sul posizionamento delle scarpiere, questioni nelle quali tecnici e ministri provano a mettersi nelle condizioni di comprendere le necessità dell’altro. Discussioni non prive di conflitti, ma molto utili a spiegare i reciproci punti di vista.
Sara Raimondi: Quali sono gli elementi più evocativi di cui dispone l’architettura dovendo eliminare ogni simbologia religiosa dalle stanze multifede, cercando comunque di sottolineare il loro valore sacrale?
Daniele Campobenedetto: Come ho già accennato precedentemente, la sfida forse più interessante è forse quella di immaginare, insieme alla comunità, spazi che mettano in gioco le identità delle varie religioni. Con un tale obiettivo gli strumenti che il compositivo aveva in mano, come il riferimento alla luce, le proporzioni degli spazi, i tagli visuali sullo spazio esterno attraverso le aperture, si trasformano.
In questa prospettiva la distribuzione degli spazi acquista una maggiore importanza, permettendo di separare e unire zone con usi diversi e con pratiche diverse, non solo attraverso muri, ma anche attraverso dislivelli, cambiamenti di quota delle coperture, percorsi di accessi e di uscita. Un esempio molto interessante di stratificazione nel tempo di questa complessità distributiva è la basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, le cui mura si sono trovate a dover accogliere una situazione di equilibrio delicata tra le varie confessioni cristiane, ciascuna autorizzata ad esprimere la propria identità.
È molto importante tuttavia sottolineare come, a differenza del Santo Sepolcro, l’architettura delle esperienze contem- poranee sia, in questo caso, il risultato di un serrato dialogo tra progettista e comunità, in cui i progetti così come accade per le forme e le distribuzioni, sono oggetti negoziali, utili per discutere e comprendere una posizione dell’altro, chiarirne un’idea che, senza l’aiuto di una mise en espace della questione, non avrebbe potuto essere affrontata.
Sara Raimondi: Ripensando alle parole di Daniele Campobenedetto e di Maria Chiara Giorda, esse descrivono un importante fil rouge: cioè il dialogo, il momento di incontro e confronto con le comunità. L’architetto e la sociologa hanno dimostrato che la costruzione di questi spazi non è utopia o chimera alle cui difficoltà si può solo alzare bandiera bianca. Riuscire a coinvolgere attivamente le diverse comunità postula una grande e plurale competenza: la multiculturalità non è semplicemente mettere tutti seduti intorno ad un tavolo e sperare che ne emergano sempre e solo posizioni concilianti. La realtà sociale, infatti, è più cruda, complessa, fatta di rivalse identitarie che si giocano proprio su quello che è uno spazio pubblico. Il territorio, il sentimento identitario e l’appartenenza ad una comunità (locale come di migranti) sono strettamente legati e si influenzano a vicenda. La città contemporanea, come ha ben raccontato Giorda, è un soggetto politico caratterizzato da una grande pluralità e da diverse tradizioni religiose, culturali e di gestione del territorio.
Tutto allora si gioca intorno alla spinosa riflessione: lo spazio pubblico, in quanto della comunità, quale/i comunità deve rappresentare? Quali identità devono emergere dai quartieri delle grandi città, dagli ospedali, dagli aeroporti e dalle università?
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] Campobenedetto D., Giorda M. C., Robiglio M., The temples and the city. Models of religious coexistence in contemporary urban space. The case of Turin, in «Historia Religionum», n.8, 2016
[2] Campobenedetto D., Robiglio M., Touissaint, D., Costruzione ed esperienza contemporanea del sacro. Personalizzazione, comunita elettive e comunita territoriali, “Humanitas”, LXVIII, 6, 2013: 957-965.
[3] Becci I., Burchardt M., Giorda M., Religious Super-Diversity and Spatial Strategies in Two European Cities, “Current Sociology”, 2016
[4] Robiglio M., Giorda M. C., Tabbia M., Campobenedetto D., Hejazi S., Una Casa delle Religioni. Proposta di edificio multifede per la città di Torino, Compagnia di San Paolo, Torino, 2016
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Sara Raimondi, giovane laureata con lode in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università di Bologna, prosegue i suoi studi concentrandosi sui riti funebri nel mondo contemporaneo e su aspetti e temi dell’antropologia urbana. Ha partecipato all’annuale conferenza SANT (Swedish Anthropological Association) con il paper A new way of dying: hard science and soft science applied in the study of funeral rites e all’International conference WWIII? Menagement of death between new social emergencies and their solution con il paper Dall’esperienza del trauma all’esperienza del rito.
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