di Chiara Dallavalle
Le Alpi sono oggi soggette a due fenomeni strettamente interconnessi ma al tempo stesso di segno profondamente diverso. Entrambi hanno a che fare con i flussi migratori che attraversano la nostra Penisola e che percorrono il bacino del Mediterraneo raggiungendo gli angoli più estremi dell’Europa. Entrambi hanno come attori principali quegli uomini e quelle donne che tentano l’assalto alla Fortezza Europa, ormai sempre più frammentata al proprio interno e segnata da politiche nazionali spesso ben poco inclusive.
Se il Mediterraneo continua ad essere l’ultimo grande valico da oltrepassare prima di giungere in Europa, in realtà le restrizioni al libero movimento dei migranti imposte dai singoli Paesi europei rendono ancora estremamente reali anche le frontiere interne. Il caso della Francia è in questo senso emblematico. Da oltre un anno il confine di Ventimiglia è oggetto di ripetuti tentativi di attraversamento da parte di tutti coloro che intravedono nella Francia un’opportunità di radicamento migliore che in Italia. Nel momento in cui il Governo francese ha interrotto unilateralmente la libertà di movimento assicurata dal Trattato di Schengen, il confine di Ventimiglia è diventato improvvisamente un muro invalicabile per tutti i cittadini extracomunitari. I fatti di cronaca della scorsa estate testimoniano sia la tenacia con cui i migranti assediano e presidiano quel lembo estremo d’Italia, sia l’epilogo spesso tragico di molte delle loro storie.
Constatata la reale difficoltà di attraversamento di quella linea di confine, essa è stata recentemente affiancata da un’altra via, non meno perigliosa: l’attraversamento del confine al Monginevro. Dalla scorsa estate lungo le pendici italiane delle Alpi Cozie quasi quotidianamente si intravedono puntini minuscoli in marcia verso il versante francese: sono quei migranti che tentano la traversata, spesso in condizioni disperate, senza l’attrezzatura adatta né le conoscenze della montagna necessarie per valicare in sicurezza. E non si fanno trattenere nemmeno dall’arrivo della cattiva stagione: per tutti i mesi invernali, sia la polizia italiana che quella francese hanno pattugliato il valico intercettando numerosi stranieri in procinto di entrare in Francia, molti dei quali in condizioni fisiche disperate a causa dell’esposizione al freddo intenso e alla neve, che quest’inverno è caduta copiosa [1].
La presenza dei profughi lungo la via del Monginevro ci ricorda che le montagne, che per millenni sono state terra di contatto e di passaggio, possono all’improvviso tornare ad essere una frontiera, un muro capace di chiudere fuori attraverso la propria naturale inaccessibilità. Le Alpi diventano allora un nuovo confine tra quei Paesi europei che declinano diversamente la mobilità delle persone all’interno dell’EU. Non è quindi sufficiente aver attraversato l’altra grande barriera geografica, il mare, per avere finalmente approdo in Europa. Per coloro che intendono muoversi a Nord, è necessario l’attraversamento di un’ulteriore frontiera altrettanto minacciosa, soprattutto nei mesi invernali, da sempre temuta dagli autoctoni e quindi doppiamente pericolosa per coloro che montanari non sono.
Ma se le Alpi rimangono terre di transito e nella loro versione più estrema luoghi di esclusione, oggi esse stanno diventando sempre più spesso anche la destinazione finale per molti migranti, che, volenti o nolenti, vengono destinati a strutture di accoglienza situate in comuni montani. Il ricchissimo panorama dell’accoglienza in Italia comprende ormai scenari anche molto differenti tra loro, e vede il fiorire di strutture di accoglienza anche in territori fino a questo momento soltanto scalfiti dalla presenza dei profughi. Se nel decennio precedente sono stati soprattutto i centri urbani di grandi e medie dimensioni ad accogliere la maggior parte dei migranti forzati, Milano, Torino e Roma in testa, oggi sono i territori più remoti ad aprire le proprie porte. Le zone montane ne sono un esempio perfetto.
Negli anni il numero dei profughi ospitati in comuni montani è aumentato considerevolmente, anche grazie alla spinta di parecchie pubbliche amministrazioni che, partendo dalle assegnazioni effettuate dalle Prefetture, hanno saputo strutturare intelligenti percorsi di integrazione calibrati sui propri territori. In molteplici occasioni le esperienze di collocamento dei profughi in questi territori hanno inizialmente avuto il carattere dell’obbligatorietà senza che né la popolazione locale, né tanto meno i migranti, avessero avuto modo di esprimersi in proposito. Entrambi si sono quindi trovati a convivere forzatamente, con le inevitabili conseguenze a livello di frizioni e tensioni sociali.
Vi sono tuttavia numerose esperienze di accoglienza ben riuscita, proprio laddove i territori locali, attraverso il ruolo di Amministrazioni Pubbliche lungimiranti e un capace Terzo Settore, sono stati in grado di rendere l’arrivo dei migranti un’occasione di rinnovamento per il contesto locale in senso ampio. Contrariamente a quanto propagandato in modo strumentale da una certa parte politica, nelle zone montane soggette a processi di forte spopolamento l’arrivo dei migranti può rappresentare un’opportunità importante per invertire il trend demografico e ridare linfa vitale a settori dell’economia locale altrimenti in declino. Paradossalmente la montagna offre possibilità di insediamento per certi versi maggiori rispetto ai grandi centri urbani della pianura. Uno di questi aspetti favorenti è proprio la rarefazione delle relazioni sociali provocata dal progressivo spopolamento, che, se da un lato tende ad aumentare la coesione identitaria tra i nativi a discapito dei nuovi arrivati, dall’altro apre spazi di inclusione maggiore anche verso gli esterni proprio per permettere la sopravvivenza complessiva del sistema.
Un altro fattore che genera attrattività verso le zone montane è la frequente presenza di alloggi a costi calmierati. In una fase del mercato abitativo in cui i prezzi degli alloggi spesso non sono sostenibili dalle famiglie a basso reddito, rendendo così la casa un bene di lusso, le abitazioni di montagna rappresentano sicuramente un’alternativa appetibile. A questo si aggiunge il fatto che l’economia delle terre alte spesso vede la presenza di mestieri ormai abbandonati dagli autoctoni, creando così una nicchia occupazionale in cui i migranti si inseriscono volentieri [2]. Per questa ragione l’arrivo dei profughi può rappresentare un’opportunità di non poco conto per rimettere in moto settori economici locali deboli o sottosviluppati, attraverso la canalizzazione di risorse, anche finanziarie, legate all’attivazione di percorsi di accoglienza.
Gli esempi virtuosi in tal senso non mancano. Uno per tutti è rappresentato dalla Val Camonica, in cui, grazie alla sinergia tra enti locali e terzo settore, si è realizzata l’accoglienza di numeri importanti di migranti con un impatto relativamente basso sul tessuto sociale del contesto locale, e addirittura la creazione di nuovi posti di lavoro anche per i locali. Il segreto? L’accoglienza diffusa attraverso piccoli appartamenti anziché in grandi centri – ghetto, che diluisce la presenza dei profughi sul territorio permettendo alla popolazione locale di familiarizzare con i migranti attraverso interazioni quotidiane, senza il senso di sopraffazione che deriva invece da presenze massive. Lo SPRAR ha capito bene che la logica dei grandi numeri non funziona, e difatti da decenni privilegia le piccole strutture dislocate in modo capillare su tutto il territorio nazionale. Il sistema dei CAS ha solo in parte recepito questo orientamento, ma anche in questo ambito iniziano a registrarsi e prime esperienze positive.
Ma l’accoglienza diffusa nelle zone di montagna necessita di un elemento ulteriore per rappresentare una reale opportunità di innovazione del territorio, ovverosia il coinvolgimento diretto delle popolazioni locali nei percorsi di accoglienza. Diluire la presenza dei profughi in modo che il rapporto numerico con i residenti si mantenga basso sicuramente aiuta a diminuire il livello di ansia e opposizione nei confronti dei nuovi arrivati consentendo così una maggiore apertura nei loro confronti. Tuttavia, soprattutto nei Comuni con un numero di abitanti limitato, è fondamentale anche dare voce alla cittadinanza, in modo che tutte le paure ataviche nei confronti dell’Altro abbiano modo di essere espresse e trasformate in spinta propulsiva per una reale integrazione. Solo così gli abitanti dei piccoli paesi di montagna saranno in grado di sentirsi ancora protagonisti attivi dei movimenti in atto sul proprio territorio, e giocare un ruolo fondamentale, insieme ai nuovi arrivati, nella rivitalizzazione del tessuto economico e sociale in cui vivono. La montagna qui smette di essere barriera fisica, politica e culturale, e diventa invece luogo di incontro e di rinascita sia per i vecchi che per i nuovi montanari.