di Paolo Grande
Il porto di Augusta ha rivestito e riveste ancora oggi un ruolo di primaria importanza per lo sviluppo delle città. Questa tipologia di struttura, costruita a ridosso delle fonti d’acqua, ha reso possibile sin dai tempi antichi il trasporto di merci e d’intere popolazioni che si affidavano alle navi per i loro spostamenti. Sorge su di un’ampia baia naturale, fortificata sin dal Medioevo con lo scopo di esercitare una qualche forma di controllo su tutta la costa. È formato da tre sezioni principali: Xifonio, Megarese e Seno del Priolo. Al suo interno, le attività principali svolte riguardano il trasporto delle merci, soprattutto i prodotti provenienti dalla raffinazione del petrolio.
Negli ultimi anni tale struttura marittima è diventata di vitale importanza per l’approdo delle navi della Marina Militare Italiana che, durante le operazioni Poseidon e Triton, hanno recuperato nel Mar Mediterraneo i migranti provenienti dall’Africa. Il prezioso lavoro di collaborazione, messo in campo tra le varie forze presenti sulla banchina del porto, ha evitato la morte per annegamento di migliaia di migranti, tratti in salvo grazie all’intervento tempestivo dei soccorsi italiani. L’immobilismo europeo di fronte alle migliaia di vittime del Mar Mediterraneo, non ha scoraggiato gli uomini e le donne che hanno preso parte a questo tipo di progetto e che ogni giorno prestano le prime cure agli sfortunati profughi dell’Africa.
Il porto di Augusta non dorme mai, gli sbarchi sulla banchina annunciati dalla MM possono avvenire in qualsiasi ora del giorno o della notte e rappresentano l’ultima tappa di un viaggio estenuante, uno spiraglio di luce a chi da mesi vive totalmente nel buio di una prigionìa forzata o ha visto l’inferno già prima d’esser morto.
“Veramente grande!”, questo è stato il mio primo giudizio che ho dato una volta arrivato al porto commerciale di Augusta. Erano solo le sei e trenta di un tranquillo mattino del 22 ottobre 2014 e avevo da poco superato l’uscita per Priolo sulla statale 114, quando, sulla destra, mi è apparso il cartello stradale con scritto “Porto Commerciale”. Dopo circa un chilometro, mi sono fermato presso dei caselli, molto simili a quelli autostradali, e ho fornito le mie generalità alla guardia presente all’ingresso della struttura. Gli ho spiegato che l’ASP di Siracusa aveva richiesto l’intervento di un mediatore a sostegno di un gruppo di medici, che avrebbero dovuto assistere i migranti provenienti da una nave della Marina Militare.
Ero entrato. Adesso dovevo solo trovare i medici dell’Asp e iniziare questa insolita giornata lavorativa. Non ero sicuro che la strada che stavo prendendo fosse giusta, il porto era veramente grande, un enorme spazio aperto di cemento, con qualche container depositato qua e là. Pensavo che una volta superato il casello all’ingresso, sarei arrivato immediatamente al mare, ma mi sbagliavo di grosso. Sono giunto in quello che sembrava un parcheggio, ho iniziato a guardarmi intorno e mi sono reso conto che non ero ancora nemmeno vicino alla banchina di attracco delle navi. C’erano dei bagni chimici lì vicino e alle loro spalle un tendone, simile a quello del circo, ma di dimensioni molto ridotte, di un bianco opaco, poco attraente, e con un logo sopra: “MSF” ovvero “Medici senza frontiere”.
Accanto all’ambulatorio di Medici Senza Frontiere situato al porto di Augusta, una struttura tensostatica dal classico colore bianco e verde era stata riempita con brandine da campeggio, alcune già pronte, altre da montare, e dei tavolini con sedie di plastica. Oltre all’uomo all’accesso principale, non avevo ancora incontrato nessun altro e, senza indugiare troppo sul da farsi, mi sono diretto verso l’apertura della tenda di MSF. Pochi passi mi separavano dal varco, intravedevo già il lettino da ambulatorio, una scrivania e una sedia, ma non sono riuscito a curiosare di più, perchè due donne mi si sono parate davanti. Erano due medici, in servizio al porto di Augusta da diversi mesi e avvisati un’ora prima dello sbarco, avevano velocemente raggiunto la loro clinica mobile. Mi sono presentato informandole di essere un mediatore e ho chiesto loro dove potevo trovare i medici dell’Asp. Mi hanno riferito che da quando erano arrivate alla loro tenda, io ero la prima persona che avevano visto e che, probabilmente a breve, sarebbero arrivate un discreto numero di persone.
In concomitanza dello sbarco di oggi, era prevista la presenza di alcuni funzionari dell’Unione Europea, arrivati direttamente in Sicilia per vedere con i loro occhi lo svolgimento delle operazioni d’attracco. Ovviamente, oltre alla loro presenza erano attesi tutti gli alti rappresentati delle forze dell’ordine italiane, gli ufficiali della Marina Militare Italiana e i dirigenti dell’Asp di Siracusa. I due medici sostenevano che il porto, da lì a due ore, si sarebbe riempito di gente, ma adesso il silenzio assordante era interrotto solo dal frangersi delle onde sulla banchina d’attracco ancora lontana e dali refoli del vento che fischiava di tanto in tanto fra due container vicini al parcheggio.
Da molto tempo non vedevo il mare la mattina presto e quel giorno era stupendo. Il sole, che poco a poco si faceva sempre più alto, lanciava chiari segnali di quella che sarebbe stata una giornata particolarmente calda, nonostante fosse ottobre inoltrato. Osservavo l’orizzonte sperando di intravedere la nave pronta per lo sbarco, ma oltre la banchina di cemento c’era solo acqua e sembrava non ci fosse altro per chilometri. Come fanno i migranti ad attraversare il mare su delle bagnarole che nella maggior parte dei casi affondano? Non si rendono conto di quanto sia lungo il tratto di mare che li separa dall’Italia? Non hanno paura?
Non mi ero reso conto di quanto tempo fosse passato, sembrava fossi lì fermo da ore, ma in realtà dovevano essere passati soltanto pochi minuti. Senza che me ne accorgessi, un grosso fuoristrada bianco aveva appena parcheggiato alle mie spalle. Non appena l’auto si è fermata, sono scesi tre uomini e una donna che indossavano una pettorina blu con scritto “ASP di Siracusa”. I dottori che stavo aspettando erano arrivati, ma non avevamo neanche avuto il tempo di presentarci che la dottoressa ricevette una telefonata dalla Capitaneria e subito, indicando me e gli altri medici, ci ha fatto cenno di risalire in macchina. Le era stato detto che la nave della MM stava per entrare in porto e che dovevamo farci trovare pronti ad affrontare lo sbarco. In auto abbiamo percorso la lunga strada che separa il parcheggio dalla banchina d’attracco delle navi. Il porto si stava riempiendo, si erano accodati a noi gli automezzi della polizia e della guardia di finanza. Scesi dalla macchina ci siamo diretti in prossimità del ciglio della banchina.
Adesso il mare era veramente a due passi, ho buttato lo sguardo oltre il molo e sono rimasto a guardare l’acqua torbida che bagnava i bracci del porto. Non avevo fatto caso alla piccola folla di persone che si era creata alle mie spalle. Membri delle Forze dell’Ordine, della Guardia di Finanza, dei Carabinieri e della Marina Militare Italiana, tutti in alta uniforme, erano appena giunti in prossimità del punto di attracco della nave. Non pensavo che l’attesa per uno sbarco durasse tanto, erano le dieci del mattino e all’orizzonte non c’era traccia di imbarcazioni.
Nel frattempo gli operatori della Croce Rossa, avevano tirato su due piccoli gazebo, che con l’arrivo dei migranti, sarebbero stati utilizzati dai medici come ambulatori mobili. Dopo vari tentativi per sceglierne la disposizione, hanno deciso di montarli uno dietro l’altro, con l’intenzione di formare una galleria attraverso la quale sarebbe passata tutta la gente prove- niente dalla nave. All’interno dei due tendoni, erano stati messi uno accanto all’altro, due lettini d’ambulatorio e due scatole di cartone, contenenti guanti in lattice e mascherine per uso medico. Un gruppetto di persone in giacca e cravatta, accompagnati dai dirigenti dell’ASP, stava intanto arrivando in prossimità della banchina, pronti a vigilare sulle operazioni di sbarco.
Non era passata neanche mezz’ora dall’arrivo dei funzionari dell’UE, quando finalmente è spuntata in lontananza la nave della Marina Militare. Non avrebbe impiegato molto tempo ad arrivare fino a noi e mentre la sua sagoma diventava sempre più grande, sono iniziate le manovre per l’attracco. Dopo pochi minuti, la nave “Spica” della Marina Militare Italiana stava già mostrandoci il suo fianco e anche il suo carico. Lunga circa ottanta metri e larga quasi dodici, la Spica portava sulla sua poppa centinaia di persone. Sul ponte, tenuto sotto controllo da due marinai, stavano tutti i migranti seduti a braccia e gambe conserte, uno vicino all’altro, in attesa di poter scendere a terra, la stessa terra sognata e desiderata da mesi. Li ho osservati, alcuni di loro erano talmente felici ed euforici d’essere finalmente giunti in Italia, da venire costantemente richiamati all’ordine dai marinai. Altri erano stanchi, sfiniti, ma avevano negli occhi un sorriso di incerta soddisfazione perché si apprestavano a iniziare una nuova vita.
Alcuni di loro, però, rimanevano impassibili: seduti sui glutei e con le braccia appoggiate alle ginocchia, avevano lo sguardo perso nel vuoto e le labbra secche, disidratate in maniera evidente. Dopo diversi giorni passati in mare, il sale aveva bruciato la pelle, e il sole, che non smetteva mai di battere sulle loro teste, aveva provocato serie lesioni per l’eccessiva esposizione ai raggi. Non capivo cosa guardassero, cercavo di seguire i loro occhi per vedere se puntassero ad una direzione in particolare, ma oltre al cemento, qualche albero e dei container in lontananza, non c’era niente da osservare con così particolare attenzione. La maggior parte dei migranti era incuriosita dalla folla di uomini in divisa presente allo sbarco, loro invece, gli uomini con l’aria assente e disfatta, guardavano il vuoto, come se qualcosa di terribile, visto in precedenza, li avesse accecati, rendendoli inadatti a osservare tutto ciò che li circondava. Non si muovevano, non sorridevano, non parlavano con nessuno, stavano lì seduti fermi in attesa che qualcuno decidesse della loro vita, una vita che aveva smesso di essere tale una volta lasciata la propria casa e intrapreso il “Viaggio della Disperazione”.
Dopo una trentina di minuti circa viene autorizzato lo sbarco dalle autorità presenti al porto, inizia uno dei momenti più rilevanti della mia ancora breve carriera professionale. Mi ero posizionato insieme ai medici conosciuti poco prima al parcheggio, sotto i tendoni montati dalla Croce Rossa. Avremmo lavorato in squadra: mentre i dottori eseguivano un primo rapido controllo sui pazienti, per separare i migranti con patologie facilmente trasmettibili da quelli in buone condizioni, io avrei dovuto muovermi in mezzo a loro, cercare di carpire quante più informazioni possibili sullo stato della loro salute e riferirle ai medici. I migranti con scabbia, pidocchi o malattie infettive, sarebbero stati allontanati da quelli che non mostravano particolari patologie, eccetto mal di testa, stanchezza e disidratazione. Gli altri, sarebbero stati immediatamente trattati con le dovute cure e trasportati in ospedale, se necessario. Tutti quelli in buono stato di salute, condotti dagli agenti di polizia fino agli autobus, erano destinati ai centri di prima accoglienza presenti nella provincia di Siracusa.
Adesso era tutto pronto, una scaletta era stata fatta calare dalla nave per aiutare la discesa a terra. Uno dopo l’altro, tutti i migranti hanno iniziato a scendere. Il primo gruppo di viaggiatori arrivato sotto il tendone della Croce Rossa, era composto da tutte le gestanti presenti sulla nave. Aiutate dai marinai e, in seguito, dai medici e infermieri presenti, sono state immediatamente visitate. Fortunatamen- te erano tutte in ragionevoli condizioni di salute, ma sarebbero state sottoposte ad altri controlli dopo pochi giorni. La seconda serie di profughi arrivati presso il nostro punto di primo soccorso, era una famiglia di siriani, tutti in buone condizioni e, dall’aspetto, sembrava non avessero affrontato un viaggio così terribile. Mi hanno sorriso, in arabo ho chiesto informazioni sul loro stato di salute, mi hanno risposto di non avere sofferto di particolari difficoltà durante il viaggio, a parte il caldo e la sete.
Il gruppo di migranti che si è presentato poco dopo, proveniva dall’Africa subsahariana, più precisamente dal Gambia. Erano stati rinchiusi in una casa in Libia, in condizioni igieniche molto scarse e, proprio per questo motivo, mostravano le tipiche cicatrici di chi è affetto da scabbia. Stavano impazzendo a causa del prurito e, nel tentativo di placarlo, si erano procurati dei veri e propri solchi sulla pelle. Immediatamente sono stati separati dal resto dei migranti e indirizzati verso la clinica mobile di MSF, dove avrebbero ricevuto il consueto trattamento alla Permetrina. Più andavamo avanti e più si presentavano davanti a noi persone bisognose di cure: bruciature, tagli, insolazioni e dolori allo stomaco. Non avevamo il tempo di fermarci un attimo, il tendone della Croce Rossa si riempiva costantemente di pazienti da controllare.
Sotto il gazebo faceva veramente caldo, tuttavia, nonostante il sudore dovuto alla mascherina protettiva, non sentivo la stanchezza, ma ero investito e elettrizzato da quello che stavo facendo. Mi sentivo pieno di energia, ascoltavo e comprendevo ogni paziente e riferivo al medico quanto avevo capito, poi andavo da un altro medico e facevo lo stesso. Tutto questo è durato fino alla fine dello sbarco. Quando ormai anche l’ultimo profugo era sceso dalla nave e passato davanti al nostro controllo, abbiamo tolto le mascherine, asciugato il sudore e siamo usciti dal tendone della Croce Rossa.
Un’inconsueta giornata di lavoro era finita. L’iniziale stato di calma e tranquillità in cui avevo trovato il porto la mattina presto, appena arrivato, era stato spezzato dalla frenesia dei soccorsi una volta iniziato lo sbarco. Tutto si era svolto per il meglio, l’Italia aveva messo bene in mostra la propria efficienza durante le operazioni di sbarco, di fronte ai funzionari dell’Unione Europea. Eppure non riuscivo a togliermi dalla testa quello sguardo, gli occhi degli uomini, che guardano verso il vuoto in attesa del proprio destino, mi sono rimasti impressi nella memoria. Nessuno mai riporterà la luce in quegli occhi spenti e avviliti, che hanno visto la morte, la violenza, il dolore, che hanno conosciuto nei lager libici l’insensatezza del male assoluto. Nessuno probabilmente riuscirà a curare del tutto i traumi profondi che hanno segnato la loro vita. Ora che sono arrivati in Europa e che hanno raggiunto il loro obiettivo, si sono resi conto di non avere più niente e di aver perso tutte le persone più care durante questo pericoloso e disperato viaggio. Con questa amara consapevolezza il mediatore culturale deve fare i conti ogni giorno.