di Piero Di Giorgi
I processi di globalizzazione hanno prodotto cambiamenti profondi nella divisione e nell’organizzazione del lavoro, con evidenti ricadute sull’occupazione. Sono aumentate enormemente disugua- glianze, guerre e povertà e di conseguenza flussi di spostamenti di milioni di persone verso i Paesi più ricchi del mondo e l’accentuarsi di fenomeni di multietnicità.
È aumentata la complessità sociale e anche un diffuso malessere, un senso di incertezza ed imprevedibilità, generatore di ansie e insicurezze sul futuro. Siamo in presenza anche di un appannamento di assiologie e di grandi narrazioni. La società postindustriale si caratterizza sempre più, non solo per le ampie e profonde trasformazioni, per l’espandersi di reti telematiche ed informatiche, ma anche e soprattutto per l’accelerazione dei cambiamenti, dovuti in particolare all’enorme sviluppo tecnologico, che muta continuamente il quadro delle conoscenze.
Trasformazioni profonde si sono determinate anche nell’ambito della famiglia e nella scuola, non più luoghi privilegiati di formazione e di costruzione di identità forti e stabili. E quando ciò avviene dobbiamo essere fortemente preoccupati per il futuro delle nuove generazioni e del mondo.
Da tanto tempo assistiamo ormai a forme diverse di violenza, da quella sulle donne ai fenomeni di bullismo e, talvolta, anche a violenze di insegnanti sugli allievi ma anche di figli contro i genitori. Un fatto nuovo, turpe e scandaloso, si viene manifestando ultimamente ed è l’aggressione e la violenza sugli insegnanti da parte di alunni e genitori, che ci mette di fronte a un capovolgimento di ruoli e alla rottura del patto generazionale che hanno caratterizzato lo sviluppo e la continuità della società attraverso la trasmissione tra le generazioni.
Già nel mio libro La crisi del ruolo dei genitori, oltre venti anni fa, evidenziavo i cambiamenti avvenuti nell’ambito della famiglia a partire dalla fine degli anni ’60, dal modello parsonsiano patriarcale e basato sulla rigida divisione dei ruoli a un modello di famiglia più orizzontale, egualitario e fondato su ruoli simmetrici. Nel contempo, mettevo in luce la progressiva assenza del padre e la sua graduale evaporazione nel ruolo educativo ma anche l’entrata in crisi della fondamentale relazione madre-bambino. La donna ha rivendicato giustamente gli stessi diritti del maschio sia nei compiti all’interno della famiglia sia all’esterno nella società e quindi, ai fattori interni dovuti alla riorganizzazione familiare, si aggiungevano le difficoltà che derivano ai genitori da un’organizzazione del lavoro rigida e con orari prolungati, nell’assenza di una rete generalizzata di asili-nido e di scuole dell’infanzia, in grado di fornire cure sostitutive ed educative qualitativamente adeguate a quelle dei genitori impegnati nel lavoro. Denunciavo anche che la crisi del ruolo genitoriale avrebbe compromesso il destino delle nuove generazioni per il fatto che l’identità sarebbe divenuta sempre più incerta e indeterminata e avrebbe perciò reso difficile che il bambino, divenuto adulto, restasse sempre figlio dei propri genitori, come deve essere.
Purtroppo è quello che è accaduto in gran parte delle famiglie. Le tensioni di cui sono carichi i rapporti tra i partner, lo stress indotto dal sistema sociale, i problemi della disoccupazione e i bassi salari, le inquietudini derivanti dalle minacce che incombono sul mondo (guerre, migrazioni, ambiente ecc.), il consumismo dilagante che trasforma i genitori in macchine di produzione e di consumo, la crisi dei valori, sono tutti fattori che determinano una scarsità di energie emotive da investire nelle relazioni familiari e in special modo in quelle coi figli. Si è interrotto il dialogo tra le generazioni e i ragazzi si trovano spesso senza punti di riferimento. Oggi, assistiamo a una abdicazione diffusa a educare. Le nuove generazioni crescono, spesso, in un vuoto affettivo ed educativo, senza referenti formativi. Da un’educazione autoritaria fino agli anni ’60 si è passati ad un’educazione permissiva, senza regole e valori. Due stili educativi opposti ma convergenti negli effetti, come due lati della stessa medaglia. I genitori fraternizzano coi figli assumendo un volto di presunta modernità, di accondiscendenza e di complicità alle mode giovanili, credendo di essere democratici. Frustrati e pieni di sensi di colpa, cercano una compensazione, proiettando i propri sogni falliti sui figli, nel tentativo illusorio di garantire loro un avvenire di successo e proteggendoli da ogni frustrazione. Tali comportamenti determinano un’assenza di confini generazionali e di una distinzione chiara di ruoli che, invece, è basilare per costruire l’identità. I genitori, cioè, hanno rinunciato a essere “fari di orientamento”.
I giovani risentono dell’assenza di relazioni significative, viene a mancare il loro bisogno di sicurezza e di fiducia. La casa non è più luogo privilegiato d’intimità, di esperienza e di scambi emozionali e affettivi. Questo cambiamento comporta complessi problemi psico-pedagogici e sociali, la cui fenomenologia diffusa sono un’identità debole, narcisismo, consumismo, il tutto e subito, il bullismo, che nascondono paurose carenze emotive. Dalla società senza padre, analizzata già nel 1963 da Alexandre Mitscherlich, si sta passando a una società senza genitori, che impedisce alle nuove generazioni di transitare dal principio del piacere a quello di realtà, che è fatto di rispetto di regole, di orari, di assunzione di responsabilità, di diritti e di doveri, di prove e ostacoli da superare. Perciò, i ragazzi non appena sono ostacolati da regole, imposizioni, reagiscono con angherie, mancanza di rispetto e perfino con violenza contro gli educatori. D’altra parte, i genitori, che dovrebbero partecipare insieme agli insegnanti al progetto educativo dei loro figli, come previsto dalla legislazione scolastica, si schierano invece con i figli, lasciando soli gli insegnanti, anzi aggredendoli, perché osano sanzionare i comportamenti dei loro figli.
Al declino dei genitori subentrano, nell’attività di custodia ed educativa, la scuola, il post-scuola, i centri sociali e sportivi, l’industria dei divertimenti, i social network, la televisione e la pubblicità. La scuola attraversa anch’essa una fase drammatica, investita da una crisi d’identità dei suoi operatori, non è più luogo, in generale, di esperienza e formazione. L’economicismo dominante nella società ha pervaso anche la scuola, trasformata essa stessa in un’azienda con un dirigente e tanti dipendenti e i cui linguaggi vengono mutuati dal mondo aziendale: crediti e debiti, produttività, misurazioni, consiglio di amministrazione, ecc.
Nell’ultimo ventennio ogni nuovo governo ha fatto la sua riforma della scuola, che ha stravolto quella precedente. Una riforma dall’alto senza coinvolgere insegnanti, genitori e alunni e soprattutto in un’ottica economicistica e autoritaria. Una riforma della scuola è necessaria ed anche in profondità. Una scuola all’altezza dei suoi compiti dovrebbe adeguare i suoi metodi e contenuti ai cambiamenti della società e di coloro che educa. E per farlo, occorrono mezzi, strumenti adeguati, capacità professionali, formazione continua degli insegnanti, vocazione e carisma, capacità di equilibrio tra dispensare amore e rassicurazione, dare fiducia, da una parte e stabilire regole ferme da rispettare, dall’altra. I nostri governanti dimenticano spesso di essere genitori e danno scarsa importanza ad una politica della famiglia, della scuola e formazione, mentre nel mondo si mette quotidianamente in scena l’orrore.
La scuola è un’istituzione che coinvolge milioni di persone tra studenti, famiglie e insegnanti e può costituire il vero volano dello sviluppo, oltre che economico, anche sociale, morale, valoriale e politico. Può contribuire molto a far crescere una coscienza nuova, in grado di contrastare le mafie, la diffusa illegalità e corruzione e di potenziare la democrazia. L’educazione, d’altronde, è una questione profondamente politica. Scuola e formazione sono compiti fondamentali di ogni Stato democratico, costituzionalmente garantiti. A fronte dell’influsso delle altre agenzie educative, la scuola pubblica e laica deve essere colta, stimolante, scientifica, accogliente, piacevole, capace di fornire ai ragazzi capacità cognitive, affettivo-emotive, sociali, pensiero critico e ricchezza umana. Dal modo in cui educhiamo a pensare, possiamo creare persone sane o malate, dogmatiche e conformiste o creative e consapevoli. Ne dipende il futuro della società.
Che fare allora perché la scuola possa raggiungere l’obiettivo primario di formazione dell’uomo e del cittadino, come auspicava Jacques Maritain e formare cittadini liberi, critici e consapevoli? Innanzitutto tutto, occorre che la scuola metta tutti gli alunni nelle condizioni di raggiungere i risultati prefissi. La scuola continua ad essere classista e a confermare, a distanza di quasi 40 anni, l’efficace immagine di don Lorenzo Milani, che la paragonava ad un ospedale che cura i sani e manda a casa i malati. Nella scuola di Barbiana, egli insegnava che l’uguaglianza presupponeva un possesso uguale delle parole, perché chi conosce più parole acquista anche più sicurezza nell’interloquire con gli altri e nell’esprimere il proprio pensiero, ma è anche più capace di decodificare il linguaggio degli altri e di poterlo criticare.
Un principio da cui partire è che ciascuno è diverso dagli altri e perciò non si possono trattare da uguali persone che sono diverse. C’è la necessità e l’urgenza di una scuola che pratichi l’uguaglianza, che offra a tutti la possibilità d’intervenire e di riappropriarsi della parola, indipendentemente dalla estrazione sociale. La scuola tradizionale trasmette un sapere uniforme con difformità di risultati. La scuola, invece, deve rifondarsi ponendo l’attenzione alle diversità e alla singolarità di ciascun alunno per giungere a un’uniformità di risultati. Questo processo che cominciò a manifestarsi a decorrere dal 1899, quando Dewey pubblicò il Manifesto pedagogico “Scuola e società”, mette al centro il valore della persona umana, a partire dai suoi interessi, problemi e bisogni, per renderlo protagonista del suo processo di apprendimento. Inoltre, la scuola si trova ormai da qualche tempo di fronte alle problematiche della convivenza plurietnica e pluriculturale. Le disuguaglianze vergognose tra Nord e Sud del mondo ci pongono di fronte a flussi sempre più crescenti d’immigrazione, che fanno prefigurare esodi biblici, se non s’interverrà per cambiare il modello di sviluppo economico, che, tra l’altro, mostra la corda attraverso crisi e contraddizioni ricorrenti. Ormai le classi sono policrome (bianchi, gialli, neri) e vi sono classi in cui gli italiani sono in minoranza. Come in ogni realtà, vi sono due facce. Se, da un lato, il fenomeno immigratorio comporta gravi problemi di sradicamento-adattamento, rigurgiti di razzismo, guerre tra i poveri, sfruttamento e aumento di lavoro nero, dall’altra esso porta in sé un valore inestimabile, il meticciato, l’interazione e il rimescolamento di culture, di modi di vivere e di pensare, fervido di trasformazioni imprevedibili sul piano della ricchezza biologica, psicologica e socio-culturale, da fare prefigurare, alla fine, un universalismo o cosmopolitismo senza distinzioni di razze, di religioni, senza fondamentalismi di sorta. Dallo scambio e dalla contaminazione di esperienze e storie diverse, ciascuno si arricchisce. Ciascuno prende consapevolezza di essere diverso da ciascun altro e che le diversità sono un valore e una ricchezza, senza che ciò comporti la rinuncia di ciascuno alla propria identità. Ciò è importante per prevenire il razzismo.
La scuola produce spesso demotivazione, mancanza d’interesse e di coinvolgimento, non stimola e non incuriosisce, passivizza gli alunni e non li rende protagonisti dell’apprendimento, non impasta di quel grumo di carne e di sangue i contenuti dell’educazione. Essa appare ai giovani noiosa perché trasmette un sapere nozionistico, astratto e astorico, staccato dalla realtà fattuale e dai loro interessi, problemi e preoccupazioni. Il lavoro, l’ambiente, l’amicizia, la sessualità e le problematiche affettivo-emotive in genere vengono tenuti accuratamente fuori dalla scuola. L’affettività in particolare, come ha messo in luce la grande maggioranza degli psicologi, è l’energia fondamentale attraverso la quale germoglia la conoscenza. Se la scuola ha il compito importante d’insegnare a pensare, il primo problema che si pone è quello di come raggiungere gli alunni, come entrare in empatia e suscitare l’interesse e predisporli all’ascolto. Non ci può essere apprendimento senza gratificazioni emotive. L’apprendimento implica un interesse e per suscitare l’interesse occorre un coinvolgimento emotivo. Dalla scuola, purtroppo, sono state generalmente espulse le emozioni e si è enfatizzato l’aspetto cognitivo. È, invece, fondamentale che essa metta al centro la relazione interpersonale e non separi ciò che non è separabile, come l’educazione cognitiva da quella affettiva-emotiva. L’educatore deve essere in grado di stemperare le tensioni, di mettersi in gioco, di essere capace di ironia. La scuola deve essere luogo di vita. I docenti devono essere rimotivati, devono trovare gusto per il loro lavoro.
Educare presuppone qualcosa che penetra e permea la personalità del discente e la trasforma in modo di vivere. Significa, per dirla con Pascal, coniugare l’esprit de finesse con l’esprit de geometrie (cuore e mente). Cioè significa stimolare la fantasia, l’immaginazione, i sentimenti, le emozioni, il senso del bello, il rispetto delle cose, del bene comune, l’amore per l’arte e la musica, il culto della libertà, della giustizia, dei valori della tolleranza, dell’umiltà, della modestia e della temperanza. In sintesi, realizzare quell’uomo onnilaterale di cui parlava Marx, che è anche un uomo consapevole, che è autocosciente. È questo il senso e il significato del motto inscritto nel tempio di Delfi “Conosci te stesso” e che è il fondamento di ogni insegnamento. Per Socrate occorre scandagliare, andare nel profondo, cercare di cogliere quel che è essenziale nella nostra vita. Egli sosteneva che non c’è una verità bella e fatta una volta e per tutte e non si sentiva depositario di nessuna verità. Era un critico implacabile di qualsiasi conformismo sociale e morale, combatteva la passiva accettazione e il cieco rispetto consuetudinario di norme di condotta imposte dalla morale sociale. In sostanza, come educatori, ci dobbiamo liberare delle consuetudini del conformismo, dei pregiudizi e delle superstizioni che occupano la nostra mente prima d’insegnarlo agli alunni. Come? La risposta di Socrate è: interrogandosi e avvalendosi dell’ironia (éiromai). Il suo metodo era il dialogo, la conversazione, l’esame in comune di domande e risposte, mettendosi nella condizione di volere imparare dal suo interlocutore, a cui chiedeva continue precisazioni, finché lo metteva di fronte alle sue contraddizioni e insinuava in lui il dubbio, che è principio del sapere e lo induceva alla ricerca. Egli spronava anche a stabilire un contatto emotivo, un comune terreno di discussione, aiutava l’interlocutore a conoscere se stesso, a scandagliare quel che c’è dentro di sé. È il metodo noto come maieutica e cioè “l’arte di far partorire le menti”. Ricordandosi del mestiere della madre, diceva che il suo lavoro maieutico assomigliava a quello delle levatrici, solo che loro operano sui corpi e lui opera sulle menti. Tutti i mali, per Socrate, si riducono all’ignoranza e tutte le virtù si compendiano nel sapere.
Il suo insegnamento anticipa in maniera straordinaria le posizioni di grande prudenza della scienza odierna, di abbandono dell’epistéme, di dubbio sistematico e di verità provvisoria. Coloro che credono di possedere certezze sono delle personalità rigide (cloused mind), vedono soltanto bianco o nero senza vedere che tra i due opposti vi sono diverse gradazioni. Sono persone pericolose, incapaci di mettersi in discussione, intolleranti e spesso violente. Se assumono responsabilità pubbliche di alto livello decisionale possono creare disordini e guerre. Il dubbio, invece, induce alla curiosità e alla tolleranza. Le persone più equilibrate e affidabili sono coloro che sanno essere dubbiose e quindi curiose, tolleranti e capaci di riconoscere i propri errori.
Mi preme ancora sottolineare che nella società complessa e globale in cui viviamo, occorre contestualizzare ogni sapere. Vale a dire che l’educazione non può essere fondata sulla separazione e compartimentazione dei saperi, incapace di fare cogliere la totalità del reale nelle sue interconnessioni, ma che occorre un sapere unitario, che colga le relazioni tra le diverse discipline. In passato, la specializzazione del sapere ha portato non solo ad una netta separazione tra scienze umane e scienze naturali, ma anche ad una separazione tra i vari saperi. A scuola, le diverse discipline vengono solitamente insegnate in modo disgiunto, separato. Ciò impedisce di vedere il contesto, il globale. I giovani non sono messi in grado di contestualizzare i saperi e d’integrarli e ciò confligge con le caratteristiche della mente che tende a integrare, ad astrarre e globalizzare.
Con ciò voglio dire che è necessario abbandonare la pratica diffusa dell’erudizione incerta e nozionistica, priva di concretezza, che considera i discenti come semplici ricettori, che accettano passivamente ciò che trasmette l’insegnante, per assumere una metodologia scientifica, in cui nulla è dato per scontato, ma che punti sulla problematizzazione della realtà, abituando i giovani al pensiero critico e creativo, alla soluzione di problemi, a contrastare i pregiudizi, a sviluppare le capacità relazionali e il lavoro cooperativo in gruppo. Non riempire, in sostanza la testa di nozioni ma formare una “testa ben fatta” per dirla col titolo di un saggio di Edgar Morin. C’è la necessità di educare i cittadini alla democrazia. Gustavo Zagrebelsky, in Imparare democrazia fa un decalogo dell’etica democratica, che deve contenere valori insopprimibili come la giustizia, l’uguaglianza e la partecipazione allo spazio pubblico.
Infine, mi sembra importante sollecitare la partecipazione-cooperazione delle famiglie a scuola. Molti genitori o svalutano la scuola e la cultura, oppure assumono atteggiamenti di difesa totale dei propri figli in contrapposizione agli insegnanti. Per superare questi atteggiamenti è necessario che siano coinvolti nel progetto educativo dei propri figli, ricercando insieme soluzioni. So che non è facile coinvolgere tutti i genitori in un rapporto di collaborazione attiva con la scuola, ma è fondamentale che gli insegnanti insistano nel perseguire adeguate forme di partecipazione dei genitori, tali da essere interlocutori quotidiani nell’azione educativa e nel governo della scuola, come è avvenuto negli anni’70 con i comitati “scuola-città”, “scuola-genitori” e “scuola-società”. In questo modo, si eliminano divergenze educative tra genitori e insegnanti, si stimola nei genitori l’assunzione di responsabilità sul loro ruolo educativo; si offre alla famiglia l’opportunità di portare il contributo della propria esperienza, si evita che i genitori si sentano emarginati, si aiutano i genitori che presentano difficoltà nella gestione dei problemi dei figli a casa e a scuola. Nel rispetto delle competenze di ciascuno, è possibile approntare la progettazione e l’integrazione degli interventi.
Se la scuola educa all’uguaglianza, alla solidarietà, al rispetto delle diversità e dei punti di vista diversi, alla tolleranza, alla non violenza e alla pace, alla bellezza e al rispetto dell’ambiente, di se stessi e degli altri, la società non può che trarne giovamento e progredire verso una maggiore armonia e uguaglianza.
Prioritario è il problema degli educatori. Fondamentale è la passione che si mette nell’insegnare. Senza pathos, senza sentirsi coinvolti, senza entusiasmo, non si trasmette l’interesse che si ha per l’alunno, non si trasmette l’amore per il sapere. Tuttavia, la passione e la vocazione finiscono per rimanere parole retoriche se non sono accompagnate dalla restituzione di dignità sociale ai docenti, i quali vengono mortificati con stipendi di fame e presi in scarsa considerazione dagli analfabeti di turno, soprattutto in una società che ipostatizza il denaro. Non si possono attrarre le energie migliori alla scuola se non si pagano adeguatamente gli insegnanti della scuola pubblica e laica, la cui centralità deve essere esaltata e divenire una priorità. Solo allora si potrà tornare al rigore e alla serietà da parte degli alunni e degli insegnanti.
Il rapporto mondiale del gruppo Pearson, realizzato insieme all’Economist dal titolo The Learning Curve, noto per le ricerche nel campo dell’educazione, evidenziava, nel 2012, che i due Paesi al vertice dell’eccellenza educativa nel mondo sono la Finlandia e la Corea del sud perché tengono in grande considerazione gli insegnanti, cui viene riconosciuto un grande ruolo sociale.
La chiave del successo dell’educazione credo che debba essere individuata negli insegnanti. Credo che sia nel ricordo e nell’esperienza di ciascuno che l’incontro nostro o dei nostri compagni o dei nostri figli con un insegnante sia stato decisivo per il successo o l’insuccesso scolastico, per l’amore o il rifiuto della conoscenza o di una singola disciplina. Ed è anche vero che dalla scarsa considerazione del ruolo educativo e sociale e dal non riconoscimento, da parte della politica, di un prestigio pubblico degli insegnanti, trae origine il non rispetto e la violenza verso gli insegnanti.