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Il clamore del silenzio. “80 mq di silenzio” di Domenico Fazzari

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Africo, chiesa di San Leo, 2011 (ph. Teti)

di Vito Teti

Nel periodo in cui il mondo rischia di diventare un insieme di macerie (come avverte in Rovine e macerie Marc Augè) che non produrranno più memorie, le rovine – quelle maestose e quelle minute, quelle «magnifiche» e quelle più fragili, ma non meno importanti, quelle del passato lontano e di un passato recente – continuano a esigere attenzione, a interrogarci, ad ammonirci.  Anche ad alimentare la nostra creatività: a farci immaginare legami arditi e fantasie vertiginose di una nuova possibile vita.

A restituire un nuovo sentimento ai luoghi dell’abbandono e conferire un nuovo senso alle rovine adesso giunge, con grande potenza artistica e con efficacia evocativa la tela “80 mq di silenzio” di Domenico Fazzari, pittore originario di Mammola, in provincia di Reggio Calabria, trapiantato a Milano, dopo gli studi compiuti a Brera e molto stimato nel mondo artistico e culturale milanese. L’opera pittorica racconta la possibilità d’incontri, dialoghi, scambi tra luoghi lontani nel tempo e nello spazio, paradossalmente a partire dalle rovine che hanno segnato anche la nostra storia recente.

Il luogo che accoglie e abbraccia un altro luogo è l’ex chiesa di San Sisto a Milano, fondata in età longobarda, ristrutturata per volontà di Federico Borromeo e soppressa in seguito alle riforme di Giuseppe II negli anni della dominazione asburgica. A seguito  dei bombardamenti del 1943 la parete di fondo dell’abside è completamente distrutta: si salvano soltanto alcune tele, tra cui una tavola seicentesca di Carlo Preda. Nel 1969 lo scultore siciliano Francesco Messina esegue un restauro della chiesa e al secondo piano dell’edificio apre un suo studio, dove realizza molte opere (bozzetti, bronzi, gessi e cere) che lascia al Comune di Milano. Dopo la morte di Francesco Messina, nel 1995, la chiesa diventa un importante Studio Museo.

Maria Fratelli, direttrice del Museo, propone a Fazzari un intervento coerente con l’ex chiesa di S. Sisto. Domenico Fazzari è noto per le sue opere ispirate ai luoghi di origine: quella Calabria interna dove l’abbandono e le rovine fanno parte del paesaggio e dove la natura sembra aver ripreso (come scriveva Georg Simmel nella sua celebre riflessione sulla rovina) il sopravvento sull’arte, sui monumenti, le costruzioni anche minute degli uomini.  All’artista, che si alimenta della geoantropologia e della memoria della terra di origine (secondo Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Salerno) viene subito in mente un’altra chiesa, quella dedicata a S. Nicola Pontefice (come ricorda ancora una scritta sul portale) ad Africo, visitata anni prima e di cui custodiva una foto.

Il bozzetto in scala 1:10 misura 100×80 cm e così Fazzari realizza un’opera di 80 mq., trovando spazio e supporti adeguati per dei laboratori di scenografia del Teatro della Scala. La tela è un pezzo unico, in cotone, preparata con un’imprimitura di acqua e colla vinilica, con una successiva stesura a spruzzo di bianco come base per creare una superficie screpolata dove rendere meglio l’effetto dei vecchi muri. Fazzari usa delle terre colorate e, come legante, acqua e colla vinilica, diluite in percentuale: vere e proprie acque colorate. L’artista completa la tela nel Museo con tecniche personali e servendosi di un trabattello alto dieci metri, proprio come se si trovasse a dipingere una chiesa reale senza statue o addobbi e con muri scrostati.

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Africo Vecchio, 1999 (ph.Teti)

Africo, conosciuto, ancora prima dell’ab- bandono, come «il paese dimenticato da Dio», «il più isolato paese dell’Aspro- monte», l’universo della «perduta gente» raccontato da Zanotti Bianco, che mandava ai governati di Roma (l’episodio è ricordato anche da Alvaro) il pane di ghiande con cui si nutrivano i suoi abitanti, è investito – come tanti altri paesi dell’Aspromonte, della fascia ionica, delle Serre – dalle piogge che cadono terribili e ininterrotte per giorni e giorni, sicuramente da domenica 14 a giovedì 18 ottobre del 1951. Franano intere montagne, crollano pietre sull’abitato, muoiono le bestie, cadono le case. Perdono la vita tre persone e sei nella vicina frazione Casalnuovo, ma quasi tutti gli abitanti riescono a mettersi in salvo, radunandosi e rifugiandosi nella chiesa. Comincia un lungo periodo di esodi, dispersioni, esilio, contrasti su dove e come ricostruire. Dopo anni di fughe, Africo nuovo (dove si trasferiscono anche gli abitanti di Casalnuovo) nasce lungo la marina ionica e una popolazione di pastori e agricoltori perde il luogo, i saperi, le antiche forme di economie. In montagna resteranno, nelle casette nuove di contrada Carrà, soltanto una ventina di famiglie fino agli anni Ottanta.

Lo stesso fenomeno di dispersione riguarda paesi come Roghudi, Gallicianò, Natile, Badolato, Nardodipace e tanti altri che conosceranno un progressivo abbandono. Gente laboriosa, vissuta sempre con la propria fatica, diventa vittima dei frutti impuri di una tradizione spenta e di una modernità che arriva anche con il volto violento della politica, delle clientele, della criminalità. Non diventeranno gli africoti mai gente di mare, come scrive in Africo Corrado Stajano, che ricostruisce la lenta agonia dell’antico abitato e la nascita di un nuovo agglomerato senza un’identità. Una storia nota di abbandoni e dispersione che resta nella memoria e nella cultura delle persone che, con fatica e tenacia, tentano (spesso scoraggiate da tante retoriche e luoghi comuni esterni) di dare un senso e un’anima al nuovo luogo in cui si sono spostati.

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Chiesa di San Leo, Africo Vecchio, 1999 (ph. Teti)

Le rovine della vecchia Africo, tuttavia, rimordevano e attiravano una popolazione che nei decenni cercava di costruire una nuova comunità anche facendo riferi- mento ai resti, alle memorie, alle tracce dell’antico paese. Ogni anno, il giorno 5 maggio, per la festa di San Leo, gli ultimi abitanti della vecchia Africo, i loro figli e nipoti tornano tra i ruderi e i resti dell’antico abitato, dove, nella chiesa di San Leo, rimasta integra e restaurata, è celebrata una messa, nella stessa chiesa, che ho visto nel 1999 popolata da mucche, e dove per un giorno un banchetto e un ritorno rammemorante (nel corso del quale sono ricordati i defunti) restituiscono  vitalità e socialità.

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Africo, chiesa  5 maggio, 2011 (ph. Teti)

Queste forme di pellegrinaggio nei luoghi dell’abbandono, diffusi in molti paesi della Calabria (Pentedattilo, Cerenzia, Nica- strello, Fantino) dove ancora la chiesa o i suoi resti resistono, sono un percorso identitario affascinante, rivelano una faticosa ricerca di sacralità e di memoria da cui ripartire. La rovina è il segno tangibile, materiale, inequivocabile e più evidente dell’abbandono. La testimonian- za di qualcosa che c’è stato e non c’è più. C’è un senso locale delle rovine – certo non separabile dal senso occidentale delle rovine – che spinge a una riflessione sulla possibile fine e sul bisogno di memoria, ma anche ad una ricerca di comparazioni tra rovine di luoghi e di tempi diversi. Sembra che qui si cerchino la forza, la sacralità, le ragioni per portare avanti un processo di ricostruzione ancora incompiuto e precario.

Negli ultimi decenni i templi, le chiese, i luoghi sacri dei paesi abbandonati a seguito di catastrofi, terremoti, alluvioni, frane, calamità, devastazioni, bombardamenti in varie parti del mondo continuano a essere «centro del mondo», punto di riferimento e di ritorno, luogo della memoria e sentimento di un «passato che non passa». Corrado Alvaro (nel bellissimo racconto Il ritratto di Melusina) ha descritto il disfacimento e lo sgretolamento delle chiese nei paesi in abbandono nella società tradizionale. Bruce Springsteen, all’indomani dell’11 settembre, ha cantato la sua «città di rovine» con la chiesa triste e spalancata. I pellegrini arcaici e postmoderni, abitanti dei «non più luoghi» e dei non ancora luoghi, ritornano nelle chiese degli antenati alle popolazioni terremotate che osservano, con un misto di sgomento e di speranza. Le facciate, i campanili, le statue dei santi (penso alle immagini potenti e simboliche di Laino Castello e di Cavallerizzo, a quelle più recenti dell’Aquila, Norcia e Amatrice) ricordano la centralità della chiesa in situazioni di possibile «fine del mondo». Sono innumerevoli le testimonianze e le narrazioni di come l’imprescindibile villaggio nella memoria, di cui parlava De Martino, abbia come luogo concreto e simbolico quel campanile, di cui egli scrive una nota indimenticabile (nell’opera postuma La fine del mondo) con riferimento a Marcellinara (in realtà, quasi probabilmente, si riferiva a Tiriolo) in Calabria. Non è possibile raccontare il crollo di uno sconosciuto piccolo e periferico villaggio senza che vengano in mente i crolli delle Torri Gemelle o dei templi e delle chiese dell’Iraq e della Siria.

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Africo, 2011 (ph. Teti)

Le rovine diventano memento e ammonimento, specie quando vengono «parlate» con il cuore e con la mente. I muri «vogliono parlati» suggerisce e ammonisce un modo di dire nei paesi in abbandono della Calabria. Le pareti, interne e i muri esterni, delle case vuote e disabitate si rovinano e crollano rapidamente e prima delle case abitate perché non ci sono più persone per mantenerle vive con le loro parole e la loro presenza. Il silenzio e la solitudine fanno crescere erbe e rovi, spine e piante selvatiche, davanti alle case vuote.

Domenico Fazzari, al pari di altri studiosi, artisti, abitanti originari dei luoghi abbandonati ha parlato con i muri e ha ascoltato le loro storie. Ha instaurato un dialogo. Si potrebbe scrivere a lungo, e in profondità – e un giorno mi piacerebbe farlo – del rapporto che la pittura (un discorso analogo andrebbe fatto per altre espressioni artistiche) ha intrattenuto, almeno a partire dal Quattrocento, con le rovine dell’antichità classica. Da allora ai nostri giorni, insomma da Colonna a Piranesi, da Chateaubriand a Baudelaire, da Simmel a Benjamin, la letteratura e le opere, le considerazioni e le produzioni sulle rovine in qualche modo accompagnano la nascita della modernità, concorrono a una sua definizione. La transizione al Moderno può essere collegata alle opere, ai quadri e alle riflessioni sulle rovine prodotte con maggiore intensità dal Seicento alla fine del Settecento. In questo periodo le riflessioni dei giovani artisti europei che scendono in Italia, i protagonisti del Grand Tour e le scoperte archeologiche, alimenteranno il fascino e il sentimento delle rovine e influenzeranno in maniera decisiva gli scrittori romantici.

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Fazzari nei laboratori di scenografia del teatro della Scala (ph. S. Curti Parini)

Si deve, del resto, a pittori, paesaggisti, incisori, poeti, scrittori la conoscenza e la scoperta delle rovine del mondo classico e di altre civiltà antiche e molti di loro spesso hanno narrato, in presa diretta, in epoca moderna la fine di mondi e la nascita di rovine a seguito di guerre, invasioni, terremoti, altre catastrofi come l’emigrazione. Negli ultimi anni i paesi abbandonati o in via di spopolamento hanno attirato l’attenzione, l’interesse, il desiderio di conoscere da parte di studiosi e ricercatori, antropologi e sociologi, territorialisti e archeologi, geografi e urbanisti, spesso coinvolti anche emotivamente, affettivamente. Anche l’uso, il riuso, il recupero, il restauro delle rovine – come pratica di memoria, come affermazione di un nuovo sentimento del luogo e ricerca di una nuova centralità, di un nuovo appaesamento, di una nuova sacralità – sono alla base di elaborazioni, riflessioni, dibattiti di cui non è possibile dare conto.

Certo le rovine sembrano chiedere cura, udienza, attenzione. Diventano memento e ammonimento, specie quando vengono «parlate» con il cuore e con la mente. Il fascino della rovina, scriveva Simmel, è massimo dove permane la tendenza verso l’alto. La rovina mostra una sintesi fra natura (intesa soprattutto come forza distruttrice) e opera d’arte, e il fascino della rovina sta in ultima analisi nel fatto che un’opera dell’uomo possa essere percepita come un prodotto della natura.

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Fazzari, nei laboratori di scenografia del teatro della Scala (ph. S. Curti Parini)

Fin dagli anni Ottanta del Novecento ho avuto modo di assistere a un lento e progressivo fenomeno di artisti, scrittori, pittori, musicisti, registi in cerca d’ ispirazione o anche di soggetti e motivi per le loro opere nei luoghi dell’abbandono. Alcuni artisti – come ho potuto vedere a Pentedattilo, Badolato ecc.e su alcune esperienze in Sardegna e in Toscana (Pietro Clemente ha scritto note di grande interesse e così Antonella Tarpino per Paraloup) – si sono, qualche volta, trasferiti in paesi quasi spopolati, a volte hanno comprato casa per viverci e lavorare in determinati periodi dell’anno. Non mancano, in un sempre più diffuso interesse, per le rovine recenti visioni retoriche, atteggiamenti neoromantici. A volte élite locali si sono inventati recuperi speculativi dettati da mode e da tendenze neofolkloriche o postfolkloriche. Per molti giovani, associazioni, gruppi locali i luoghi dell’abbandono rappresentano una risorsa per il futuro. Per qualcuno la rovina dventa fonte d’ispirazione artistica e anche scena, paesaggio, progetto per avviare nuove forme di vita e per fare conoscere a un vasto pubblico storie rimosse e dimenticate.

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Opera di Fazzari (ph. S. Curti Parini)

Domenico Fazzari appartiene alla schiera di intellettuali e artisti che non condividono la concezione del flaneur postmoderno, che si muove distratto e frettoloso tra i luoghi dell’abbandono, visti come terra di esotismo e di passaggio occasionale. Bisogna fare camminare anche la rovina e i suoi segni. Portare il clamore, il dolore, la bellezza della rovina sconosciuta e prossima a diventare monumento e ammonimento, creazione artistica, nei luoghi della modernità e nella città. Il silenzio diventa clamore, interrogazione, invito a pensare.

Grazie aun’opera come quella di Fazzari la rovina acquista un nuovo senso e tende di nuovo verso l’alto, indicando una possibile via di rinascita in contesti dove, purtroppo, anche le nuove opere dell’uomo nascono come macerie. Lo spazio architettonico rappresentato nell’opera, di forte impatto emotivo, evoca le fratture profonde che spesso segnano l’esistenza umana: la presenza di una mucca spaesata tra le rovine dell’abside allude ai giorni in cui la chiesa di Africo è stata riparo per gli abitanti e gli animali del paese distrutto, così come San Sisto è stata rifugio per i senzatetto. Maria Fratelli, direttrice del Museo Messina, osserva:

«Fazzari non vuole creare uno spazio che non esiste (anche se la tentazione di vedere la sua opera come una citazione dello sfondato di Bramante in San Satiro, all’inizio di via Torino, è molto forte), ma vuole portare una riflessione sul tema della rovina, in centro a Milano, nel cuore della città romana dove il progresso ha costruito la capitale moderna del Paese. Vuole creare un corto circuito, innestando in questa efficiente dinamicità l’immobilità di Africo, aprire una finestra spazio-temporale che per qualche mese renda parallele due velocità incomparabili».
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Interno Museo Messina con le opere di Fazzari (ph. S. Curti Parini)

Salvatore Piermarini (che ha fotografato luoghi, paesaggi, paesi, volti, riti del Mediterraneo facendone un grande inventario in immagine) ha scritto che la grande tela di Fazzari è un’opera spiazzante, di forza prepotente e silenziosa, un trompe-l’oeil concettuale da non confondere con una scenografia o con un pannello da palcoscenico teatrale. Un’opera vitale, un dipinto essenziale, al di là della tecnica utilizzata e dalla difficile locazione. Un lavoro imponente – scrive Piermarini – un’opera spericolata e avvincente, da concepimento alla trasposizione in scala, alla realizzazione definitiva. L’arte risponde in questo caso a quella funzione pedagogica, etica, estetica, antropologica che una lunga e controversa tradizione culturale e filosofica ha voluto assegnare alle rovine.

Vedere che la vicenda dolente di Africo rivive in un monumento religioso di una capitale culturale d’Italia mi sembra qualcosa di bello e certamente un dato da non sottovalutare in un periodo in cui le memorie tendono a essere cancellate, come i luoghi, e le distanze e le separazioni sono amplificate ed esasperate, mentre tutto, a sapere parlare e ad ascoltare, parla della necessità di incontri e accoglienze. Ricordo lo stupore e lo spaesamento che mi colsero quando vidi quella chiesa vuota, con le mucche che si muovevano sole e smarrite, e le persone tornate che andavano a pregare o a piangere nel luogo perduto. Ricordo il pianto di una donna che, tornata con il marito, ci offre da mangiare e piange commossa perché non riesce a trovare il luogo in cui sorgeva la sua casa, prima di individuare, felice, il resto di un muro che a lei diceva tante cose. L’uomo che piangeva nel vecchio cimitero davanti a una tomba senza i resti dei defunti e la moglie che non staccava lo sguardo dai muri della casa perduta.

A guardare l’immagine dell’abside e dell’altare della chiesa di Africo rivivere e splendere, tornare imponente e vitale, nella ex chiesa di San Sisto avverto una grande emozione, uno stordimento e un incantesimo indefinibili. Africo (metafora dei tanti paesi abbandonati della Calabria) sembra riprendere vita nella natura, con quelle mucche, buoi e vitellini che la vivono come una nuova casa, un ricovero, un ostello, un riparo dalle intemperie. Un’immagine sacra appunto, riconsacrata e riconciliata.

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Opera di Fazzari (ph. S. Curti Parini)

Pieno. Vuoto. Suono. Voci. Clamore. Questi sono aggettivi e parole che mi dicono il paese dell’infanzia e della giovinezza. Il mio paese era pieno, denso, compatto, di uomini, donne e animali. Nei bassi ormai vuoti e cadenti si stipavano famiglie di dieci e più persone. C’era il pieno delle strade, delle campagne, delle processioni, delle feste, delle riunioni, dei comizi. Delle casupole adibite a scuole e delle mandrie che seguivamo in campagna. Il pieno delle voci, del raglio degli asini, del belato delle pecore, del vagabondare di gatti e di cani, e ancora il pieno dei giochi, degli ambulanti, della gente che tornava dalla campagna. Il pieno della miseria, dei bambini scalzi e con in mano una fetta di pane, delle favole e dei pettegolezzi, degli abbracci e dei litigi. Pieno e suono sono diventati vuoto e silenzio.

Il silenzio, citato nel titolo dell’esposizione, rappresenta la condizione dello spettatore di fronte alle rovine e ai luoghi abbandonati, siano essi la conseguenza di un’azione della natura o della violenza umana. Eppure fino a quando qualcuno resta legato ai luoghi, riesce a custodirne memoria, vuole e sa raccontarli, essi continuano a vivere o, meglio, riprendono una vita che conserva tracce e memorie di quella precedente. Forse proprio là dove appare tutto accaduto e si ritiene che «non c’è niente», può succedere qualcosa di nuovo, può affermarsi una nuova vitalità, un futuro che comincia nel clamore del vuoto e del silenzio. Si può, forse, costruire riusando gli antichi materiali e accogliendo quelli che ci arrivano dal mondo. Mescolando.

Il silenzio diventa dialogo, clamore, parole segrete e misteriose, voci e figure che s’incontrano e si mescolano, vuoti che si riempiono e accolgono quando anche una sola persona riesce a sentire le rovine, sa ascoltarle e riesce a conferire loro un nuovo senso e una nuova voce. Un clamore del silenzio che dobbiamo ascoltare, decifrare, colorare, illuminare nel periodo in cui centinaia di paesi muoiono e creano vuoti e deserti e in un’Italia in cui le grandi città e i piccoli centri (ma anche le città, le metropoli, le periferie) stentano a trovare un nuovo senso dell’abitare e dell’appaesamento.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018

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Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003) Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017). È componente di numerosi organismi scientifici, italiani e stranieri, e membro di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere. È tra l’altro responsabile dell’Icaf, la sezione italiana dell’Associazione Europea di Antropologia dell’Alimentazione. Fa parte della Deputazione di Storia Patria per la Calabria ed è nel Comitato  Scientifico della Rivista “Rogerius”
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