In 72 nazioni è possibile essere imprigionati, violentati o torturati solo perché si è gay, lesbiche, bisessuali o transgender. In 27 di questi Paesi le leggi si applicano solo agli uomini, negli altri anche alle donne. La percentuale degli Stati che rientra in questa lista è circa un terzo dei Paesi del mondo, pari al 37%. Sono i dati forniti dall’ILGA nel Rapporto sull’omofobia sponsorizzata dallo Stato (Carroll, Mendos, 2017) che denuncia ogni anno l’omofobia istituzionalizzata e pubblica le mappe delle leggi sull’orientamento sessuale di ogni nazione. Per produrre il rapporto, i ricercatori si sono confrontati con le organizzazioni locali e hanno verificato le legislazioni che riguardano l’orientamento sessuale e le Costituzioni dei 193 Paesi delle Nazioni Unite, oltre Taiwan e Kosovo.
Leggi contro la sodomia, oltraggi contro natura e contro il pudore, disturbo dell’ordine pubblico, sono alcune delle motivazioni che criminalizzano i rapporti tra persone adulte e consenzienti dello stesso sesso. Le persone lgbt sono perseguitate perché le loro relazioni private sono considerate un pericolo sociale, per questo possono essere condannate anche alla pena capitale in 8 Paesi: in Iran, Arabia Saudita, Yemen e Sudan la pena di morte viene applicata a livello nazionale, in Somalia e Nigeria è prevista solo in alcune province mentre nelle regioni dell’Iraq e della Siria, controllate dallo Stato Islamico, la pena capitale non viene eseguita direttamente dal governo ma è sottomessa alla Sharia [1]. Altri Stati prevedono la pena di morte, in questi casi però non la mettono in pratica, limitandosi alla detenzione o a sanzioni pecuniarie.
Le violenze documentate dagli attivisti dei diritti umani sono delle più varie: aggressioni verbali e fisiche; maltrattamenti da parte delle forze di polizia; torture e abusi in carcere; donne stuprate per curare la loro identità lesbica; uomini sottoposti a test anali per verificare la loro omosessualità; perdita della custodia dei bambini; bullismo omofobo; difficoltà a trovare casa, lavoro e assistenza medica (Amnesty International, 2003). Anche nei Paesi dove non vi sono leggi specifiche che puniscono l’omosessualità, le persone lgbt vivono in condizioni difficili a causa del contesto culturale ostile che non approva socialmente ciò che può tollerare privatamente.
Un gruppo di ricercatori coordinati da Monia Lachheb ha pubblicato uno studio sulla vita degli omosessuali nel Maghreb, mostrando come le persone lgbt siano costrette a negoziare i gesti del vivere quotidiano, occultando il loro orientamento con diverse strategie (Lachheb, 2016). Nella vita ordinaria questi soggetti applicano alcuni sistemi di camuffamento della loro identità, così ad esempio le lesbiche tunisine praticano alcuni sport per dissimulare la propria omosessualità, riuscendo ad aggirare norme comportamentali e di abbigliamenti differenti rispetto a ciò che la loro cultura impone. Sebbene in Tunisia, Algeria e Marocco i rapporti omosessuali costituiscano fattispecie di reato, ciò non impedisce alle persone di intraprendere delle relazioni; piuttosto è proprio il contesto socioculturale che prevede spazi riservati a soli uomini o sole donne che facilita il contatto tra persone dello stesso sesso. Così è molto più facile per un uomo intrattenersi con un altro uomo piuttosto che con una ragazza, e lo stesso vale per le donne. Si tratta di rapporti che restano confinati esclusivamente nel chiuso di una stanza e condannati socialmente se scoperti [2].
Coloro che si allontanano dal proprio Paese perché perseguitati per l’orientamento sessuale o l’identità di genere rischiano di essere nuovamente vittima di discriminazione nel momento in cui rivelano la propria storia. Per questo motivo un migrante lgbt spesso non racconta il vero motivo della fuga agli operatori e agli altri ospiti del centro d’accoglienza per paura di ulteriori ritorsioni, senza sapere che esiste per lui una specifica tutela.
Nel 2011 le Nazioni Unite hanno approvato la prima risoluzione che sostiene i pari diritti tra tutte le persone a prescindere dal loro orientamento sessuale [3]. Anche la Comunità Europea ha svolto negli ultimi anni un’azione di sensibilizzazione mirante al riconoscimento inclusivo e totale delle persone lgbt, al loro sostegno sul piano istituzionale e comunitario attraverso l’estensione dei diritti civili. Secondo le direttive dell’Unione, i Paesi devono adattare i servizi sociali, sanitari e comunitari alle problematiche delle persone lgbt e delle minoranze etnico-culturali, dando spazio a soluzioni differenziate e servizi personalizzati. Non tutti hanno comunque applicato queste direttive comunitarie, ostacolando in certi casi le richieste d’asilo. Amnesty International ha denunciato che nell’ultimo anno 36 Paesi hanno violato il diritto internazionale rimandando illegalmente rifugiati in Stati dove i loro diritti umani sono in pericolo (Amnesty International, 2017).
Come noto, la Convenzione di Ginevra del 1951 stabilisce i diritti dei rifugiati basandosi sull’articolo 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che riconosce la richiesta d’asilo delle persone che fuggono dalle persecuzioni in altri Paesi. L’Italia prevede il diritto d’asilo allo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione all’articolo 10. Dopo una serie di esperienze d’accoglienza decentrate, nel 2001 si è siglato per la prima volta un protocollo d’intesa per la realizzazione di un Programma nazionale d’asilo con il coinvolgimento delle istituzioni centrali e locali. La legge n.189/2002 ha poi definito le misure di accoglienza organizzata, prevedendo la costituzione del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), divenuto l’asse portante dell’attuale sistema d’accoglienza disposto dal decreto legislativo n.142/2015 [4]. Con l’emanazione di quest’ultima legge si è attuata la direttiva 2013/33/UE che prevede particolare attenzione anche per i rifugiati lgbt attraverso la trattazione specifica delle richieste SOGI (Sexual Orientation and Gender Identity), ovvero le domande di asilo per motivi riguardanti l’orientamento sessuale e l’identità di genere.
La legge prevede garanzie procedurali e servizi orientativi di consulenza per le persone che hanno subìto violenza fisica, sessuale o psicologica. In particolare, l’articolo 17 parla di «accoglienza di persone portatrici di esigenze particolari», tenendo conto della condizione delle persone vulnerabili e includendo tra esse «le persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o legata all’orientamento sessuale o all’identità di genere». Per questi motivi sono previsti servizi specifici svolti in collaborazione con le ASL: «tali servizi garantiscono misure assistenziali particolari ed un adeguato supporto psicologico» [5].
Con tali provvedimenti si è cercato di ricondurre ad una governance la procedura di accoglienza che era prima gestita in ottica emergenziale, tenendo conto anche delle peculiarità dei singoli casi, per effettuare una gestione ottimale e programmabile di tutti gli interventi a supporto dei richiedenti asilo, comprese quelle esigenze particolari di cui le persone lgbt sono portatrici. Nonostante ciò, l’ordinamento italiano non condanna esplicitamentele violenze verso i soggetti lgbt come reati di natura discriminatoria. Questa lacuna legislativa è stata evidenziata dalle organizzazioni per i diritti umani, che da anni chiedono alle autorità italiane di considerare i crimini motivati da discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere alla stregua di quelli fondati su altro tipo di discriminazione, come razza, nazionalità, etnia e religione, già puniti dalla Legge Mancino n. 205/1993.
Un progetto di ricerca quadriennale denominato SOGICA [6], promosso dall’Università del Sussex e finanziato dall’European Research Council (ERC), sta esplorando le richieste SOGI in una prospettiva socio-giuridica, riscontrando che le violazioni dei diritti lgbt, pari a migliaia di casi ogni anno in Europa, sono alla base di un numero crescente di domande di protezione internazionale. Queste richieste d’asilo sono talvolta trattate in modo insensibile, secondo informazioni culturali e giuridiche inappropriate. Il livello elevato di rifiuto delle loro domande e le particolari difficoltà a sostanziare tali richieste in relazione alla credibilità, alla ricollocazione e alla discrezione, ha portato i ricercatori ad analizzare nel dettaglio le domande SOGI effettuate in tre Paesi individuati come casi studio: Italia, Germania e Regno Unito. Il progetto adotta un approccio comparativo ed empirico, basato sull’intersezionalità e l’interdisciplinarità, avendo come riferimento i diritti umani, gli studi femministi e queer. Con questa ricerca si sta così valutando l’efficienza e l’imparzialità dei sistemi di protezione per trattare le richieste in maniera più equa e offrire soluzioni appropriate ai casi.
Per quanto la legislazione vigente abbia fatto molti passi avanti, la questione si scontra con varie problematicità nella sua applicazione. La consapevolezza dell’esistenza di persone lgbt anche tra i rifugiati non sempre è accompagnata da un supporto mirato e concreto, come previsto per legge. L’accettazione delle domande d’asilo da parte dei migranti che fuggono da Paesi in cui l’omosessualità è condannata pone difficoltà nell’accertamento della situazione, in quanto gli si chiede di produrre delle prove. Per una persona che non parla la lingua del Paese ospitante e che non ha contatti esterni al di fuori dei suoi connazionali, risulta molto difficile produrre tali prove al fine dell’ottenimento dello status di rifugiato. Inoltre, imigranti lgbt si trovano spesso a rivivere nei centri di accoglienza le stesse dinamiche di omofobia, emarginazione e minority-stress che subivano nei loro Paesi di origine. Sono persone abituate a nascondere da sempre il proprio orientamento e con disagio parlano di omosessualità agli stessi operatori sociali.
Occorre perciò identificare correttamente i termini della quaestio, che non vuol dire soltanto dare parole a quell’amore che non osa pronunciare il proprio nome, come diceva Oscar Wilde, ma anche entrare nella mentalità e nel modus vivendi di un’altra cultura. Alcuni musulmani considerano l’omosessualità un prodotto d’importazione occidentale e anche coloro che hanno relazioni con persone dello stesso sesso rifiutano spesso di identificarsi nell’immagine del gay occidentale perché non condividono gli stereotipi dell’omosessuale bianco ed europeo. Esistono molti modi di essere e definirsi gay, lesbica, bisex, trans, queer, uomo, donna, cristiano, islamico, laico, e nessuna di queste identità può escluderne altre.
La conoscenza è un processo che cerca di ricondurre il caos nel cosmo per dare un ordine al disordine: assegnare un nome alle cose, ritagliando dei discreta dall’unicum continuum del reale, come ci insegna Einstein anche relativamente al tempo, è la prima operazione culturale che l’essere umano compie per affrancarsi dall’ignoto (Buttitta, 1996). La sessualità delle persone lgbt rappresenta per molti un territorio sconosciuto, non riconducibile ad uno schema ordinario e ordinato. L’omofobia cela quindi timori che dicono molto delle paure identitarie di chi gli sta di fronte, rappresentando il ritorno del caos, dal terrore della contaminazione ed assimilazione sino al rifiuto di una sessualità repressa.
Una persona migrante lgbt personifica quindi una doppia alterità: la diversità propria di ogni straniero e quella delle differenti forme di sessualità inesplorate. Il negato riconoscimento sociale comporta pure una doppia discriminazione: quella della comunità originaria e quella della comunità ospitante, ivi comprese quella delle persone lgbt suoi simili che, nonostante l’affinità elettiva, stigmatizzano ugualmente il migrante in quanto straniero. A volte sono gli stessi operatori sociali che consigliano ai rifugiati lgbt di non parlare della propria condizione per evitare rischi di ulteriore discriminazione.
Tutto ciò può aumentare il malessere del migrante che rimane isolato non sentendosi compreso nella sua identità. Per facilitare le pratiche di mediazione interculturale e dare legittimità alle loro richieste è dunque fondamentale il riconoscimento delle loro soggettività, affinché si attui quell’accoglienza e assistenza adeguata agli standard a cui si ispira la legge. Come sempre, i buoni princìpi devono essere supportati da buone pratiche in cui ognuno può fare la differenza. Queste raccomandazioni riguardano tutti gli operatori, specialmente le forze dell’ordine, prima interfaccia del migrante, come evidenziato anche nel Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2017 redatto in collaborazione con l’UNHCR:
«Alle frontiere ribadiamo un approccio orientato alla tutela dei diritti umani […] che venga predisposto un programma di formazione e aggiornamento a livello europeo, rivolto soprattutto alle forze di polizia di frontiera e di pattugliamento, nel quale possano essere inseriti moduli che favoriscano la conoscenza della specificità dei migranti forzati ed in particolare delle categorie più vulnerabili» (Anci, Caritas, Cittalia, Migrantes, Sprar, 2017:11).
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Riferimenti bibliografici
Amnesty International, Identità negata. La discriminazione sessuale nel mondo, Gruppo Abele, Torino, 2003
Amnesty International, Rapporto 2016-2017. La situazione dei diritti umani nel mondo, Infinito Edizioni, Roma, 2017
Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes, Servizio Centrale dello Sprar, in collaborazione con UNHCR, Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2017, Gemmagraf, Roma, 2017
Buttitta A., Dei segni e dei miti. Una introduzione alla antropologia simbolica, Sellerio, Palermo, 1996
Carroll A. and Mendos L.R., International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association, State Sponsored Homophobia 2017. A world survey of sexual orientation laws: criminalisation, protection and recognition, Geneva, ILGA, May 2017
Lachheb M., Etrehomosexuel au Maghreb, Karthala, Paris, 2016.
Sitografia
[1] http://ilga.org/
[2]http://eastwest.eu/it/opinioni/open-doors/omosessualita-e-diritti-nel-maghreb-algeria-e-tunisia
[3] http://arc-international.net/wp-content/uploads/2011/08/HRC-Res-17-191.pdf
[4] https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2017/10/Rapporto_2017_web.pdf
[5] http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/09/15/15G00158/sg
[6] http://www.sogica.org/
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Fabio Franzella, laureato in Beni Demoetnoantropologici e specializzato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli studi di Palermo, attivista dei diritti umani, è stato responsabile di un gruppo di Amnesty International e fa parte del Comitato organizzatore delle veglie ecumeniche per il superamento dell’omofobia e della transfobia di Palermo. È mediatore culturale di Addiopizzo, impegnato a promuovere un’immagine della Sicilia che vuole liberarsi dalla mafia. Attualmente vive a Milano e lavora presso Altroconsumo
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