di Lella Di Marco [*]
Con le donne e gli uomini provenienti dal Nord Africa, in fondo ci si sente più simili, anche se le contraddizioni e spesso anche i conflitti non mancano. Gli arabi, ad esempio, sono stati sempre di casa e non solo nel nostro Meridione isole comprese, ma anche nel resto dell’Italia, da Roma a Milano, passando per Bologna, per i rapporti commerciali, per gli scambi, per la presenza dei sauditi alle fiere internazionali, arrivati con seguito di innumerevoli mogli e bagagli. Prenotazioni di intere ali di alberghi e richieste degli sceicchi di confort particolari o speciali garanzie di sicurezza per le loro donne.
I pakistani sono una acquisizione recente, immigrati non facilmente collocabili nella popolazione asiatica. La loro stessa migrazione ha avuto movimenti diversi. In genere, dopo la crisi del Medio Oriente, il loro esodo è stato rivolto verso il Paese colonizzatore ovvero la Gran Bretagna, vuoi per “ maggiore confidenza”, vuoi per la lingua inglese che in genere conoscono anche se la loro lingua ufficiale è l’Urdu. Da qualche decennio e soprattutto negli ultimi anni è facile assistere all’arrivo di pakistani in regioni molto aperte all’accoglienza, come l’Emilia Romagna. La loro presenza nel 2017 a Bologna è stata registrata in 71 mila persone e, nonostante le aree periferiche e vie del centro storico siano pieni di esercizi commerciali pakistani, molti bolognesi fanno ancora fatica a collocarli nella loro area di provenienza geografica o a conoscere la storia del loro Paese o qualcosa della loro cultura. Si fa fatica a trovare un mediatore culturale che parli in urdu e che sappia fare connessione fra le due culture.
Le statistiche ufficiali, con numeri e grafici, anche se hanno il loro valore, aiutano poco a capire la reale presenza e condizione socio-culturale di tale fascia di immigrati. Molti arrivano come irregolari, invisibili per anni, e poi si ritrovano con regolare permesso di soggiorno. Lavorano nell’agro alimentare e nella ristorazione. Nella zona universitaria tra via Zamboni e S. Vitale è anche molto allettante l’invito a gustare autentico panino Chapati. o comprare frutta proveniente dal “loro paese” o anche specialità di verdure coltivate in orti della periferia bolognese o negli stessi orti urbani, avuti in concessione dal Comune di Bologna che con tale innesto ha tentato di favorire l’integrazione e naturalmente l’incontro tra nativi e migranti. È proprio in quei piccoli negozi, come in quelli dei marocchini o tunisini o bangla, che si realizzano incontri e conoscenze quando non veri e propri scambi culturali. Gli anziani frequentano in gran parte questi esercizi commerciali con prezzi più convenienti delle stesse catene di supermercati. Comprano il pane, che sia arabo senza lievito o pakistano, perché economicamente conveniente ed è morbido da masticare. Il che non è indifferente. A dir la verità è anche buono e poi i fornai italiani con il pane fresco stanno scomparendo nelle grandi città. Nei supermercati si compra pane precotto importato dalla ex Jugoslavia da completare nella cottura con il microonde, presente in negozio, così da potere pubblicizzare: “pane appena sfornato anche di domenica”.
Ma la cosa che più si nota è l’assenza delle donne pakistane. Dove sono? A volte se ne vedono per strada con marito e figli, magari con il burka, con il velo o con i capelli al vento. Immagini e rappresentazioni diverse nel giro di qualche centinaia di metri. La spiegazione è la seguente: in genere gli uomini emigrano da soli in attesa di sistemarsi in Italia e poi richiamare moglie e figli. Non ci tengono molto a farli emigrare dal Pakistan, temono contaminazioni etico-culturali. L’Occidente è visto come un pericolo comunque. Di norma, lo studio e la scolarizzazione per le bambine e per le adolescenti non sono graditi agli uomini e all’intera comunità pakistana che, a Bologna, comunque è molto ben organizzata, con luogo di preghiera autogestito, una efficace rete di solidarietà, catene di negozi alimentari aperti anche di notte e giorni festivi, ad eccezione del venerdì a mezzogiorno perché si va in moschea. Le donne non si vedono, sia perché rimaste in Pakistan o se emigrate con marito o padre costrette a rimanere a casa. Invisibili all’esterno, interdette allo spazio pubblico. Lo stesso avviene in Pakistan anche se la situazione è molto diversa da regione a regione, tra campagna e centri urbani. E poi ci sono le classi sociali come deterrente.
In buona sostanza ciò che fa la differenza anche sul destino di una donna è la provenienza sociale ed economica: in che famiglia è nata, se è di origine benestante o no. Se è povera lo sarà sempre di più e l’impoverimento femminile è una tragedia per le stesse donne e le loro figlie. Il loro destino è segnato, in special modo quando il loro comportamento non è “onorevole”. Sono bocche da sfamare, da dare in moglie precocemente, anche con violente imposizioni, ad uomini spesso molto anziani che possono mantenerle.
Che le figlie femmine siano nominate come dis-grazie quando con orgoglio si elencano i figli maschi è una pratica ancora presente anche in Grecia, ma il livello di crudeltà, di repressione e delle torture che si abbattono sulle bambine e le giovani donne pakistane è davvero inimmaginabile. Si afferma apertamente la negazione di ogni diritto ma soprattutto quello alla vita. Notizie che non ci arrivano dalle dirette interessate. ma dalle ONG che realizzano progetti umanitari o dai rapporti dell’ONU. Tanto più che il Pakistan è terra in cui la cultura assorbita dalla colonizzazione indiana è ancora molto forte e nella quale l’adattamento politico “di genere” del Corano spiegato a uomini e donne non scolarizzate ha fatto il resto. A leggere bene le sacre scritture, sia la religione musulmana che quella induista, presenti in Pakistan, da nessuna parte sostengono l’inferiorità della donna né invocano sistemi di controllo e censura su di essa. Ma tant’è. Trattasi ancora di società tribali, chiuse e impermeabili, autoreferenziali, pronte a riprodurre se stesse anche con la complicità delle donne anziane: madri e nonne, suocere e cognate.
Ricordo che quando negli anni 70 le accademiche femministe cominciarono a fare ricerca sulla repressione delle donne nelle diverse zone del mondo, fece molto scalpore, perché nuova alla nostra conoscenza, tutta la ricerca sulle donne indiane, uccise, ferite, incidentate, “acidificate”, perfino in casa, perché per esempio il marito non era soddisfatto della dote avuta in cambio del matrimonio. Quella logica o pretesa non è scomparsa del tutto e, nonostante la mobilitazione mondiale delle donne allora riusci a considerare illegale l’usanza della dote, di fatto la pratica è rimasta sotto forma di regali (mobili, elettrodomestici, monili …) alla famiglia dello sposo e spesso va a costituire la dote di qualche sua sorella pronta per il matrimonio
E le pakistane immigrate in Italia? Molte rimangono chiuse in casa anche per anni. Le figlie adolescenti non sempre riescono a completare la scuola dell’obbligo, viene quasi sempre vietato loro di frequentarla per mantenere la loro integrità, lontane da pericoli culturali e mutazioni comportamentali. Tali realtà sfuggono alle ricerche sociologiche e antropologiche, come alle indagini statistiche. Apprendiamo di loro soltanto per casi di cronaca nera: la ragazza uccisa di botte, la moglie accoltellata e trovata in una pozza di sangue o l’adolescente che si taglia le vene a scuola, la giovane che si suicida. Nulla è fatto trasparire all’esterno della famiglia e neppure i servizi sociali o le autorità scolastiche riescono ad averne il minimo sentore.
Che fare ?
Sebbene non apprezzi molto le politiche istituzionali sull’immigrazione e neppure quelle sulle cosidette “pari opportunità”, capisco che il problema, oltre ad essere drammatico, è molto complesso e difficile da affrontare .Non stento a credere che ci vorrà qualche generazione ancora, prima di ottenere un qualche cambiamento.
In una naturale trasformazione-evoluzione, anche i nativi non rimangono statici. Si evolvono acquistando energie nuove dal contatto con tutto ciò che di autenticamente positivo molti migranti ci stanno portando, assieme ai loro corpi e alla loro cultura. Accade anche che, inaspettatamente, si organizzino dei corsi di avviamento alla conoscenza della lingua e della cultura italiana e, con il semplice passa parola, arrivino donne pakistane mai viste in giro, super velate, con il loro salwaz kameez (abito di origine indiana con pantaloni svasati e fondo affusolato, tunica aderente fino al ginocchio e sciarpa che avvolge testa e capelli per fermarsi sulle spalle), di cui vanno orgogliose come vessillo identitario. Arrivano mamme con giovinette sulle quali vigilare e proteggere o anche donne pakistane scolarizzate in possesso di lauree forti come economia, informatica, scienze finanziarie, che vogliono appropriarsi di una perfetta conoscenza della lingua italiana e di tecniche di comunicazione indispensabili per la ricerca di un lavoro qualificato o per accedere ad un’altra facoltà universitaria anche a Bologna. I loro comportamenti sono diversi: le prime velatissime e silenziose, le seconde con voglia di comunicazione e apprendimento
Tra queste ultime c’è Bouschra, 30 anni, nata e cresciuta in un villaggio a poche decine di chilometri da Islamabad, in una famiglia espressione di una realtà sociale medio-bassa, con un reddito da lavoro garantito e disponibilità a frequentare un normale corso di studi. Si è iscritta all’università con residenza in uno studentato e si è laureata nel dipartimento di Studi Religiosi-islamici. Appena sposata all’età di 24 anni, il marito è emigrato in Italia per lavoro. Lei è vissuta per qualche anno nella casa dei genitori del marito fino a quando non lo ha raggiunto in Italia. Il suo è stato un matrimonio organizzato dai genitori con il suo consenso. Anche a lei piaceva lo sposo prescelto con il quale ha un ottimo rapporto coniugale di rispetto e stima reciproci. Ha due bambini ed è felice di vivere in Italia. Si trova bene, ha amiche italiane e contatti assidui con la rete dei suoi connazionali. Concorda sul fatto che la situazione delle donne e delle ragazze in Pakistan è molto pesante con divieti, repressione e decisioni imposte dalla famiglia. Alle ragazze tocca soltanto ubbidire. Maggiore è nei loro confronti la repressione nelle classi sociali più povere e lontane dalle grandi città. Molto pesante l’influenza della famiglia del marito, soprattutto della suocera e delle cognate le quali qualunque comportamento abbia il figlio o il fratello, prendono le sue difese, schierandosi in maniera molto severa rispetto alla giovane sposa. È appena il caso di precisare che avvengono molte violenze familiari che non si conoscono, ma è anche vero che una “giovane sposa” che non ubbidisce, non sta alle regole della famiglia che poi sono quelle della tradizione, può andare via da casa a suo rischio e pericolo. Di solito se va via viene abbandonata anche dalla famiglia di provenienza e le rimane soltanto la strada. Da battere per vivere di elemosine o prostituzione. Ho saputo che queste donne sono facilmente preda di sfruttatori che le portano in certe case dove sono costrette a stare con molti uomini, anche per dieci ore al giorno. Per loro non c’è salvezza se non il suicidio.
Conferma tutto Salma, da Gujrat (Lahore), 24 anni, sposata da due. Partita con il fratello per l’Italia è stata sostenuta dalla rete dei connazionali. Adesso ha un contratto da collaboratrice domestica in regola (ottenuto con l’aiuto dei connazionali che in genere conducono attività di negozianti di frutta e verdura o prodotti di bigiotteria e vestiti pachistani). Sta sbrigando le pratiche per richiamare il marito per ricongiungimento familiare .
Schabana, 30 anni con figlio di 13, vedova da qualche anno, è meno garantita in Italia. Con la morte del marito ha infatti perduto reddito e casa. Non accetta di essere seguita dai servizi sociali, così l’estate scorsa per cinquanta giorni ha partecipato all’occupazione di case, dormendo anche per strada come protesta assieme ad altri sfrattati italiani e migranti. Potrebbe ritornare in Pakistan dove dice di avere una famiglia che potrebbe sostenerla ma non si rassegna a riprendere una vita di sottomissione che rifiuta. Spera di risolvere presto la sua situazione magari con l’aiuto della rete dei connazionali.
Saba, originaria della provincia di Islamabad, è in Italia da sei anni. Famiglia di origine benestante, è laureata in scienze finanziarie. In questi anni di permanenza nel nostro Paese ha avuto due bambini, ha studiato la lingua italiana che ora parla correttamente, ha approfondito la conoscenza informatica, ha aiutato molte connazionali a prendere la patente e a conoscere bene i servizi che la città offre. Raffinata ed elegante nell’abbigliamento come nel modo di interloquire, musulmana praticante, Saba ci accoglie a casa sua con dolci tipici, il classico te indiano al latte e regalini che, secondo tradizione, vengono offerti alle ospiti la prima volta che si presentano nella casa. Conviviale, accogliente, conosce bene la storia e le usanze del suo Paese, ha sposato un uomo indicato dalla famiglia ma che piaceva anche a lei. La loro unione è molto tranquilla. Si amano. Il marito è aperto e disponibile ad incontri con i locali. Dei matrimoni imposti in Pakistan e della condizione della donna conferma che molto dipende dall’impoverimento e dall’ignoranza di certi strati della popolazione. In pratica, a proposito dell’accesso vietato alla scolarizzazione delle ragazze, sottolinea una evidente contraddizione: i maschi che potrebbero frequentare tranquillamente la scuola non hanno voglia di studiare, mentre le ragazze alle quali è interdetta la frequenza studierebbero volentieri. Per quanto riguarda l’espressione dei sentimenti fra un giovane e una giovane, se si innamorano autonomamente, su di loro è destinata ad abbattersi la repressione dei genitori, così che sono frequenti i casi di suicidio giovanile proprio per tale motivo. Saba è consapevole delle dinamiche che sono dentro la comunità dei connazionali a Bologna, delle forme di illegalità praticate, del pericolo del terrorismo, ma sia lei che il marito sono determinati a rimanere in Italia. Il Pakistan rimane luogo di vacanza da raggiungere solo per le ferie. A proposito della sua condizione di migrante costretta a vivere dentro una duplice dimensione culturale in continuo divenire Saba così racconta:
« noi in questo periodo in Italia ci stiamo preparando al Ramadàn che festeggeremo in modo parallelo al Pakistan in 17 maggio p.v. Prepariamo prima dei dolci che mangeremo la sera dopo il tramonto quando spezzeremo il digiuno. In Italia non abbiamo la famiglia, i parenti, e cercheremo in quel periodo di stare più uniti alla nostra comunità e non rimanere da soli. Il senso della festività per noi musulmani è proprio consumare il cibo assieme e praticare la convivialità anche con scambio di cibo e preghiere collettive. L’atmosfera è diversa che essere al proprio paese però in anni di soggiorno in Italia stiamo verificando che anche conoscenti italiani, con piacere, si uniscono a noi per la “colazione” e questo ci dà maggiormente il senso di appartenenza e il non sentirci contrastati. Rafforza la nostra identità. Certo la migrazione, con il cambiamento della realtà oggettiva, provoca una mutazione sia in noi che nelle persone che ci accolgono nel paese ospitante. Se c’è rispetto reciproco nulla è traumatico. Io vesto quasi sempre all’occidentale per comodità mia, con i tempi stretti che ho nell’accompagnare i bambini all’asilo, fare la spesa, sbrigare pratiche negli uffici, riordinare la casa, studiare, il lavoro anche se saltuario. Questo mi piace e nessuno mi critica. Anche quelli che non tollerano i migranti, per paura di perdere qualche privilegio o semplicemente la sicurezza, ci devono fare i conti. Si incuriosiscono di fronte al nostro abbigliamento, ai vestiti luccicanti di perle e specchietti o borse etniche, ai prodotti di bigiotteria scintillanti, ai pezzi di artigianato e non disdegnano gli acquisti. Per noi ogni pezzetto di abbigliamento ha un valore simbolico. Oltre che coprire il corpo e il capo. Come la decorazione o il trucco o gli specchietti per catturare la luce del sole. Per illuminarci sempre. Magari i vestiti non sono sempre comodi come quelli occidentali, adeguati alla velocità nei movimenti e alla praticità, richiesti dai tempi di vita e di lavoro. In Italia esco vestita come voglio anche sola di sera, se è necessario. Nessun problema anche da parte di mio marito. In Pakistan per uscire da casa è obbligatorio indossare la gonna lunga. Per andare in moschea poi, indossiamo i vestiti più belli con lunga camicia e sciarpa per coprire il capo. Senza, non possiamo né entrare né pregare. Indossarli è obbligatorio. Continuare in Italia nelle nostre pratiche religiose non è un problema. Noi siamo quasi tutti immigrati di fede musulmana e l’unico inconveniente è recarci in moschea, al venerdì o nelle festività senza i parenti. So che c’è qualche pakistano induista, ma io non ne conosco. e non so di altri culti religiosi.
Così diverse così uguali
Il maggiore luogo di contatto con le immigrate per me sono stati e sono i Centri Interculturali. A Bologna dalla sua nascita, ormai da venti anni, il Centro Interculturale Massimo Zonarelli è il mio terreno di lavoro culturale-politico. Si tratta di una realtà “comune” la cui esistenza è stata pensata e progettata come luogo di seconda accoglienza, perché le migranti si ritrovassero, esprimessero bisogni soprattutto culturali, mettessero in comune i loro saperi e le loro abilità in una dinamica di reciprocità con le native, sollecitando un processo di possibile integrazione.
Prime immancabili iniziative gestite dal Comune di Bologna sono i corsi per l’apprendimento della lingua italiana, le feste religiose e le attività conviviali. Con molta curiosità per il folklore. Limiti ovvii nelle iniziative ma occasioni di incontro notevoli per le migranti. Altre iniziative si sono susseguite, ai fini della conoscenza del territorio, dell’offerta dei servizi: sportelli sull’immigrazione legati ai quartieri, sostegno alla genitorialità e al rapporto con la scuola per i figli. Nel tempo sono stati realizzati convegni, incontri su diverse tematiche, dal bisogno di non trascurare la conoscenza della lingua madre alle pratiche religiose, all’approccio ospedaliero, alle malattie genetiche, all’alimentazione, ai nuovi problemi con i figli e le figlie che andavano verso l’adolescenza. Nati sul suolo italiano da genitori provenienti da “altrove” ma non italiani.
L’approccio ad un rapporto con “lo straniero-immigrato“ non è mai facile. Rimanendo sul piano femminile il “luogo” privilegiato è indubbiamente il Centro Interculturale, uno spazio protetto con attività promosse e gestite da associazioni femminili, rivolte solamente a donne. Incontri amicali fra native e donne migranti possono avvenire anche al parco mentre i bambini giocano, o nei negozi gestiti da migranti, sempre che sia evidente l’atteggiamento delle donne native ad entrare in contatto. A volte sono gli stessi servizi sociali ad inviarci – con segnalazione – le donne da inserite nelle nostre attività e contrastare così la loro solitudine e isolamento. Il Centro Zonarelli come centro metropolitano dipende dal Comune di Bologna, ma nelle sue attività protagoniste sono le 120 associazioni di volontariato che agiscono in modo autonomo, sia nella programmazione che nella metodologia di intervento. Nessun finanziamento istituzionale è loro garantito salvo la partecipazione a bandi vari, da quelli europei di cooperazione internazionale, ai locali istituiti da Quartieri, Comune e Regione. In Emilia Romagna si è appena concluso un progetto molto interessante per combattere la povertà in Pakistan attraverso il modello delle Coop e lo sviluppo agricolo, anche con la “fornitura” di formatori.
Per quanto ci riguarda come associazione Annassim il nostro intervento con le donne è decisamente di volontariato gratuito. Ci muoviamo su una logica relazionale di fiducia, sulla base di un metodo esperienziale di insegnamento della lingua italiana e di una valorizzazione primaria delle culture, fino alla messa in atto di un progetto per i richiedenti asilo: noi accogliamo con la cultura . Un pò provocatorio nei confronti di certe politiche “caritatevoli” istituzionali congiunte con la Chiesa. La relazione con le donne è meno difficile proprio perché partiamo dall’essere di genere femminile – dal sentirci uguali nonostante le differenze. Senza mirare o progettare alcuna forma di neocolonialismo culturale. Ma ad iniziare occorre che siamo noi autoctone, perché le donne immigrate superino lo stato di soggezione, diffidenza e anche paura.
Nell’incontro per le interviste alle donne pakistane sui matrimoni combinati, obbligati, non potevo non partire da me, dalla mia esperienza nella mia terra di origine, la Sicilia, sulla cui realtà non ho difficoltà a parlare. Il punto di maggiore affinità è stato raggiunto quando parlando della mia giovinezza in Sicilia, del mio innamoramento di un giovane scrittore comunista, del contrasto con i miei, della repressione e anche umiliazione, delle botte di mio padre con la complicità di mia madre, delle minacce di non farmi completare gli studi universitari chiudendomi in casa, del farmi uscire accompagnata sempre da mio fratello… le ragazze pakistane emozionate mi hanno chiesto: «e poi come è finita?». Risposta: «ho lottato in tutti i modi … ci siamo sposati». È seguito uno scrosciante applauso. Uguali e diverse con un po’ di tempo storico a mio vantaggio.
Sempre emozionante leggere gli scritti di Lella Di Marco…..riesce a cogliere l’essenza delle cose anche in fatti complicati…il suo racconto e le sue interviste ci avvicinano a mondi lontani per i più. Ho la fortuna di avere conosciuto uomini e donne pakistane. Il Pakistan, paese complesso dalle mille contraddizioni. Le zone rurali così diverse dalle zone metropolitane.
Grazie Lella per questa ulteriore emozione
Dony