di Marcello Carlotti
È inizio ottobre del 2008, il mio amico Nicola mi chiama per propormi un progetto. Io sono un antropologo, lui ha da poco cominciato il percorso che lo porterà in breve a diventare un fotoreporter professionista. Ad entrambi piace andare dritti al sodo, dunque la telefonata è concisa: pane al pane, vino al vino.
«Stavo pensando» mi dice «perché non fare un lavoro assieme sul razzismo? Del tipo: fotografare persone di minoranze etniche a Cagliari, mentre parlano di razzismo. Mi spiego: tu le fai parlare di razzismo, da antropologo, e io semplicemente scatto mentre loro parlano. Potremmo tirar fuori una buona mostra, magari addirittura un libro. Che ne pensi?»
«Dunque, se non ho capito male, vorresti realizzare un lavoro che demolisca i presupposti del razzismo, ma per realizzarlo fotografiamo solo persone di minoranze etniche o razzializzate mentre parlano del razzismo e delle discriminazioni subìte? Così facendo, tuttavia, staremmo facendo rientrare il razzismo dalla finestra, no? Sarebbe un progetto che nella pratica argomenta contro se stesso» .
«E allora cosa proponi?»
«Propongo di andare in giro a far parlare chiunque di razzismo e fotografarlo mentre ne parla» .
Il razzismo non è così vecchio come si potrebbe pensare, e sopratutto non si basa sulla mera descrizione oggettiva di un chiaro fenomeno naturale. Quando è nato, figlio dell’Elàn di Linneo di classificare e ordinare gerarchicamente tutto il creato, era ben lungi dal conoscere e fomentare tutti i disordini, le discriminazioni e le atrocità che ha suscitato o giustificato negli ultimi tre secoli. Linneo, fedele tanto al libro del Genesi quanto ad Aristotele, era convinto che l’universo naturale fosse stato creato da Dio per servire l’uomo. Da qui la sua idea di classificare sistemicamente e gerarchicamente la Natura, con l’uomo in cima alla piramide. Ma cosa avrebbe comportato la distinzione in classi di appartenenza diverse della specie umana? Se l’umanità, infatti, è distinta (o distinguibile) in differenti razze, ciascuna riconoscibile in base a caratteri morfologici propri, queste razze come si relazionano fra loro? Ogni uomo è, come recita la Bibbia, fatto a immagine e somiglianza di Dio, oppure alcune razze son passate attraverso una degenerazione che le ha inferiorizzate?
Il Gotha intellettuale eurocentrico, in particolar modo quello legato alla Chiesa, ha avuto il suo bel daffare per districare una simile matassa. Una confusione fondamentale, legata alla cacciata dall’Eden e alla conseguente caduta in disgrazia dell’umanità, apriva infatti un duplice scenario. Per un verso, gli uomini erano figli di un medesimo Padre, per altro entravano a pieno titolo nella Storia, e gli europei, ignorando quel che accadeva realmente nel resto dell’ecumene, si sentivano in qualche modo i paladini di quel processo che, poco a poco, si è andato configurando, in modo sempre più inestricabile, come progresso, teleologia ed evoluzione.
Tuttavia, il progresso (e ancor più l’evoluzione, se intesa come allontanamento dallo status quo della creazione divina originaria) aveva in sé un forte gradiente di distanziamento dalle condizioni originarie e dallo stato di (equilibrio con la) natura. Dunque, se l’uomo occidentale (ovvero la razza bianca) progrediva, al contempo si allontanava dallo stato di grazia originario nel quale, invece, permanevano i selvaggi (e tutte le altre razze, ciascuna incasellata in una specifica e differente tappa della marcia verso l’uomo bianco e il suo progresso tecnico-scientifico). Questo ragionamento, a grattare sotto la crosta superficiale, appare come un paradosso logico. Infatti, se le razze selvagge son quelle più vicine alle condizioni del Paradiso Terrestre, perché salvarle? In base a quale principio colonizzarle e sfruttarle? Come quasi sempre accade nella storia degli uomini, per mettere ordine ad una confusione, non c’è mai nulla di più efficace di una nuova confusione creata ad hoc.
In fondo, recitava il Libro, l’uomo è stato scacciato dal Paradiso Terrestre per aver disobbedito, e da quel momento si sarebbe dovuto procacciare il cibo col sudore della fronte. Questo passo, in modo più o meno cosciente, ha dato il là all’idea stessa di progresso e di salvezza terrena. Dio parla solo di sudore della fronte, ma non dice nulla sulle modalità lavorative che avrebbero dovuto suscitarlo. Dunque, un modo di onorare il Signore era dedicarsi al lavoro, e un modo di dedicarsi al lavoro era migliorarne la prolificità e le applicazioni tecniche. Un modo accessorio di lodarlo era, poi, quello di innalzare edifici sempre più complessi in Suo onore. Del resto, gli egiziani avevano costruito le piramidi, e, pare, i babilonesi una torre tanto alta quanto sfortunata.
Questo sviluppo risolve il problema originario? Certo che no, eppure ha l’eccezionale capacità di distogliere l’attenzione. In fondo, le razze erano là, davanti agli occhi di tutti: bianchi, neri, gialli, etc. perché stare a parlarne? Era più importante trovare una giustificazione agli sfruttamenti ed alla schiavizzazione. Il razzismo, da solo, non bastava, per quanti vanno in giro professando che siamo tutti figli del medesimo Dio. D’altro canto, la maggior parte dei discendenti delle dodici tribù originarie aveva perso il contatto col vero verbo e questo fomentava il compito di portare la buona novella, ripristinandone il valore di verità e fedeltà. La luce nel Cuore di tenebra. Tuttavia, razzismo e spinta missionaria, che non convissero ab origine, non hanno mai avuto una sintonia pacifica e sinergica, per quanto, in molti casi, essi abbiano, purtroppo, cooperato.
Ma allora cos’è il razzismo? E soprattutto perché fare qualcosa per decostruirlo? Perché prendere parte contro di esso e tutto quel che ne consegue? Fin da piccolo, non ho mai sopportato le bugie e chi, tramite esse, si approfittava del prossimo; dire le bugie, recita un proverbio, è rubare ad altri il diritto alla verità. In termini strettamente scientifici, il razzismo è una retorica, una dottrina che si fonda su una serie di dati ed elementi inconsistenti, e la cui finalità è principalmente politica. Certo, se ripenso ai miei giorni da studente, non posso non ricordare la netta divisione tra le due grandi branche dell’antropologia: culturale e fisica.
Se il mito del razzismo si è rivelato tale abbastanza presto per gli antropologi culturali – la cui maggior difficoltà consiste nel capire cosa sia la cultura e come la si possa trascrivere, tradurre o anche solo evocare – ancora oggi l’antropologia fisica ha qualche difficoltà di più a sfatarlo. In fondo, diceva qualcuno, da certi problemi è possibile venirne fuori soltanto uscendone. È inutile tentare di risolverli, perché ad ogni passo in avanti, le loro spire ci avvinceranno sempre più, al punto da lasciarci esanimi. Come per il leggendario nodo gordiano, talvolta un colpo secco di spada vale più di mille argomentazioni, se lo scopo è quello di recidere dalla radice le categorie epistemiche che fanno funzionare una certa forma politica di vivere e rappresentarsi la realtà. Se non fossi uno scienziato sociale, infatti, cercherei di vivere evitando di usare le categorie del razzismo: il solo parlarne infatti le rende attive. Ma cosa deve fare un antropologo che, invece, vuole immischiarsi per cercare di dare una mano a disingarbugliare il mondo?
Partiti da Cagliari nel cuore della notte, puntiamo verso Palau. Arriviamo che son quasi le due. L’indomani il primo traghetto parte alle 7. Lo prenderemo. Nicola si addormenta subito. Io invece faccio fatica a prendere sonno. Sulla scia del suo respiro pesante, con barlumi di luci che filtrano dalla veneziana chiusa, vedo le mie solite ombre notturne rincorrersi sul soffitto. Anche in questa estemporanea doppia di Palau. Sono i miei fantasmi che mi seguono ovunque. Per scacciarli, quando non riesco a prendere sonno subito, quando non posso aprire un libro e leggere, è solo esercitando il ricordo che riesco a quietarli.
Allora mi faccio tornare in mente, con prepotenza, alcuni pezzi del mio passato. Mi concentro ed eccomi in Africa, di nuovo in una stanza d’albergo che non riesco a prendere sonno. Ma quella volta ero solo e potevo leggere senza svegliare nessuno. Lessi d’un fiato Il terzo scimpanzé di Diamond. Un bel saggio. Con un inizio forte e una fine notevole. Un lavoro carico di spinta morale. Ricordo soprattutto un passaggio, a proposito di razzismo, nel quale l’autore, basandosi su dati genetici, provocava il lettore: gli uomini credono di essere una specie a parte, a lungo (e in alcune realtà tuttora) hanno creduto alle razze, fino all’arrivo della genetica delle popolazioni e degli studi di genetica. È solo da qualche decennio che si è scoperto che la varianza genetica tra uomo e uomo di una stessa «razza» nominale può essere maggiore della distanza genetica tra uomini di «razze» nominali distinte: ovvero un bianco può condividere con un nero una porzione di DNA superiore a quella tra due bianchi.
Il concetto di fondo, che regge la genetica delle popolazioni, è che ogni popolazione ha, nel suo patrimonio genetico, l’intera gamma di variazioni e possibilità di qualunque altra popolazione, a cambiare allora sarebbe, da popolazione a popolazione, la ricorrenza con cui questa varianza si manifesta in geni dominanti. Di più, a volte, la varianza di DNA tra uomo e uomo, è superiore alla varianza tra un uomo e uno scimpanzé, specie con la quale, del resto, condividiamo circa il 97% del nostro patrimonio ereditario. Sulla base di questi risultati, allora, come è possibile il razzismo?
Il sonno non ne vuole sapere di prendermi nel suo abbraccio e, allora, mentalmente prendo nota dei miei pensieri. Appena avrò un momento, mi dico, li metterò su carta. Non tutti sanno che il concetto di razza, congiuntamente a quello di darwinismo sociale, ha avuto una forte eco anche a livello scientifico, sfociando in una disciplina, la razziologia, che, troppo a lungo, è stata in auge.
Ma se è relativamente facile smontare una bufala mediatico-scientifica, è molto più complesso, per gli addetti ai lavori, decostruire il riverbero che, certe teorie, producono sul senso comune. Alle difficoltà di argomentare contro una teoria scientifica, si sommano, infatti, le difficoltà di portare l’opinione anonima del «si dice» a riflettere criticamente su se stessa, a prendere il peso delle responsabilità esistenziali e politiche che, ogni atto di locuzione, porta con sé.
Le parole, i discorsi non sono mai neutri, oggettivi e naturalistici soprattutto quando partono dal presupposto di esserlo. Penso che non è passato molto tempo dal nazifascismo che promulgava le leggi razziali; l’apartheid è, relativamente, finito da poco; gli afroamericani hanno subìto discriminazioni fino a tempi molto prossimi a noi; i nativi americani, la schiavitù, la tratta non sono fenomeni remoti; il colonialismo non è mai realmente finito; i pogrom, le guerre di pulizia etnica, le deportazioni sono ancora parte integrante del nostro mondo – sia che lo si pensi globale, sia che lo si voglia locale. Il razzismo è solo uno dei modi attraverso i quali si è cercato di dare un ordine al caos. Ma che tipo di ordine? Mi chiedo, in effetti, se esso non sia solo una variazione sul tema del vecchio quesito alla base di tutta la filosofia politica: cosa legittima un uomo a comandare su un altro uomo?
Sbarchiamo e Nicola vorrebbe cominciare subito la caccia: per lui, questo lavoro, è una sorta di safari fotografico. Fiutate le prede, vorrebbe stenderle al primo click. No, gli dico. Anzitutto perché sono le 8 del mattino e chi vuoi che ci sia in giro a La Maddalena a quest’ora di domenica? Prima cosa, da buoni antropologi, tracciamo e sentiamo il terreno. Ci facciamo il giro, ovviamente in macchina, dell’isola. Dobbiamo cercare di intuirla. La Maddalena mi ricorda Carloforte. Un’isola dell’isola, un’isola che si sente staccata dal continente Sardegna. Un mondo a sé. Chiuso al limite dell’endogamia. La noia è sospesa nell’aria manco fosse lo smog di Pechino. Alle 10 siamo di ritorno. Parcheggiamo a due passi dalla banchina.
«Iniziamo?»
«No, ora facciamo colazione, e poi una passeggiata: il paese è piccolo e, se ci vedono in giro, cominciamo a fare tappezzeria e destiamo minore irritazione» mentre lo dico, penso a Malinowski, dal quale ho imparato, se non altro, a mentire sul mio lavoro. Certo, con esiti diversi. Lui è diventato il padre della ricerca sul campo con cattedra ad Oxford e io ho un contratto precario a Cagliari. Ma quelli erano altri tempi. Nicola però ha troppa fretta, e io mi sento un cacciatore che deve tenere i cani.
«Nico» gli dico, mentre lui si mette mezza bomba alla crema in bocca «questo è un lavoro delicato. Le persone devono parlare, aprirsi, raccontare e pensare. Se non si sentono comode, il lavoro risulterebbe un fallimento, mancherebbe della giusta, densa profondità. Dunque» concludo, mentre lui si affanna a mandar giù per rispondermi «be quiet, please»
Dopo aver dato un lungo sguardo distratto ai giornali, dico a Nicola: «Pronti, possiamo andare»
«Come procediamo?»
«Beh, anzitutto andiamo in giro e vediamo se percepiamo qualcosa di interessante nell’aria»
A pochi metri dal bar, troviamo quello che sembrerebbe un centro sociale. Dentro una mostra di disegni di bambini e foto su La Maddalena. Ci accoglie un uomo sulla cinquantina, dice di chiamarsi Lino, è un professore di storia dell’arte. Ha vissuto per un paio di decenni a Firenze, ma ora è tornato a casa. Ha voglia di comunicare, e io lo metto a suo agio. Gli esponiamo rapidamente il progetto, e dice di non aver nulla in contrario a parlare. È più dubbioso per quel che concerne le foto, ma Nicola è un mastino. Ad un certo punto, mentre noi parliamo, si alza e comincia a scattare. Dopo un iniziale irrigidimento, Lino comincia a prenderci gusto. Lo noto da come si atteggia verso l’obiettivo. Cerca di parlare con espressioni e pause teatrali. Click, click, click. Parlare con uno che ci scatta in faccia, ci fa sentire più importanti, a quanto pare. Caro McLuhan non è più il medium ad essere il messaggio, oggi ci accontentiamo della forma. Sant’otturatore. L’impressione è che Lino non parlasse da almeno due anni. Ci racconta tutta la storia della sua vita, e ogni volta che si distanzia troppo, io devo incaricarmi di riportarlo sul pezzo senza che se ne accorga. Gli chiedo del razzismo a La Maddalena. Sulle prime è molto abbottonato, ma poco a poco si lascia andare. Al punto da farci intendere di esserne stato, in qualche modo, vittima lui stesso: non lo dice chiaramente, ma nelle sue parole, e soprattutto nei suoi gesti, prende rapidamente forma una confessione. Dopo quasi 50 minuti di conversazione più prossima a telefono amico che ad un reportage antropologico, ci salutiamo. Lino ha firmato le liberatorie. Nicola ha scattato oltre 250 foto.
Sono le undici passate, la gente comincia ad affollare le vie, e Nicola ed io procediamo come due strani marziani verso il centro del centro storico. A pochi passi dalla chiesa, manco a farlo a posta, incontriamo un prete. È il cappellano militare. Tutto nero sotto il colletto bianco e la calva prominente. Ricordo che i manuali di ricerca sul campo, datati forse agli anni ‘50, suggerivano di agganciare sindaco, maestro, prete e, talvolta, il farmacista. Dunque, lo fermiamo. Esponiamo anche a lui il progetto. Ci dice che tornerà subito. Nicola non è contento della scelta. Fotograficamente non è un soggetto interessante. Eppure, gli dico io, se la gente ci vede che intervistiamo il prete, dovrebbe prendere maggior confidenza e fiducia circa la nostra presenza e il nostro lavoro. O almeno così assicurano i manuali. Il prete torna. Partiamo. In effetti, ci dice, non riesce a capire il razzismo. Siamo tutti figli di uno stesso Dio, fatti a sua immagine e somiglianza. Dovremmo vivere d’amore e fratellanza, comprensione e rispetto. Provo a scalfire questa frittura mista di luoghi comuni, per grattarci la realtà sottostante, ma il prete, in quello che dice, ci crede sul serio. Dunque tanto di cappello: non ci sta intortando nessuna storiella. Mentre racconta, come sempre, la chiacchiera assume altre coordinate e inizia a focalizzarsi sull’io di colui che parla: l’intervista diviene dialogo, e questo scivola rapidamente in narrazione. In tal modo, mi si fa cristallino il perché lui creda con tanta serenità in quel che ci dice: fino a qualche anno fa, infatti, era un impiegato postale. Ha cambiato vita a cinquant’anni suonati. Meglio tardi, gli dico. No, mi risponde, Non è mai tardi, semplicemente era giunto il momento. Nicola frattanto scatta come un ossesso. D’un tratto, forse a causa del sole a picco sulla sua generosa pelata, il prete ci liquida con una rapida stretta di mano, e va. Parlare, in fondo, stanca.
Cosa vuol dire andare avanti? In termini strettamente podistici, andare avanti significa mettere un piede davanti all’altro, con la direzione di marcia indicata dalla punta. Tuttavia, forse Benjamin in Angelus Novus, aveva parlato di un singolare arretramento. Raccontava di un Angelo, venuto a visitare il tempo presente, orripilato da quel che ci trovò, arretrò verso il futuro. Insomma, arretrare verso il futuro, in effetti, è cosa ben diversa dal girare sui tacchi. La potenza di quell’immagine, ai miei occhi, sta proprio in questo non riuscire a dare le spalle al presente. Benjamin era ebreo. Dovette fuggire dalla Germania, poi dalla Francia, quando questa cadde sotto il dominio nazista, per morire suicida in Spagna, da dove sperava di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Non ce la fece. La sua, in effetti, è una storia singolare ma allo stesso tempo plurale, archetipica e paradigmatica. Penso che dovrei pensare che essa potrebbe essere eletta a simbolo di ri-tratta. Benjamin, filosofo, saggista, critico e, soprattutto, uomo intelligente, preferì il sonno nichilistico della morfina, piuttosto che correre il rischio di essere riconsegnato dalle milizie franchiste a quelle naziste. Quando decise di togliersi la vita, egli aveva con sé una valigia nera che, con ogni probabilità, conteneva tutti i suoi scritti più preziosi. I suoi compagni di viaggio, anche loro ebrei, vennero rilasciati il giorno dopo, e, facendo una colletta, poterono pagargli un loculo a Port Bou, per cinque anni. Dal 1945 non si sa dove riposino le spoglie di Benjamin. Stesso destino per la valigia nera. Oggi viene da dire che se avesse avuto la pazienza di aspettare un giorno di più, avrebbe scoperto che la vita, ogni tanto, riserva anche delle buone sorprese. Ma il solo pensarlo mi fa rabbrividire di banalità. L’Angelo arretra verso il futuro, un tacco davanti all’altro, rompendo la resistenza del tempo, col fruscìo candido delle sue ali.
Di fronte a tali immaginosi pensieri, Nicola e io sembriamo due granchi. Procediamo infatti goffi e saltellanti. Mentre io cerco di ficcare i miei occhi in quelli di tutti per captarne e carpirne l’energia, Nicola giochicchia con la macchina fotografica e si interroga se 24 giga di memoria fotografica gli basteranno.
Mentre vado a comprarmi una bottiglietta d’acqua, Nicola si avvicina ad un gruppo di venditori ambulanti. Avvicinandomi, sento Nicola parlare in inglese e dunque mi accodo. Parliamo tutti in inglese, ma ognuno ha un diverso livello. Ci capiamo relativamente poco e gesticoliamo tanto. Cerco di spiegare il progetto, ma, dalle loro espressioni, mi rendo conto che probabilmente neppure io comprendo bene quel che sto dicendo. Dunque chiedo loro da dove vengano e se hanno qualche problema a parlare inglese. In effetti, mi fa il più sveglio, vengono dal Senegal e preferirebbero il francese. E qui entra in scena Nicola, dato che lui, nei suoi tre anni svizzeri, ha parlato solo francese. Dopo qualche minuto, però, ho la netta sensazione che capissero di più prima, quando si parlava in inglese.
«Nicola» gli faccio «mi sembra che qui ci sia un problema di comunicazione» per la prima volta da quando è iniziata la conversazione, qualcuno ha parlato in italiano.
«Ma parlate italiano?» sbotta il senegalese sveglio.
«Certo, siamo italiani»
«E allora perché avete parlato in inglese?» Francamente me lo chiedo anch’io. Vorrei ridere del malinteso, ma mi rendo conto che non sarebbe la mossa più azzeccata. I nostri amici sono tesi e insospettiti. Dunque faccio notare che, quando sono arrivato, loro stavano parlando in inglese e per questo ho pensato che non sapessero ancora parlare in italiano, magari erano appena arrivati.
«Ma quale appena arrivati!» fa il più anziano. «Sono in Italia da 25 anni!»
Fatto un rapido calcolo, il patriarca del gruppo calca il suolo italiano da un periodo assoluto superiore all’intera vita di Nicola. In termini relativi, tuttavia, la questione cambia: per lui, infatti, quei 25 anni sono solo mezza vita; per Nicola, invece, i suoi 24 sono tutta la vita. Mentre ascolto la storia del suo arrivo in Italia, penso queste cose e faccio questi calcoli, con la vaga, ma non confermata, sensazione che non siano esattamente pensieri sprecati.
Non tutti vogliono farsi fotografare. Così Nicola scatta solo alcuni dei loro volti – neri e segnati. I più giovani, dalle illusioni di raggiungere uno status connesso alle marche dei brand che indossano (originali) e vendono (contraffatti). Il più anziano, dai 25 anni trascorsi vendendo in strada. Mentre parliamo e Nicola continua a scattare, mi chiedo se questi giovani di colore non siano una buona metafora della nostra società postmoderna. Sono disposti a spendere tanto per indossare dei capi originali e incarnarne lo status symbol, ma al contempo vendono in strada gli stessi capi tarocchi a tutti gli altri, ovvero a quelli che aspirano ma non possono. Quanti sacrifici! Questa schizofrenia mi preoccupa, perché mi sembra una delle patologie sociali più diffuse e pericolose del nostro mondo. L’unica cosa che mi pare più o meno certa è che corriamo sempre dietro ai miraggi sbagliati. A volte, basta rimanere fermi e provare a scavare. Le risposte, spesso, son già dentro di noi. Anzi, ognuno di noi è la sua risposta. Ognuno è, infatti.
Decidiamo di fare un breve pausa, e la finiamo a mangiare pizza circondati da israeliani, americani e francesi. Mentre Nicola continua a bombardarmi, dicendomi che fotografare, per Cartier-Bresson, significava «scrivere con la luce per disegnare una meditazione e catturare un frammento di realtà con un’azione immediata» , io provo, dentro di me, a chiedermi se sia possibile, evitando di scadere nella superficialità, catturare una forma antropologica di descrizione densa del ed attorno al razzismo, rilevando l’intreccio dei fili dietro all’arazzo; e come possa, se mai riuscirò a cogliere una parte di quell’intreccio, scriverne, evocando il percorso di scoperta ed analisi.
Il resto del pomeriggio corre di intervista in intervista, ma i miei dubbi fondamentali proseguono tutti e tre, come tarli. In fondo La Maddalena è un’isola; dovrebbe esser possibile cercare di coglierne il modo, maddalenino, di strutturare e significare il razzismo; del resto, James Clifford, leggendo Amitav Ghosh, ci ricorda che i luoghi della postmodernità, più che isole isolate, sono talvolta più simili alle sale d’attesa di aeroporti internazionali, e che, dunque, il concetto di campo antropologico, e quello di cultura di una comunità, andrebbero un attimo ritarati. Per essere buoni antropologi e parlare di razzismo oggi, serve efficacia. Ma visti i risultati finora raggiunti da chi ne ha parlato, essere efficaci dovrebbe significare novità.
Dunque l’idea alla base di ri-tratta si declina nei termini della freschezza. Il primo dei problemi è allora: come si intervista il razzismo? Quest’interrogativo si coniuga con un altro, metodologico ed altrettanto scottante: come si documenta la migrazione senza scadere nell’aridità dei numeri e delle statistiche? Se è l’efficacia che cerchiamo, di certo, quando lavoro sul campo, non penso a quella burocratica. Può, allora, la narrazione, col supporto della fotografia, costituire un mezzo capace di introdurre alla questione, di modo che la dignità di ciascuno dei soggetti in gioco non debba abdicare? Quali sono, poi, i soggetti in gioco? Quali i codici a nostra disposizione per incardinare e scardinare le pratiche preferenziali e discriminatorie?
Senza dubbio, la narrazione – ma anche la mediata immediatezza delle fotografie – costituisce una pratica-di-linguaggio, una – per così dire – messa in opera; ogni autentica messa in opera, innescando momenti di dubbio, di ricerca e di scelta, comporta una tensione volta alla crescita, un’uscita dai limiti momentanei, storici e immaginifici del sé in quel momento: una creazione. Ma ogni creazione è, in quanto tale, portata alla di-versione – una rotta, tracciabile solo ex post, destinata all’oltre, ma anche all’altrove. In tal modo, laddove la messa in opera si concretizzi realizzando la diversione e l’eccentricità, ci troveremo innanzi ad una pratica di linguaggio che ci schiude la possibilità di oltrepassare l’istanza del codificato e del detto fino a quel momento.
Sfruttando quella che è nota come universalità semantica, secondo me, il dovere di un ricercatore è ricordare che il ponte fra un sé e un altro sé è sempre edificabile, oltre che edificante. Infatti, teoricamente, il dialogo è sempre plausibile ed auspicabile. Allora, mi chiedo, come mai nella realtà questa possibilità è spesso tradita e scartata? Forse per paura e desuetudine. Temo, infatti, che pratiche come quella razzista e razzializzante prolifichino per quella strana miscela che collega, intimamente e incoscientemente, la scarsa abilità-a e la paura-di. In tal modo, forse, queste forme di pensare e di pensiero sono violentemente incorporate e innervate nella nostra visione di noi nel nostro mondo.
Ormai è sera, e si è fatta ora di rientrare. Raggiungiamo la banchina e ci imbarchiamo. Mentre facciamo il punto sulla nostra prima missione, la nostra attenzione è attratta da una ragazza riccia che passeggia da sola sul ponte. La luce dorata del tramonto è quella più giusta: ammorbidisce i tratti e desatura i colori. Si dice che Ansel Adams, l’inventore del sistema zonale, andasse a scattare solo all’alba e al tramonto e, dato che fotografava paesaggi, a volte, con la sua hasselblad medio formato e le ottiche, camminava anche per trenta km sui monti, tra gole e foreste, in cerca del luogo più poetico.
Per fortuna, Nicola usa Nikon e nessuno dei due, temo, sarebbe in grado di camminare per più di un km con trenta chili sulle spalle. Dunque, eccoci qui, sul ponte del traghetto a fare l’intervista alla donna coi ricci.
«Cara puoi stare qui sotto? Questa luce è perfetta»
«Eh, ma allora bisogna sbrigarci» dice la ragazza «perché appena il traghetto parte, queste luci le spengono»
Detto fatto. Appena mossi, hanno spento le luci. Ma noi, pur incapaci di camminare all’alba sotto la neve per trenta km con trenta chili sulle spalle, siamo, a modo nostro, dei tipi tosti. Mentre io rimango a chiacchierare con la ragazza, Nicola parte a parlare col capitano. E dopo due minuti, magicamente, le luci si riaccendono sul ponte.
«Che gli hai detto?»
«Niente»
«Mmm»
«E vabbé gli ho detto che siamo due del National Geographic e che stiamo facendo un servizio sui trasporti marittimi.»
«Beh, potevi puntare più in alto. Solo il National?»
La ragazza ci guarda, divertita, come fossimo due matti. Come darle torto?
«Hai una figlia!? beh, complimenti, non si direbbe!»
L’intervista procede sotto sguardi curiosi: non capita tutti i giorni di vedere il National Geographic in azione!
Circondati da tanta, morbosa, attenzione, Nicola scatta a raffica e la ragazza si dimostra una donna molto speciale, piena di poesia e di emozioni. Ci son dei momenti in cui mi sento un arpista messo davanti ad un’arpa magica, ma con uno spartito tarmato: se pizzico la corda giusta, il suono è meraviglioso. Dopo un po’ di tergiversare, però, tocco un affondo.
«Ma tu, il razzismo, come lo racconteresti a tua figlia?» mentre formulo lentamente la domanda, Nicola è inginocchiato che scatta: variando rapidamente esposizione, iso e priorità dei diaframmi, cerca di mettere in primo piano la poesia che scorre sul volto che si ferma e piange. Forse non avrei dovuto toccare questa corda. Mi viene voglia di abbracciarla, ma mi pare un passo deontologicamente sconveniente. Così, le faccio sentire la mia vicinanza col calore del mio sguardo.
Nicola, invece, continua a scattare come nulla fosse. Vorrei fermarlo, ma al limite ne parleremo dopo: davanti agli intervistati deve regnare l’armonia!
I due minuti successivi si allungano come da tempo non mi capitava, ma, alla fine, lei fa l’unica cosa che ci permette di uscire dal tunnel: una domanda. La sua voce ha recuperato chiarezza e colore.
«E tu, a tuo figlio, come lo racconteresti?»
«Mmm» borbotto per riacciuffare i miei pensieri «e allora facciamo così… che immagine useresti per sintetizzare il razzismo?»
«Un bambino» mi risponde di getto «un bambino nudo che piange e scappa»
E mentre lei lo dice, io penso ad un bambino che cerca di sfuggire l’ingresso dell’inferno. Secondo manuale, tra gli strumenti e le pratiche a disposizione, l’antropologo nel corso della ricerca sul campo dovrebbe svolgere un’osservazione partecipante. Secondo i dizionari l’osservazione partecipante è una
«tecnica di ricerca antropologica inaugurata ufficialmente da Malinowski (1922), fondata sulla presunta neutralità dell’osservatore partecipante. Implica l’immersione nelle attività quotidiane della comunità da studiare, attraverso prolungati periodi di lavoro sul campo e la padronanza della lingua […] fondata sul concetto di empatia, mira a minimizzare il problema della reattività e l’effetto distorcente della partecipazione dell’antropologo, dissolvendo la presenza dell’osservatore fra gli osservati» .
O anche, per gli amanti dell’inglese a tutti i costi: «term used for the most basic technique of anthropological fieldwork, participation in everyday activities, working in the native language and observing events in their everyday context» .
Perché mai dovrei dissolvermi fra gli osservati? Sembra una tecnica da romanzo spionistico d’appendice! E il campo? Cosa mai è questo campo sul quale dovrei piazzare la mia tenda? L’idea di fondo è di uno spazio chiuso e territorialmente perimetrabile. Non a caso, Fabian parla di orti culturali, per metterne in risalto l’assurdo. Se il campo è il luogo dell’incontro, allora l’unico campo che riconosco è il linguaggio, che è ciò che ci permette di entrare o rimanere in contatto con noi stessi, con gli altri e con le intenzioni, recondite o meno, personali ma anche culturali. Certo, gli antropologi dovrebbero mettere in atto una loro peculiare forma di comunicazione, e parlare anche un loro specifico linguaggio. Ma secondo me, sia la prima che il secondo, evitando tanto la chiusura elitaria quanto l’eccessiva semplificazione, dovrebbero dedicarsi all’inclusione e all’apertura. Più che dissolvere la nostra presenza, forse dovremmo imparare a comunicare uno scambio e scambiare una comunicazione – densi, profondi, stratificati e ovviamente antropologicamente aperti a tutti, per quanto sempre parziali, perfettibili e soggettivamente costruiti.
Quando abbiamo iniziato con ri-tratta, mi son interrogato una volta di più sull’osservazione partecipante e sul campo: il campo del razzismo comprende la storia degli ultimi secoli del nostro pianeta. Per quel che concerne la pratica dell’osservazione partecipante, che avrei dovuto fare? Viaggiare in container? Fare la fila in questura fingendomi straniero? La risposta che mi son dato è che queste sono domande malposte. Il mio compito non era la descrizione della fruizione culturale o individuale del problema del razzismo e della discriminazione, ma suscitare un interesse antropologico relativo alle questioni trattate. Un interesse vivo, e non uno imbalsamato. Insomma, una pruriginosa curiosità.
Sono passati alcuni mesi dall’avventura a La Maddalena, e con Nicola abbiamo deciso di orientare meglio il progetto. Dopo esser stati tutto un giorno sotto la pioggia di Carloforte, durante il rientro in macchina, abbiamo decretato una riduzione logistica del campo, con conseguente rimodulazione dell’oggetto di ricerca. È per questo che siamo arrivati alla scuola di italiano per stranieri, nel cuore della Marina di Cagliari. J.L. Amselle scrive:
«è partendo dal postulato dell’esistenza di identità culturali distinte dette culture che si giunge alla concezione di un mondo postcoloniale o posteriore alla guerra fredda visto come entità ibrida. Per sfuggire a questa idea di mescolanza per omogeneizzazione e ibridazione, occorre postulare, al contrario, che ogni società è meticciata e quindi che il meticciato è il prodotto di entità già mescolate, che rinviano all’infinito l’idea di una purezza originaria».
In un articolo contenuto in La cultura del romanzo, e intitolato Dall’oralità alla scrittura, l’antropologo Jack Goody, esperto di culture orali, scrive:
«la forma narrativa del caso clinico non si produce spontaneamente, ma viene sollecitata, e di conseguenza creata su misura: si tratta inoltre del prodotto di una società dotata di scrittura e di procedure connesse alla scrittura; essa rappresenta… un assemblaggio di frammenti montati in modo da creare una continuità narrativa che non si presenta mai (o molto di rado) al ricercatore. A noi sembra naturale fornire un compendio narrativo delle nostre vite per un curriculum o per esporlo a un analista, per un diario o un’autobiografia. Ma siamo sicuri che sia così per le culture orali?… direi piuttosto che sono io, l’antropologo, lo psicologo, lo storico, a cercare di costruire storie di vita (o storie di altro tipo) a partir dai frammenti di conoscenza che incontro sul mio cammino, o dall’ardua lotta per far sì che l’informatore risponda alle mie domande, articolando dunque per me un discorso che non farebbe in nessun’altra occasione. Le storie di tipo biografico non emergono spontaneamente, sono pesantemente costruite. La storia non si limita a riportare i fatti, ma fornisce loro una forma narrativa a partire da frammenti di esperienza che si presentano in modo molto differente».
Sono le sei e mezzo del pomeriggio, siamo a Quartu e pioviggina; il 31 ci lascia in via Brigata Sassari: abbastanza distanti da casa di Timoty, che abita nei pressi del cimitero. Dato che a Cagliari c’era il sole, non abbiamo ombrello. Cappuccio tirato sulla fronte, macchina fotografica e taccuini al sicuro, camminiamo in fila silenziosi come indiani. Timoty è un ragazzo nigeriano di 24 anni, in Italia da circa due per giocare ad hockey nel Cus Cagliari: fa il centrocampista. Avrebbe preferito giocare a calcio in Inghilterra, ma le leggi inglesi, a tutela del talento e dell’identità pedatoria britannica, ammettono solo l’ingresso di calciatori extracomunitari minorenni, o che abbiano giocato almeno una partita nella loro nazionale. Dunque Timoty si deve accontentare.
Non saprei dire come fosse prima del suo arrivo, ma qui la sua vita sociale non è molto attiva. Eccetto allenamenti e partite, e tolte le due lezioni settimanali d’italiano al Co.sa.s, passa il resto della giornata in casa a guardare la tv e chiacchierare con il suo coinquilino, pure lui nigeriano, che fa il venditore ambulante.
Troviamo il portone aperto, e saliamo direttamente al secondo piano. Suoniamo al campanello e dopo alcuni secondi Timoty viene ad aprirci. La porta dà su un secondo ingresso: probabilmente, il padrone di casa ha diviso un vecchio appartamento. A sinistra, vivono Timoty e il suo coinquilino. Ma giusto davanti a noi c’è un altro ingresso, la cui porta, in questo momento, è totalmente spalancata. Dietro il nostro amico, sedute su due sedie molto basse, ci sono due donne di colore. Sono praticamente nude e si stanno passando lo smalto sulle unghie dei piedi. Non sollevano neppure lo sguardo, non si scompongono, ma continuano placide le loro operazioni di maquillage. Seguiamo Timoty fin dentro il soggiorno di una casa minuscola. sulla parete a sinistra dell’entrata, imperiosa, troneggia una tv Sony al plasma ultramoderna da 62 pollici. le casse sottostanti sono Bose, una delle migliori marche e la card della pay per view è una Sky hd. Timoty, che aspetta il ritorno del suo coinquilino per cenare, sta guardando una partita del campionato spagnolo. Io, che di certo non sono uno sprovveduto, rimango allibito dalle sue conoscenze. È talmente informato sul calcio a livello planetario che vorrei suggerirgli di scrivere un almanacco. Tuttavia, mi fa notare, il calcio non è il suo sport preferito, segue infatti con lo stesso interesse anche tennis, pallavolo, basket, moto, f1 e Dio solo sa cos’altro.
Mentre il plasma della tv c’illumina, Nicola si prepara a scattare. Ma lo schermo, ci comunica, rovina l’effetto scenico: è necessario trovare un nuovo contesto, farsi venire una buona idea.
«Ho trovato,» dice all’improvviso Nicola «e se ci spostassimo nella tua camera da letto?»
Timoty non ha nulla in contrario, così lasciamo il soggiorno e la tv accesa e, in ordine, percorriamo due metri. Fuori è tornato un po’ di sole e dalla veneziana filtra una luce sporca e polverosa: la stanza è abbastanza scarna. Non ci sono foto, solo due letti.
«Non hai foto di quando eri piccolo?» chiede Nicola.
«Sì, ne ho una» risponde Timoty con il suo accento pesante e impastato «è l’unica che mi hanno fatto da bambino»
Si avvicina ad un armadio e prende una classica scatola da scarpe da cui tira fuori una dozzina di foto, alcune in bianco e nero, altre a colori. Mentre ce le mostra, ne scarta una molto bella di una bambina.
«Tim, quella chi è?»
«Questa?» dice impassibile «sai, non è molto importante. È mia sorella morta»
L’indifferenza con cui parla della sorella morta ci colpisce al punto che non riusciamo a dissimulare.
«Cazzo» fa Nicola «mi spiace!»
«E perché?»
«Beh… come perché? Tua sorella! Morta!»
«Bah, da noi è normale che ci sia almeno un fratello o una sorella morti. Sapete, credo che una grande differenza tra la cultura africana e quella europea sia il rapporto con la morte. Per noi è naturale. Per voi no» dice Timoty con un sorriso serafico, mentre porge a Nicola quell’unica foto della sua infanzia che lo ritrae bambino, con una giacca troppo grande, e il volto e lo sguardo smarriti. Torniamo in strada che è quasi l’una. Non ci sono più autobus, così chiamiamo un taxi. Mentre aspettiamo, Nicola ha un’illuminazione.
«Caro, sai cosa manca al nostro progetto?»
«Dovremmo viaggiare!» dico come gli avessi letto il pensiero.
«Esatto! Dovremmo ripercorrere le tratte che fanno i migranti per arrivare fin qui, o per tornare a casa». Ma cos’è casa per un migrante?