Il numero dei cittadini stranieri residenti in Italia nel 2017 (5.047.028 al 1° gennaio) è variato solo di poche migliaia di unità rispetto al 2016 (+20.875, pari a +0,4%). Tra il 2007 (l’anno precedente lo scoppio della crisi mondiale: 2.592.950) e il 2016 (5.026.153) la popolazione straniera in Italia è aumentata di 2.433.203 unità (+93,8%) [1].
I residenti stranieri nell’Unione europea al 1° gennaio 2016, sono risultati 37.072.430; all’Italia spetta una quota del 13,6% dell’intera presenza straniera nell’UE [2].
Tenendo conto anche degli ingressi rilasciati in Italia per famiglia, per studio e per altri motivi, sono stati registrati in anagrafe in provenienza dall’estero 262.929 stranieri. Sono state estremamente ridotte le quote programmate per i nuovi ingressi: 13 mila per i lavoratori stagionali e 17.850 per tutti gli altri comparti del lavoro dipendente e autonomo, in larga misura (14.250) riservate a cittadini già presenti in Italia e interessati a convertire il proprio titolo di soggiorno (ad esempio, da studio in lavoro). A loro volta, gli italiani rimpatriati sono stati 37.894.
Si è assistito anche a flussi di cittadini stranieri che hanno lasciato l’Italia. Si sono cancellati dalle anagrafi comunali per trasferirsi all’estero 42.553 cittadini stranieri, ma il numero è sottostimato. Risultano inoltre cancellati d’ufficio (in quanto irreperibili) altri 111.985 cittadini stranieri.
Oltre il 30% delle quasi 200 comunità di cittadini stranieri presenti in Italia è costituito da comunitari (1.537.223 individui, di cui 1.168.552 cittadini romeni, che hanno in Italia il loro maggiore insediamento estero); sono 1,1 milioni gli immigrati che provengono da altri Paesi europei. Cittadini africani e asiatici sono, entrambi, attorno a 1 milione di presenze. Solo 13 collettività hanno più di 100 mila residenti in Italia: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, India, Moldavia, Bangladesh, Egitto, Pakistan, Sri Lanka e Senegal.
Sono in aumento i permessi Ue come lungo soggiornanti, pari al 60,6% di tutti i soggiornanti) – un chiaro indicatore di un insediamento stabile. Altri dati significativi al riguardo sono le nuove nascite da genitori stranieri (69.379), i ricongiungimenti familiari (103.500) e l’incidenza complessiva dei minori di diciotto anni (20,6% – poco più di 1 milione).
È elevato il numero degli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana, per lo più dopo aver maturato 10 anni di residenza e non a seguito di matrimoni con cittadini italiani (17.692 nel 2015): i casi erano appena 35.266 nel 2006 e sono diventati 178.935 nel 2015, 201.591 nel 2016. In tutta l’Unione europea nel 2015 le acquisizioni sono state 841mila. Si stima che circa il 40% dei casi abbia riguardato i minori.
Gli occupati con cittadinanza straniera nel 2016 sono 2,4 milioni (il 10,5% di tutti gli occupati) e sono aumentati rispetto al 2015 di 42 mila unità. Le imprese gestite da immigrati, senza soluzione di continuità nella crescita positiva, sono arrivate nello stesso anno a 571mila.
Numeri importanti sono anche quelli sui figli degli stranieri iscritti nelle scuole italiane (647 mila dalle elementari alla scuola superiore, cui si aggiungono oltre 160 mila nelle scuole d’infanzia e 72 mila presso le università.
Questi sono i principali dati sul fenomeno: ad essi nel prosieguo dell’articolo se ne aggiungono altri più particolareggiati.
La presenza per motivi umanitari
Nel Dossier Statistico Immigrazione sono presentati e analizzati i dati sulla presenza per motivi umanitari e di protezione internazionale. Gli stessi in questo articolo vengono riportati in seconda battuta non certamente per sottovalutare la loro importanza ma per evitare che il lettore, come spesso avviene anche nel dibattito pubblico, dedichi la propria attenzione esclusivamente ad essi, dimenticando o comunque ponendo in secondo piano la presenza di 5 milioni di immigrati regolarmente e stabilmente presenti nel nostro Paese.
Rispetto a qualche anno addietro, gli sbarchi dei profughi sono andati notevolmente aumentando: da 63 mila nel 2011 (anno delle “Primavere arabe”), sono scesi momentaneamente a 43 mila nel 2012 e a 13 mila nel 2013, per raggiungere i 170 mila nel 2014, i 154 mila nel 2015, i 181 mila nel 2016 (con 123 mila richieste d’asilo).
Al 31 dicembre 2016 sono stati 176.554 i richiedenti asilo in carico al sistema ufficiale di accoglienza: 137.218 nei Centri di Accoglienza Straordinaria (oltre 3 mila facenti capo alle Prefetture), 820 negli hotspot, 14.694 presso i Centri di Prima Accoglienza e 23.822 nei Centri ordinari dello Sprar– Sistema per l’Accoglienza dei Richiedenti Asilo (che fa capo all’Anci per incarico del Ministero dell’Interno). Secondo le indagini condotte da alcune organizzazioni sociali vi è stata stimata anche la presenza di circa 100 mila i profughi e gli altri immigrati, non registrati e sistemati presso campi informali.
La ripartizione territoriale dei richiedenti a carico del sistema di accoglienza è diseguale. Al primo posto, con una persona ogni 90 residenti il Molise; vengono in ordine decrescente la Basilicata, il Friuli Venezia Giulia, la Calabria, la Liguria, l’Umbria, la Sardegna con un profugo ogni 200 residenti. Di seguito, è stato accolto un profugo ogni 300 residenti in Toscana, Piemonte, Marche, Puglia, Trentino Alto Adige, Veneto, Abruzzo, Sicilia, Emilia Romagna, Lazio; uno ogni 400 residenti in Campania, Lombardia e Valle D’Aosta.
I profughi arrivati di recente hanno di fatto sostituito le quote d’ingresso dei lavoratori previste prima della crisi, essendo state negli ultimi anni le quote d’ingresso limitate ai 13.850 lavoratori stagionali non comunitari (oltre a 17.850 posti per lavoro dipendente e autonomo, in prevalenza riservati a cittadini stranieri già residenti in Italia ma con altro titolo di soggiorno) [3]. Riguardo l’organizzazione dell’accoglienza, nel tempo si è passati da una fase in cui i grandi centri urbani sono stati privilegiati, ad una fase in cui sono stati i piccoli centri ad essere coinvolti (spesso attraverso l’inserimento in appartamenti autogestiti). Sembra a questo punto giunto il momento di fare tesoro delle poche esperienze pilota finora maturate e cominciare a pensare che anche la rete familiare possa essere protagonista dell’accoglienza. All’autogestione da parte degli stessi interessati allocati in piccoli appartamenti è ormai giunto il tempo di considerare l’opportunità di affiancare su più ampia scala un’accoglienza in famiglia.
Gli umori della società: tra percezioni e condizionamenti
È indubbio che le migrazioni rappresentano congiuntamente un’opportunità e un problema, con prevalenza a seconda dei casi dell’uno o dell’altro aspetto di questo fenomeno molto complesso e intrinseca- mente ambivalente.
Nell’attuale fase, in Italia, sembra prevalere la considerazione degli aspetti problematici. Da molti anni la popolazione è divisa a metà, ma oggi nell’opinione pubblica si sta affermando una maggioranza interessata soprattutto a una difesa nei confronti delle culture e delle religioni “altre” rispetto a quella autoctona, introdotte nel nostro Paese dallo straniero. Sono ricorrenti slogan simili: “aiutiamoli piuttosto a casa loro”, “rimandiamoli indietro subito”, “mettiamoli in carcere”, “sono una massa di delinquenti” e “separiamoci dall’Unione Europea per non dover sottostare alle sue regole”. È notevolmente cambiato, quindi il punto di vista dei più, nel nostro Paese: diversi fattori hanno influito al riguardo.
È ancora lenta la ripresa dopo la crisi scoppiata nel 2008. Il numero dei disoccupati non conosce una sensibile diminuzione, così come il livello degli occupati stenta a far riscontrare un consistente aumento, a causa di un tasso di sviluppo inferiore alla media europea e alle attese della popolazione: il Pil è ancora di 7 punti percentuali al di sotto dei livelli pre-crisi. La nostra collocazione nel mercato internazionale diventa precaria a fronte di nuovi concorrenti competitori. Il debito è in aumento e salati sono gli interessi che a causa di esso l’Italia deve pagare. Ne discende che i fondi, per la copertura delle spese sociali, pensioni e sanità innanzitutto, sono ridotti e gli investimenti sono insufficienti. Le risorse non vengono utilizzate se non in misura ridotta per gli investimenti: servono invece in larga misura per pagare il debito. La macchina dello Stato è costosa e scarsamente efficiente. Per l’insieme di queste ragioni si ritiene improbabile sperare in uno scenario di rinascita e certamente ci si deve confrontare con flussi importanti di profughi che sbarcano in un Paese in cui è già consistente la presenza immigrata.
Paradossalmente tuttavia l’immigrazione in arrivo non è quantitativamente abnorme, tenuto anche conto che sul saldo migratorio finale incide anche una ripresa dei flussi di italiani che si trasferiscono all’estero. In questi ultimi anni, in un periodo di aumentati sbarchi, il saldo delle migrazioni con l’estero è inferiore al fabbisogno teoricamente necessario per conseguire l’equilibrio demografico dell’Italia. Il saldo dei flussi con l’estero è stato di 144 mila persone nel 2016 e teoricamente sarebbero state necessarie almeno 150 mila unità. Tra gli italiani continua a crescere il livello di invecchiamento e continua a rimanere basso il tasso di natalità, mentre le morti prevalgono sulle nascite di circa 200 mila unità [4]. In base a questi dati possiamo aspettarci almeno 2 milioni di italiani in meno in una decina d’anni (ma il deficit senz’altro aumenterà nel corso degli anni). I demografi ritengono che, per evitare un invecchiamento eccessivo, sia assolutamente indispensabile continuare ad accogliere un certo numero di persone più giovani dall’estero.
Demografia, sviluppo e occupazione sono dunque delle voci strettamente legate, tutte al momento deficitarie. Se si fa un confronto con gli anni del “miracolo economico italiano”, intervenuto a cavallo tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60, si riscontra una differenza enorme in relazione agli umori allora prevalenti e oggi non più riscontrabili: apertura, creatività, coraggio, imprenditorialità e riforme. Quelli furono gli anni del superamento dei conflitti continentali e della creazione della Comunità Economica Europea, grazie ad un atto di coraggio e di confidenza nel futuro della politica del tempo e della società tutta.
Attualmente l’Italia partecipa a una competizione di dimensione mondiale, diretta conseguenza della globalizzazione, ma rispetto agli altri protagonisti risulta gravemente appesantita nei suoi movimenti: ciò influisce inesorabilmente sulle capacità competitive del nostro Paese in questo rinnovato quadro.
Sui migranti economici l’Unione europea ha adottato delle norme comuni per quanto riguarda l’accesso e il controllo delle frontiere e ha lasciato agli Stati membri la facoltà di determinare le quote necessarie come anche le politiche di integrazione, salvaguardando i princìpi di non discriminazione e in osservanza di altre direttive europee. Per i richiedenti asilo, invece, la situazione è differente: tutte le persone che arrivano in uno Stato devono presentare domanda di asilo in loco e tale Stato se ne deve far carico se viene riconosciuta loro la protezione umanitaria. Il Regolamento di Dublino si pone all’origine di questa irrazionale impostazione, contraria al Trattato di Lisbona che impone un’equa ripartizione degli oneri. La politica di gestione dei flussi nel Mediterraneo, varata nel 2015 dall’Unione europea (la cosiddetta politica degli hot spot o dei “punti di crisi) considera invece responsabili dell’accoglienza solo l’Italia e la Grecia (successivamente non più coinvolta nell’accoglienza dei flussi dalla Siria, bloccati in Turchia). E così l’Italia (e marginalmente la Grecia) è diventata in pratica la destinazione per la maggior parte di coloro che sbarcano, anche se diretti in un altro Paese; non è sufficiente un limitato numero di ricollocazioni, di fatto complesse e attuate a rilento, a ovviare a questa circostanza. Si tratta di uno scenario completamente modificato rispetto agli inizi degli anni ‘2000, quando i flussi si indirizzavano in prevalenza verso la Germania. Il Parlamento Europeo ha concordato che questa normativa, che impone in maniera sperequata i carichi dell’accoglienza, deve cambiare. Tuttavia non si sa quando questo cambiamento verrà attuato, a fronte della resistenza degli Stati membri ad approvare una nuova normativa che, in modo più equo, coinvolga in misura equa tutti i Paesi nell’accoglienza.
La pressione migratoria esterna
L’Onu ha ipotizzato che dai 244 milioni di migranti del 2015 (diventati 258 milioni nel 2017) si possa arrivare a 469 milioni nel 2050. Si prevede che la popolazione mondiale aumenti di circa 70 milioni di persone all’anno e che arrivi a 9,8 miliardi nel 2050. La popolazione europea diminuirà dell’1%, mentre l’Africa sarà il continente la cui popolazione aumenterà di più, passando da 1,2 a 2,5 miliardi, ma la popolazione aumenterà anche in altri attuali Paesi di emigrazione.
Alle origini di questi spostamenti, sempre più globalizzati, si collocano anche ragioni strutturali riferibili al divario nei livelli di sviluppo e nel reddito disponibile. La ricchezza mondiale, se fosse equamente ripartita, consentirebbe di attribuire a ciascun abitante del mondo 15.758 dollari. Sono, invece, molti i Paesi che si situano al di sotto di questo livello. Sparso nel mondo c’è 1 miliardo e mezzo di persone in situazione di estremo disagio, a cui si aggiunge la popolazione in condizioni di vita non soddisfacenti, seppure non drammatiche. Basti pensare che il reddito medio dei Paesi africani si colloca tra i 4.500 e i 5 mila dollari l’anno (è tale peraltro anche in un Paese europeo come la Moldavia). Attualmente (nel 2016), l’Italia si colloca nel gruppo dei Paesi più ricchi – ma non all’apice–, con un prodotto interno lordo di 2.312 miliardi di dollari e un Pil pro capite di 38.912 dollari.
Secondo un’indagine, condotta da Gallup in 156 Paesi, sono 710 milioni, in prevalenza giovani, le persone interessate a emigrare, circa un decimo degli abitanti del mondo (7,5 miliardi). L’intenzione di trasferirsi all’estero è particolarmente diffusa in alcune aree, dove coinvolge ampi strati di popolazione: circa 1/3 nei Paesi subsahariani, 1/4 in quelli latino-americani e 1/5 in quelli dell’Europa non comunitaria.
La Gallup ha evidenziato che l’Italia è la destinazione prescelta da un numero consistente di potenziali migranti (15 milioni), collocandosi a riguardo il nostro Paese dopo gli Stati Uniti (147 milioni), la Germania (39 milioni), il Canada (36 milioni) e la Gran Bretagna (35 milioni). L’indagine mostra che l’Italia sarà anche un Paese di esodo, perchè vorrebbe emigrare quasi 1/3 dei residenti: 10 punti in più rispetto alle percentuali riscontrate in media negli altri Paesi europei. In effetti, negli ultimi anni sono cresciuti i flussi in uscita, che per quattro decenni erano andati continuamente riducendosi [5].
L’Italia è anche attualmente un importante Paese di emigrazione. A partire dal 2011, dopo quattro decenni di diminuzione, hanno ripreso ad aumentare gli espatri, diventando così consistenti da essere equiparabili all’esodo dell’immediato dopoguerra. È vero che secondo le registrazioni anagrafiche gli italiani emigrati all’estero nel 2016 sono solo 104 mila. È anche vero, però, che realisticamente le uscite sono state almeno 2 volte e mezzo di più (285 mila se non addirittura 300 mila): a questa conclusione si giunge tenendo conto degli arrivi di italiani registrati all’estero e, in particolare, nei due Paesi di maggiore sbocco della nostra emigrazione (Germania e Regno Unito). Pertanto, l’Italia non solo era ma è tornata ad essere un grande Paese di emigrazione. Complessivamente i cittadini italiani registrati come residenti all’estero hanno superato i 5 milioni, una cifra pari alla popolazione straniera attualmente residente nel nostro Paese.
Il fabbisogno di immigrati da parte italiana
Anche le proiezioni demografiche dell’Istat prevedono un consistente aumento della presenza straniera [6]. Qui di seguito il principale riferimento sarà fatto allo scenario medio (quello più probabile) di tali proiezioni. In ogni caso anche negli scenari alternativi si dà per scontata la diminuzione della popolazione.
Pur trattandosi solo di previsioni, realisticamente sembra potersi scommettere su una diminuzione della popolazione italiana, che scenderà a 58,6 milioni nel 2045 e a 53,7 milioni nel 2065 (con una oscillazione tra e tra 46,1 milioni dell’ipotesi minima e 61,5 milioni di quella massima). Quindi, è probabile che nell’intervallo di previsione (2015-2065) la popolazione totale diminuirà di 7,3 milioni rispetto al 2016. Il saldo migratorio con l’estero sarà positivo (7,5 milioni), mentre quello naturale sarà negativo (9 milioni).
Questi mutamenti seguiranno percorsi differenti sul territorio dello stivale: è stato previsto che nel Centro-Nord la diminuzione avverrà solo dopo il 2015 (quest’area arriverà a detenere una quota del 71% dei residenti, 5 punti percentuali in più rispetto ad oggi), mentre nel Mezzogiorno, che sarà più pesantemente colpito, la diminuzione della popolazione inizierà con immediatezza.
Anche la prevalenza dei decessi sulle nascite può darsi per scontata nonostante la previsione di un aumento del tasso di natalità: da 1,34 figli per donna nel 2016 a 1,59 entro il 2065. Le nascite diminuiranno a 458 mila unità annue e i decessi aumenteranno a 671 mila l’anno e alla fine il divario raggiungerà e supererà le 300 mila unità l’anno. Il saldo naturale nell’intero periodo 2016-2065 sarà pesantemente negativo, pari a–14,9 milioni di persone. La popolazione sarà più vecchia e più longeva (86,1 anni per gli uomini e 90,2 per le donne) e l’età media si assesterà a oltre 50 anni del 2065. Nel 2065, gli ultrasessantacinquenni incideranno per il 33,1%, la popolazione in età attiva per il 54,8%, i giovani fino a 14 anni per il 12%.
Sempre nell’ipotesi media, si prevede un saldo migratorio positivo quantificato in 150 mila unità (nel 2015 tale saldo è stato positivo ma inferiore a 33 mila unità).
Sulla base dei flussi registrati nel periodo 2010-2014 sono stati previsti arrivi di immigrati provenienti dall’estero inizialmente prossimi alle 300 mila unità/anno, destinato poi gradualmente a scendere a 270 mila unità/anno entro il 2065, per cui nel periodo coperto dalle previsioni complessivamente entrerebbero in Italia 14 milioni di persone mentre a lasciare l’Italia sarebbero 7 milioni.
La posizione subalterna nel mercato del lavoro
Gli occupati con cittadinanza straniera, alla fine del 2016 sono diventati 2.401.000, facendo registrare 42 mila unità in più rispetto al 2015 (+1,8%). L’aumento peraltro interviene, pur con intensità decrescente, per il terzo anno consecutivo. Rispetto al totale, gli occupati stranieri alla fine del 2016 rappresentano il 10,5%. Con riferimento ai settori occupazionali, si sono concentrati per i due terzi nei servizi (66,4%), quindi nell’industria (27,5%) e solo in maniera residuale nel settore agricolo (6,1%, peraltro molto dinamico). Il tasso di occupazione è leggermente risalito (59,5% – è di nuovo in crescita dal 2013) e, seppure più basso rispetto al passato, supera di 2,5 punti percentuali quello degli italiani. Le donne sono il 44,8% degli occupati stranieri (incidenza in calo).
La tipologia dell’inserimento lavorativo degli immigrati non è improntata alla competizione con gli italiani, bensì piuttosto all’occupazione nei ruoli e nelle mansioni meno appetibili o comunque deficitari di manodopera: ciò avviene anche se i cittadini stranieri hanno mediamente livelli di scolarizzazione e formazione simili a quelli degli italiani[[7].
Diversi sono gli aspetti del loro inserimento subalterno. Per quasi i due terzi (65%) svolgono professioni non qualificate o operaie, appena il 6,7% svolge professioni qualificate. Gli immigrati sono spesso sovra istruiti rispetto alle mansioni svolte (lo è il 37,4% contro il 22,2% degli italiani), mentre 1 su 10 è sottoccupato. La loro retribuzione (in media 999 euro netti mensili) è inferiore del 27,2% a quella degli italiani, e l’anzianità di servizio attenua poco questo divario. L’archivio dell’INAIL, a complemento dei dati Istat, rileva che la loro posizione precaria li costringe a stipulare in media quasi due contratti nel corso dell’anno.
Ad impiegare quasi i tre quarti (73,4%) di questi lavoratori sono le micro-imprese, che hanno infatti assorbito l’80,2% dei nuovi assunti. I maggiori spazi occupazionali si trovano in agricoltura e nel basso terziario, ma anche negli altri comparti le mansioni sono solitamente a basso livello. Questo posizionamento marginale non deve portare alla conclusione che il loro apporto allo sviluppo del Paese sia minimale.
Si possono individuare due modelli di inserimento lavorativo fortemente diversi, uno improntato alla saltuarietà e uno alla stabilità, riassunti attraverso due collettività esemplari in tal senso: gli indiani, impiegati per lo più in agricoltura, un settore esposto ad elevata stagionalità; i filippini, inseriti per lo più nell’assistenza domestica e familiare, un comparto in cui il lavoro ha un carattere più continuativo. Tutti, però, esprimono una forte esigenza di tutela come si evince dal crescente ricorso all’assistenza degli istituti di patronato (8 mila uffici sparsi in tutta Italia): gli immigrati sono stati i beneficiari di un quinto dei 14 milioni di interventi del Centro Patronati (Acli, Inas-Cisl, Inca-Cgil, Ital-Uil).
I dati dimostrano inoltre che è infondato, anche se ricorrente, ritenere che dei lavoratori immigrati si potrebbe fare a meno. Essi non solo incidono per un decimo sulla forza lavoro occupata ma in alcuni settori si rivelano maggiormente indispensabili:
• agricoltura: i 345.015 lavoratori nati all’estero [8] hanno svolto il 25% delle giornate lavorative dichiarate nel 2016. Il settore resta però esposto allo sfruttamento, nonostante per contrastarlo sia stata varata una legge più severa (Legge n. 199/2016) [9];
• lavoro domestico: sono 739 mila gli occupati nel 2016 [10] di cui i tre quarti stranieri. Nell’ultimo biennio, mentre i lavoratori stranieri sono diminuiti di 54 mila, vi è stato un lieve aumento del personale italiano (+12 mila);
• settore turistico: presso le 312 mila imprese complessivamente operanti nel comparto nel 2014, si contano 1,7 milioni di posti di lavori diretti e 900 mila dell’indotto [11]; i nati all’estero occupati in alberghi e ristoranti (242.447) hanno inciso per il 23,2% su tutti gli occupati del settore (oltre il 28,5% sui soli nuovi assunti) [12].
Il mercato occupazionale italiano è sempre più internazionalizzato grazie alla consistente quota di lavoratori nati all’estero (in parte anche italiani rimpatriati): essi sono stati, nel 2016, il 16,6% tra tutti gli occupati, il 25,4% tra quanti hanno rinnovato o firmato un nuovo contratto e ben il 31,8% tra coloro che sono stati assunti per la prima volta nel corso dell’anno; hanno invece inciso per il 24,9% tra coloro ai quali è stato rescisso il contratto [13].
Si può ritenere che gli immigrati abbiano costituito di fatto una sorta di ammortizzatore sociale per gli italiani, in quanto, come mostrano i dati, i primi più dei secondi hanno pagato gli effetti della crisi. Dal 2008 al 2016 il tasso di occupazione degli stranieri è diminuito di 7,4 punti percentuali (contro 1,1 degli italiani) e il tasso di disoccupazione è aumentato di più (+6,9 punti percentuali contro 4,6 punti). Nel 2016 la disoccupazione straniera è leggermente diminuita (ma non nel Mezzogiorno), sia in valori assoluti (437 mila i disoccupati, 19 mila in meno in un anno) che in valori percentuali (il tasso di disoccupazione è 15,4%, quasi il doppio di quello all’inizio della crisi; per gli italiani è 11,2%). Le donne prevalgono tra i disoccupati (51,5%), tra i quali il 45,3% ricopre il ruolo di genitore. A impiegare quasi i tre quarti (73,4%) degli immigrati occupati in Italia sono le micro-imprese (quelle fino a un massimo di 9 addetti), seppure a bassa tecnologia e scarsamente concorrenziali.
Meritevole di attenzione è anche il fatto che molto spesso gli immigrati, dopo una prima fase in cui si inseriscono in un settore di lavoro dipendente, diventano imprenditori creando così del lavoro non solo per se stessi, ma anche per altri (non solo cittadini stranieri). Tra gli occupati stranieri il 13,4% svolge un lavoro autonomo-imprenditoriale (tra i quelli cinesi il 50,4%). Alla fine del 2016 sono 571.255 le imprese a gestione immigrata, di cui 453 mila a carattere individuale: nell’anno sono aumentate del +3,7%. All’opposto, nello stesso periodo, le imprese gestite da italiani (peraltro da anni in diminuzione) fanno registrare un calo dello 0,1%; l’ incidenza delle imprese straniere sul totale sfiora il 10% (9,4%), ma sale al 16,8% tra le nuove imprese. È alta anche la percentuale di imprese immigrate su quelle che cessano l’attività (12,0%), per cui, nell’insieme, per le imprese straniere si evidenzia una maggiore vitalità e un più elevato turn over. Nonostante il non positivo andamento del mercato occupazionale in Italia, a indicare il dinamismo degli immigrati nel settore è soprattutto il fatto che le loro imprese siano aumentate ininterrottamente anche negli anni di crisi e, per di più, una stima realistica porta a ritenere che oggi esse impieghino circa mezzo milione di dipendenti.
Non bisogna sottovalutare questa diffusa vocazione imprenditoriale, anche se attualmente per lo più di modeste dimensioni e a carattere individuale. Il “MoneyGram Award”, un premio promosso dal 2008 in collaborazione con strutture pubbliche, organizzazioni professionali del settore imprenditoriale e strutture di ricerca, ha posto in evidenza delle vere e proprie realizzazioni di eccellenza, che si distinguono per la capacità organizzativa e tecnologica, oltre che per l’aggancio con i Paesi di origine.
Aspetti collegati con l’occupazione degli immigrati
I lavoratori stranieri, secondo la stima (relativa al 2015), riportata nel Dossier Statistico Immigrazione di Idos e commentata dalla Fondazione Leone Moressa, hanno prodotto una ricchezza di 127 miliardi di euro, vale a dire l’8,8% della ricchezza complessiva italiana prodotta in quell’anno e hanno dichiarato in media redditi di 11.752 euro annui a testa, per un ammontare complessivamente pari a 27,3 miliardi di euro. Essi hanno versato Irpef per 3,2 miliardi di euro; in media 2.265 euro a testa (gli italiani 5.178 euro a testa). Gli immigrati assicurano un gettito rilevante alle casse dell’INPS e secondo alcune stime recano allo Stato somme più elevate rispetto a quelle che le casse pubbliche spendono per loro.
È in continua crescita anche l’utilizzo dello strumento bancario da parte degli immigrati: i conti correnti intestati a cittadini stranieri presso le banche italiane e BancoPosta nel 2015 erano 2.515.100 (dato del Cespi), afferendo al 73% della popolazione straniera in età adulta residente nel nostro Paese. Pur attenendosi al metodo più restrittivo nel calcolare quanto gli immigrati sono costati alle casse pubbliche e quanto hanno versato, risulta che il beneficio per l’erario nel 2015 è stato superiore a 2 miliardi di euro (tra 2,1 e 2,8 miliardi). Similmente, ricerche condotte nel Regno Unito attestano che gli immigrati, nel periodo tra il 2004 e il 2014, abbiano contribuito più di quanto siano costati alle casse pubbliche anche di quel Paese, con un avanzo positivo pari a 25 miliardi di sterline.
Dal punto di vista previdenziale gli immigrati non sono a costo zero in quanto sono percettori di diverse prestazioni (integrazioni salariali, indennità di disoccupazione e interventi di sostegno al nucleo familiare), anche pensionistiche. Tuttavia è minima la loro incidenza sulla spesa pensionistica (quella più elevata rispetto alle altre voci): meno dell’1%. In particolare, nel 2016 sono stati 43.830 gli immigrati extra comunitari titolari di pensione su un totale di 14.114.464 di pensionati, appena 1 ogni 3 mila.
Secondo il presidente dell’Inps Tito Boeri, in base ai calcoli nel Rapporto annuale dell’Istituto del 2016 se i flussi in entrata di immigrati dovessero all’improvviso fermarsi, nei prossimi 22 anni l’Italia ne risentirebbe pesantemente. È vero che da una parte il Paese spenderebbe 35 miliardi in meno in prestazioni sociali destinate agli immigrati ma, dall’altra, percepirebbe 73 miliardi in meno di entrate contributive, e ciò determinerebbe una perdita netta complessiva stimabile in 38 miliardi di euro che, in assenza di una manovra annuale aggiuntiva a copertura del disavanzo, porterebbe al fallimento dell’Istituto previdenziale.
A livello mondiale, i migranti con le loro rimesse verso i Paesi in via di sviluppo (429 miliardi di dollari nel 2016, 11 miliardi in meno rispetto al 2015) sostengono circa 800 milioni di familiari (ben uno ogni sette degli individui che compongono la popolazione mondiale). In Italia i 5,6 miliardi di rimesse inviati all’estero nel 2016 risultano in diminuzione rispetto all’anno precedente. Lo sono in realtà da 6 anni a questa parte: nel 2011 si trattava di 7 miliardi di euro. Circa la metà di questo flusso va nelle aree rurali, quelle più povere.
Bisogna anche aggiungere che, per un Paese trasformatore e dedito all’export come l’Italia, gli immigrati costituiscono un supporto importante, con la loro vastissima rete di familiari, parenti, conoscenti, in grado di accreditare il valore dei prodotti italiani all’estero e di favorire la crescita dei rapporti commerciali con i Paesi di origine; progresso di cui, secondo alcuni studi, si stanno già constatando gli effetti.
I dati riportati sin qui convalidano la teoria di studiosi secondo i quali il fenomeno delle migrazioni per lavoro dovrebbe garantire un triplice beneficio: per gli stessi migranti innanzitutto (seppure a costo di notevoli sforzi), ma anche per il Paese di accoglienza e per quello di origine. Con ciò non si vuole negare, ovviamente, che per gli stessi sussistano anche degli aspetti problematici.
Un sano realismo porta a dire che in Italia, vista anche l’attuale congiuntura economica sfavorevole, per un certo periodo occorrerà stringere i denti, per far fronte a una situazione impegnativa, peggiorata da diversi condizionamenti di natura strutturale. Tuttavia, con pazienza e grande tenacia, bisogna adoperarsi per preparare un futuro più accettabile: per gli italiani stessi, per i migranti e per i Paesi di origine.
Si tratta di gestire una situazione complessa ma non ingovernabile, per la quale i progressi sono possibili ma non scontati: occorre saper cavalcare il contingente, individuandone i punti di forza e non solo patendone (o temendone) gli aspetti più critici.
Il contesto europeo, assolutamente non soddisfacente, può essere migliorato ma a tal fine è necessaria una forte pressione, anche da parte dell’Italia, sugli altri Stati Membri attraverso gli Organi dell’Unione europea affinché venga accettata la nuova linea in materia di politica migratoria proposta dal Parlamento Europeo, dimostratosi più sensibile alle istanze italiane.
In Italia, invece, si rivela sempre più indispensabile il raggiungimento di un minimo comune denominatore tra le posizioni degli schieramenti politici, che favorisca un’efficace e più umana applicazione della normativa sui fenomeni immigratori, in stretta collaborazione con il mondo sociale. Occorre puntare ad esempio su prassi innovative, come quella dei “corridoi umanitari”, apprezzata da diversi Stati Membri.
A livello sia europeo, che nazionale, bisogna continuare a insistere sulla collaborazione con i Paesi di origine e di transito dei migranti, non solo ai fini del contrasto dei trafficanti di manodopera, ma anche per le politiche di co-sviluppo.
Le decisioni dei politici si basano spesso sull’orientamento prevalente della società, che sovente è condizionato da un’attenzione esagerata dei media nei confronti degli aspetti problematici di fenomeni come l’immigrazione. Aspetti che esistono, è vero, ma la cui percezione (più o meno indotta) nell’opinione pubblica spesso non corrisponde alla realtà. L’atteggiamento ostile agli immigrati di molti cittadini è anche il frutto di dati e documentazione incompleti, talvolta anche tendenziosi. A volte sembra basarsi su un’attenzione, certamente di corto respiro, che pone il centro solo nei propri, personali, interessi. Questa situazione, peggiorata rispetto al passato, è imputabile anche ad una carenza di sensibilizzazione dei più: per molti l’informazione purtroppo è appannaggio esclusivo delle reti televisive e radiofoniche e dei social su Internet, che inevitabilmente tendono a semplificare e inseguono ciò che può fare “audience”: anche riguardo l’accoglienza dei profughi, che non può semplicisticamente essere dipinta come “un’invasione”, come i numeri dimostrano.
Le politiche di accoglienza saranno del resto in larga misura inadeguate se non verranno accompagnate da una più incisiva politica occupazionale (e anche di formazione professionale): pur essendoci bisogno in Italia di immigrazione sul piano demografico, se non si tornerà a creare posti di lavoro gli immigrati saranno destinatati ad aumentare la massa dei disoccupati.
Dal punto di vista concettuale è assodato che il fenomeno migratorio non può essere considerato la soluzione globale di tutti i problemi riguardanti i Paesi di accoglienza e quelli di origine. Tuttavia, le migrazioni internazionali sono già di per sé una re-impostazione dal basso di un nuovo governo del mondo. In considerazione della loro diffusione globalizzata, delle persone coinvolte, delle risorse sottostanti e delle prospettive che ne possono derivare. Le implicazioni positive, tuttavia, si realizzano solo se affiancate da adeguate, lungimiranti, politiche a livello nazionale e internazionale.
Il ruolo dei ricercatori non si sovrappone a quello dei decisori pubblici. A questi, come ai cittadini, il ricercatore si impegna a presentare le questioni con la massima oggettività, con un ampio ricorso alle statistiche, come in questo articolo si è cercato di fare.
Vale la pena di concludere con una considerazione di natura geopolitica che probabilmente non si rivelerà del tutto infondata un giorno e che vuole anche essere un auspicio. A metà del XXI secolo, quando l’Unione europea inciderà solo per il 5% sulla popolazione mondiale e l’Africa per il 25%, la vicinanza di un continente così popolato e così ricco di risorse (nella speranza che nel frattempo riesca a risolvere diversi suoi problemi) potrà costituire per gli europei un grande vantaggio: forse così, finalmente, il Mediterraneo cesserà di rappresentare per i migranti un triste, vasto cimitero e per i Paesi di accoglienza una fonte di grandi preoccupazioni. Nel segno di una mobilità umana, forse anche più intensa rispetto ad oggi, ma più ordinata e fruttuosa e meglio tutelata.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
[*] Gli Autori sono stati accomunati dal fatto di aver collaborato, con propri capitoli, all’edizione del Dossier Statistico Immigrazione 2017. Il Dossier, negli ultimi anni è stato realizzato da Idos con la collaborazione del Centro studi Confronti e con il sostegno dei fondi Otto per Mille della Tavola Valdese – Unione delle Chiese valdesi e metodiste. I dati riportati nel Dossier, ai quali qui si fa riferimento, vengono utilizzati nella campagna di sensibilizzazione che l’Ong Amref, insieme a diverse altre organizzazioni, sta conducendo nell’ambito del progetto “Senza Confine” supportato dall’Agenzia italiana.
Note
[1] Fonte: Istat, bilancio della popolazione residente straniera – anno 2016 e ricostruzione dei bilanci della popolazione straniera tra i Censimenti del 2001 e del 2011 – anno 2007.
[2] Fonte: Eurostat Database: http://ec.europa.eu/eurostat/data/database .
[3] Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del \14 dicembre 2016..
[4] Istat – Bilancio demografico nazionale – Anno 2016
[5] Il Dossier Statistico Immigrazione riferisce anche che il 2016 è stato un anno di grande esodo per gli italiani: si sono cancellati dalle anagrafi comunali 115.000 ma, secondo stime basate sugli arrivi registri all’estero (specialmente in Germania e nel Regno Unito) a emigrare in tale anno sarebbero stati ben 285.000.
[6] Le ultime previsioni sono del 3 aprile 2017: https://www.istat.it/it/files/2017/04/previsioni-demografiche.pdf)
[7] Cfr. Idos, Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Le migrazioni qualificate in Itala, Edizioni Idos, Roma, 2016. Una registrazione sistematica del livello di istruzione e del titolo di studio delle persone così giunte nel nostro Paese consentirebbe di utilizzare i fondi europei per la loro formazione professionale: lo standard di accoglienza che si riesce ad assicurare è fondamentale ai fini dell’integrazione di queste persone nel mercato del lavoro e, più in generale, nella società italiana.
[8] Fonte: stima Idos basata sui dati Inps.
[9] Legge 29 ottobre 2016, n. 199 “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”.
[10] Fonte: Istat, Indagine campionaria sulle Forze di lavoro
[11] Dati Trademark Italia– 2016
[12] Dati INAIL sulle comunicazioni obbligatorie
[13] Dati INAIL sulle comunicazioni obbligatorie.
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Mauro Albani, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Statistica, con formazione di tipo statistico-demografico e esperienza nel trattamento e nell’analisi di dati di fonte amministrativa in ambito demografico e sociale. Dal 2006, presso il “Servizio Registro della popolazione, statistiche demografiche e condizioni di vita”, si occupa di dati sulla popolazione straniera residente e sulle migrazioni. Su questi temi ha svolto attività di ricerca e pubblicato su riviste nazionali e internazionali, presentato contributi a convegni e conferenze, svolto attività di docenza, collaborato con istituzioni pubbliche e private nell’ambito di convenzioni, progetti specifici e tavoli di lavoro.
Zsuzsanna Pásztor, ricercatrice ungherese operante a Roma, ha conseguito una Laurea quinquiennale in Psicologia (con specializzazione in Psicologia Interculturale) ed una Laurea in Economia (con specializzazione in No-Profit Management) a Budapest. Nel 2016 ha conseguito un Dottorato di Ricerca i in Sociologia e Scienze Sociali Applicate presso l’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sulle migrazioni. A partire del 2008 ha ampliato la sua esperienza sul campo (specialmente tra i rifugiati e altri gruppi vulnerabili) e ha collaborato con il Centro Idos per diverse ricerche.
Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino ad oggi, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico.
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