di Manuela Oretano
Alla luce delle rivolte popolari e degli sconvolgimenti politici che dal 2010 – sulla scia della rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia – continuano ad infiammare il Medio Oriente arabo, questo articolo intende analizzare le ragioni e le cause dei focolai di proteste pacifiche in breve tempo tramutati in moti rivoluzionari e l’attuale stato di emergenza umanitaria in Siria, sullo sfondo di un difficile contesto geopolitico regionale e internazionale nel quale si scontrarono e continuano a scontrarsi diversi attori politici, interessi e fazioni, con il coinvolgimento dell’intera comunità internazionale.
Nel 1917, poco prima della dissoluzione dell’Impero Ottomano, le maggiori potenze europee e, nello specifico Francia e Inghilterra, concentrarono i propri interessi coloniali su alcune zone costiere della penisola arabica e sull’Africa orientale. Già nel 1916, mosso dall’ambizione personale di creare un grande regno arabo indipendente dalla lunga e oppressiva dominazione turca, l’emiro dell’Higiaz Hussein, capo degli Hascemiti – antica famiglia dell’aristocrazia araba – si alleò con gli inglesi, i quali gli promisero la concretezza di un potere territoriale esteso dalla Penisola arabica fino alla Mesopotamia ed alla Siria. In una lettera risalente al 24 ottobre 1915 indirizzata allo stesso Hussein, l’alto commissario britannico in Egitto Mc Mahon scrive che «la Gran Bretagna è pronta a riconoscere e sostenere l’indipendenza degli Arabi entro tutti i confini richiesti dallo Sceriffo della Mecca» [1].
Il sogno del Regno Arabo di Siria, tuttavia, non durerà a lungo: mentre Hussein si accingeva alla rivolta per consacrare il sogno del suo regno, gli inglesi, nel maggio del 1916, sottoscrivevano deliberatamente una serie di accordi segreti con la Francia, noti come accordi “Sykes-Picot”, anche all’insaputa degli altri alleati europei ed altresì violando gli impegni assunti con gli Arabi. Tramite tali negoziati, il plenipotenziario inglese Mark Sykes e quello francese Francois Picot si dividevano, sotto forma di mandato in occasione della conferenza di pace di Sanremo, il controllo proprio di quegli stessi territori che avrebbero dovuto formare il regno arabo promesso: in particolare si riconosceva alla Gran Bretagna l’influenza del basso Iraq e i territori a sud della Mezzaluna fertile, dalla Palestina al golfo Persico, mediante cui si sarebbe assicurata un collegamento con l’Impero in India, mentre si assegnava alla Francia la sovranità sulla Siria e sul Libano.
La dissoluzione dell’Impero Ottomano venne definitivamente sancita nel 1920 con il trattato di Sèvres: esso prevedeva il protettorato francese sulla Siria e inglese sull’Iraq e la costituzione in Palestina di uno Stato ebraico, che convivesse pacificamente con le comunità arabe, e l’indipendenza all’Ḥiǧāz. Tale indipendenza restava sempre, però, strettamente controllata dalle grandi potenze occidentali europee tramite creazioni di barriere artificiali – come il caso della nascita della Transgiordania, ritenuta dagli inglesi un impedimento all’espansione, verso est, del futuro Stato ebraico, ed altresì la separazione francese del Libano dalla Siria – e tramite nuovi e continui pretesti per interferire nella politica interna ed impedire, pertanto, la costituzione di una politica estera indipendente ai governanti locali. Tra il 1920 e il 1925 la Siria divenne teatro di una vera e propria lotta nazionale, unitaria, la quale superò divisioni etniche locali tra nazionalisti siriani, comunità druse e alawite, tra le minoranze sciite, musulmani sunniti e cristiani, al fine di conseguire l’indipendenza dalla Francia e imporre loro la fine del mandato.
Dal 1928, in Siria si costituiscono una serie di partiti politici quali il Blocco Nazionale e il Partito Nazionalista Sociale Siriano, PSNS o SSNP, con l’obiettivo di porre fine al mandato francese in Siria e Libano e realizzare la piena indipendenza della Siria attraverso una via diplomatica e non-violenta. Solo nel 1943 la Siria ottenne una formale indipendenza, divenuta definitiva nel 1946. Un anno dopo si tennero le prime elezioni legislative: il panorama politico poteva apparire variegato ma, di fatto, lo scontro elettorale avvenne solo tra esponenti della stessa classe sociale intenti a salvaguardare i propri interessi economici e non a trasformare il Paese. Il Blocco nazionale ottenne la maggioranza e nel 1948 Šukrī al-Quwatlī fu rieletto Presidente della neonata Repubblica parlamentare, democratica ed indipendente della Siria.
Il territorio siriano, sin dalla sua indipendenza e negli anni subito successivi all’autonomia, fu caratterizzato da una forte instabilità istituzionale e politica: è in questo clima di grande fermento culturale che il 7 aprile 1947 vide la nascita il Partito del Risorgimento arabo Socialista della Resurrezione, il Ba’th, un partito politico panarabo, fondato dai siriani MichelʿAflaq e Ṣalāḥ al-Dīn al-Bīṭār. Per il primo decennio, le sue dimensioni furono ancora trascurabili ma successivamente furono sempre di più i cristiani, sunniti, insegnanti, studenti, medici e avvocati che vi aderirono, fino a giungere alla rispettabile cifra di 4.500 simpatizzanti tra la stessa Siria, l’Iraq e la Giordania. Il Ba’th elaborò una dottrina politico-filosofica “spirituale” [2], ripudiando ogni forma di lotta di classe, considerata come fattore di conflitti e divisioni interne ma tutelando il diritto alla proprietà privata e alla libera iniziativa in campo economico.
Nel 1961, a seguito del fallimento della RAU – la Repubblica Araba Unita [3] creata dall’unione tra Egitto e Siria – Ḥāfiẓ al-Assad si unì al partito militante del Ba’th, che non fu affatto l’unica forza politica della Siria, ma lasciò la più profonda impronta sulla storia moderna del Paese. In effetti, la storia di mezzo secolo di Ba’th è parallela alla storia della moderna Siria stessa. Il governo si rivelò un regime indubbiamente forte, subendo una sostanziale rivoluzione dall’alto che ha altresì mantenuto, nel corso del tempo, una coerente politica economica ed estera nonostante le sostanziali trasformazioni a causa dei numerosi eventi storici susseguitisi durante gli anni: la rivolta islamica, l’opposizione nasserista degli anni Settanta, la stagnazione economica degli anni Ottanta, la fine degli aiuti e della protezione da parte dei sovietici durante la guerra fredda, la globalizzazione economica e la democratizzazione di fine degli anni Novanta.
Nel 1966, a 30 anni, grazie alla sua brillante carriera politica, Assad era già stato nominato generale, poi capo dell’aviazione ed in breve diventò Ministro della Difesa del suo Paese: fu pertanto responsabile della distruzione dell’aviazione siriana e della perdita sulle alture del Golan durante la Guerra di Sei giorni contro Israele, nel 1967. Infatti, nel 1965, mentre Israele stava per completare il suo National Water Carrier, una linea di canalizzazione ed irrigazione delle acque che dal mare di Galilea e dal fiume Giordano avrebbe trasportato acqua verso l’arida zona sud del Paese, la Siria minacciò guerra per così ostacolare la costruzione proprio di quella linea di trasporto che avrebbe consentito al piccolo e giovane stato di Israele di consolidare la sua esistenza ed assorbire i futuri immigrati. Attraverso l’ausilio delle Nazioni Unite, gli allora governanti conservatori siriani riuscirono a bloccare il progetto poco prima della sua realizzazione e, sia l’Egitto che l’Unione Sovietica, a metà maggio 1967, organizzarono la rimilitarizzazione del Sinai per dissuadere Israele da un’eventuale azione. Ma l’esercito a disposizione del ministro era impreparato ad affrontare un qualsiasi genere di conflitto, con una forza di cinquantamila uomini ancora poco addestrata, formata a “buon mercato” [4] dall’Armata rossa sovietica.
Se dal 1948 la Siria subì una sorta di rivoluzione permanente, isolata anche nel mondo arabo e fornita anche militarmente dall’Unione di Sovietica, Israele fu invece fortemente modellata dal leader David Ben Gurion con potenti alleati in ogni continente e, nel decennio della campagna di Suez, costruì un valido esercito di superiorità incontrastata. Secondo un report del 1967, lo Stato maggiore americano valutò la potenza dell’esercito militare israeliano, imbattibile «da qualsiasi coalizione di Stati arabi almeno per i prossimi cinque anni» [5]. Dunque, Ḥāfiẓ al-Assad era consapevole che la Siria non avrebbe mai potuto resistere all’attacco di un nemico sempre più forte, che perseguiva il suo interesse nazionale indipendentemente dagli interessi degli altri Paesi.
La Siria svolse un ruolo principale nella guerra arabo-israeliana, si unì ad Anwar al-Sadat, presidente dell’Egitto, uno degli Stati arabi allora militarmente più potente, che condivise l’interesse di al-Assad per il recupero dei territori occupati. Nasser, in vista di un probabile attacco da parte di Israele, ordinò subito al suo esercito di disporsi lungo il deserto del Sinai e di chiudere il passaggio lungo gli stretti di Tiran – nella zona di Sharm el-Sheikh – alle navi israeliane, unico sbocco sul mare nel sud del Paese. Il blocco degli stretti di Tiran fu l’elemento scatenante della guerra. Israele, di rimando, costituì un governo di unità nazionale al fine di ripristinare la libera circolazione negli stretti e difendere i confini dello Stato da assalti militari. Il 5 giugno, il comandante del 55° reggimento dei paracadutisti dell’aviazione israeliana ordinò alle sue truppe di entrare a Gerusalemme, conquistata già il secondo giorno del conflitto. La guerra continuò: furono lanciate numerose incursioni aeree contro le difese siriane per conquistare anche le alture del Golan. La flotta egiziana, l’esercito giordano e l’aviazione siriana furono in breve decimati, sbaragliando i nemici in poche ore. Anche gli israeliani subirono perdite non indifferenti ma la disfatta egiziana fu catastrofica: si conta che il presidente Nasser perse l’85% della propria aviazione. Per scongiurare ulteriori perdite, l’Egitto accettò la risoluzione ONU n. 242 del cessate il fuoco, così anche la Siria, due giorni dopo. Recuperare le alture del Golan diventò uno degli obiettivi del ministero siriano di Ḥāfiẓ al-Assad.
La guerra fu esibita dal governo come una vittoria, nonostante le pesanti perdite subìte dall’avanzata israeliana. La Siria non riuscì a recuperare militarmente il Golan, ma ottenne la mediazione diplomatica dal Segretario di Stato USA Henry Kissinger, affinché Israele si ritirasse dai territori delle alture occupati. Lo stesso diplomatico, dopo diverse ore passate a negoziare, definì al-Assad il “Bismark d’Oriente”, aggiungendo a tal riguardo: «in the Middle East there can be no war without Egypt and no peace without Syria» [6]. L’accordo di disimpegno delle alture del 1974 con Israele fu visto come un primo passo nel ritiro totale da parte di Israele. Tuttavia, i successivi accordi separati di Sadat con Israele minarono ulteriormente la leva diplomatica siriana e frantumarono l’alleanza siro-egiziana necessaria per fare pressione su Israele in un accordo globale. Una volta che i negoziati separati si esaurirono con i processi di pace, Assad mirò a impedire la legittimazione del “processo di Camp David” [7], rivendicando l’aiuto arabo e il sostegno a cui la Siria aveva diritto: un finanziamento destinato alla ricostruzione militare, che puntava dunque ad una parità tattica con Israele.
Inoltre, Damasco ostacolò tutti i tentativi di accordi israeliani parziali o separati con altri Stati che cercarono di eludere la Siria. Questo intervento voleva dimostrare che il Paese guidato da Ḥāfiẓ, qualora non fosse riuscito a raggiungere un accordo arabo-israeliano, avrebbe almeno prevenuto il danneggiamento dei propri interessi. Ciò, complice la posizione assunta dalla Siria alleata dell’Iran nella guerra contro l’Iraq, isolò il Paese dal resto delle potenze arabe e occidentali. Per gran parte degli anni Ottanta, la Siria mancò di una propria leva diplomatica per far avanzare i suoi obiettivi ed interessi nella lotta contro Israele.
La guerra civile giordana, conosciuta nel mondo arabo anche come Settembre nero del 1970, coincise con una grave crisi interna al partito siriano che diede al generale Hāfiz al-Assad l’occasione per affermare definitivamente il proprio potere in Siria. La guerra fu un tentativo da parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e del Fronte popolare più radicale di rovesciare il governo del re Hussein ed altresì acquisire il controllo del Paese. Nel 1967, l’OLP stabilì la sua sede in Giordania, laddove metà della popolazione era costituita da rifugiati palestinesi. Solo grazie all’appoggio israeliano, statunitense e britannico, Ḥusayn riuscì a sradicare le basi della guerriglia mettendo fine alla presenza organizzata dei Palestinesi in Giordania. Dopo settimane di combattimenti continui tra le due parti, il re hashemita mise in atto una brutale repressione a larga scala contro le organizzazioni palestinesi, accusate di voler rovesciare il potere ed abrogò tutti i poteri fino ad allora costituiti, scatenando uno sciopero generale di protesta da parte dell’OLP, guidato in prima linea da Arafat.
Il 15 marzo 1972, sconfitti i palestinesi, Ḥusayn si proclamò re di un Regno arabo unito comprendente la Giordania e una regione palestinese, rivendicando la rappresentanza delle istanze del popolo palestinese, in opposizione ad Arafat [8]. Assad condannò duramente l’azione del Re, prendendo le difese dell’OLP. Il Partito si divise così tra la necessità di un appoggio armato alle organizzazioni palestinesi, con l’invio di più di un centinaio di carri armati in Giordania e la posizione del Ministro della Difesa Assad, il quale sosteneva, invece, il ritiro delle truppe.
In questo momento di scontro politico, Ḥāfiẓ al-Assad non esitò ad escludere i rivali politici e, con l’appoggio indiscusso dell’esercito, degli alawiti di Lādhiqīyah e dei drusi del Gebl al-Durūz, il 13 novembre del 1970, consolidò maggiormente la sua posizione politica già predominante e da leader del Partito assunse i pieni poteri in Siria [9]. Con un golpe militare, il generale Ḥāfiẓ al-Assad si autoproclamerà primo presidente alawita della storia siriana e orientò immediatamente il Paese verso una politica economica di natura socialista.
In politica interna, Hafiz Assad perseguì una duplice strategia di investimenti pubblici simultanei e di liberalizzazione economica, volta a preservare la capacità del regime di controllare l’economia e soddisfare la sua circoscrizione, incoraggiò gli investimenti della borghesia finanziando così l’industrializzazione del settore pubblico nel 1970 e, allo stesso tempo, la liberalizzazione degli scambi aprì la Siria alle importazioni occidentali, alimentando il rilancio del settore privato e la proliferazione di una classe compradora.
Le stesse strategie con cui il regime si consolidò si rivelarono, però, le stesse contro cui difendersi. Inoltre, negli ex leader politici, marginalizzati dal consolidamento del potere, cominciò a germogliare la speranza di offrire un’alternativa in caso di oltraggio al regime. L’unica formazione politica che avrebbe potuto osteggiare le politiche sempre più oppressive del regime siriano era il Fronte Socialista Islamico, al-Ikhwan, formato nel 1949 dalla Fratellanza Musulmana [10]. Nonostante mancassero di un’autorità permanente o indiscussa, i Fratelli Musulmani furono tuttavia uomini di abile organizzazione, i quali sostituirono la struttura informale del movimento costituendo uffici, catene di comando, corpi rappresentativi e celle di combattimento. Il primo compito della rivoluzione islamica guidata dall’Ikhwan fu una jihad per liberare la Siria della dittatura militare guidata dai miscredenti alawiti. I fondamentalisti religiosi etichettarono Assad come “un ateo maronita”, nemico di Allah e, tra il 1977 e il 1982, i militanti avviarono contro lo Stato una serie di proteste sempre più sostenute e violente: assassinii, sabotaggi, scioperi e ribellioni di massa localizzate nelle città di Homs, Idlib, Latakia, Deirez-Zor, Maaret-en-Namen, Jisrash-Shagoure e ad Hamā.
In quest’ultima, il 2 febbraio del 1982 i combattenti fondamentalisti, di stragrande maggioranza sunnita, e circa 150 ufficiali si opposero ai ba’thisti, 300 militanti e numerosi impiegati statali furono arrestati, sospetti sostenitori del regime. La Siria insorse contro il Presidente, proclamando Hamā “città liberata”. Le aspre rappresaglie di risposta, le numerose esecuzioni di massa di ribelli da parte delle forze armate del regime, guidate e organizzate dal fratello stesso del Presidente , Rifa’at al-Assad, divennero tristemente note. La fallita rivoluzione islamica arrestò lo sviluppo dello Stato Ba’th; da un lato, la liberalizzazione iniziata nel 1970 fu interrotta mentre la ribellione rese tesi i rapporti con la borghesia e costrinse il regime a ritirarsi, almeno temporaneamente, sulle sue linee politiche, aumentando il livello di controllo e repressione: Assad istituì un organizzato sistema di sicurezza – aḥǧizāt al-mukhābarāt – e di agenzie d’intelligence; reparti militari d’élite ebbero il compito di coordinare le istituzioni ufficiali della repubblica, eliminare qualsiasi tipo di opposizione politica che potesse mettere in crisi la continuità del regime, assicurarne la solidità interna detenendo il potere reale.
L’ascesa al potere di Assad segnò una rottura importante nella gestione politica estera siriana: i governi pre-Ba’th furono troppo deboli per contemplare la guerra o la pace con Israele mentre i radicali di Ba’th si prefissarono obiettivi realistici e ambiziosi quali il recupero delle terre occupate, soprattutto delle alture Golan, il riconoscimento dei diritti palestinesi, in particolare in Cisgiordania e Gaza, e una pace globale ai sensi della risoluzione 242 delle Nazioni Unite [11.]. Il trionfo del realismo fu evidente nelle decisioni iniziali di Assad; egli tentò più efficacemente il contenimento del potere israeliano attraverso la deterrenza e le alleanze militari che dimostrò nella guerra del 1973: le forze siriane attaccarono il Golan ma non fecero alcun tentativo, nonostante l’opportunità, di avanzare nella stessa Israele.
Lungi dall’essere un rivoluzionario panarabo, Assad dimostrò una grande tenacia nel dispiegare i mezzi più economici e meno rischiosi possibili per perseguire i suoi obiettivi: recuperare le perdite territoriali, mantenere un equilibrio di potere contro le minacce, rifiutare un qualsiasi ritiro israeliano inferiore alle linee del 1967 e altresì un accordo separato con Israele a spese dei palestinesi, utilizzando una varietà di strumenti di politica estera quali ostruzioni, negoziazioni e alleanze che, a prescindere dall’ideologia, gli permisero la mobilitazione di risorse da parte di diversi Stati. Sebbene estremamente diffidente nei confronti delle insite insidie della negoziazione con Israele, il Raʾīs fu sempre pronto a contrattare per ottenere qualche vantaggio nel momento in cui vi fossero in gioco interessi vitali; in caso contrario, si dimostrò un uomo di grande pazienza, preferendo aspettare situazioni più stabili o equilibrate ed adattandosi efficacemente ai mutevoli e solitamente sfavorevoli equilibri di potere. Si dimostrò estremamente abile nello sfruttare la rivalità di superpotenze per ottenere i mezzi opportuni per un’efficace politica estera che altrimenti non sarebbe stata sostenuta.
Considerando l’importanza del potere militare decisivo nella politica internazionale, Assad mirò dunque ad un significativo potenziamento del proprio arsenale, non solo come deterrente contro Israele, ma anche per dare maggiore credibilità alla sua diplomazia. Dato il sostegno americano ad Israele, uno stretto allineamento sovietico fu naturale in un mondo bipolare. Il protettorato dell’Unione Sovietica ebbe un effetto deterrente, cruciale sulla libertà d’azione di Israele contro la Siria. Nonostante i rapporti difficoltosi con gli Stati Uniti, Assad cercò tuttavia di sfruttare i timori degli Stati Uniti inerenti l’instabilità del Medio Oriente per spingere gli americani a ritirare le truppe israeliane dai territori occupati. Egli sfruttò la necessità di Bush, nella Guerra del Golfo, di un appoggio siriano per la coalizione anti-Saddam placando, così, le paure americane in un momento in cui il potere sovietico era in declino.
Convinto che Israele non avrebbe mai ritirato le proprie truppe dai territori occupati, Assad perseguì la scopo di preparare una guerra convenzionale per riconquistare il Golan. A tal fine, la ricostruzione del distrutto esercito siriano doveva essere la prima priorità, mantenendo sempre la stretta l’alleanza con l’Unione Sovietica per il rifornimento di armi. Mise da parte la guerra fredda ideologica contro i radicali e forgiò nuove alleanze con gli Stati petroliferi arabi che gli assicurarono il finanziamento necessario per la ripartizione militare.
La strategia di lotta contro Israele permeò anche la volontà di aderire alla coalizione anti-Iraq guidata dagli occidentali. La Siria dipendeva largamente dal sostegno economico saudita che diventò ancora più forte nel momento in cui i legami con il blocco orientale si allentarono. Assad non permise mai a fattori economici di dettare decisioni strategiche: in questo caso, tuttavia, il sostegno saudita era così indispensabile per il mantenimento della posizione strategica della Siria nella battaglia con Israele che i fattori economici e strategici divennero indistinguibili. Allo stesso modo la rivalità tra Siria e Iraq, pur apparentemente importante per la decisione di Assad, è di per sé una spiegazione insufficiente.
In definitiva, la politica della Siria fu plasmata in modo più decisivo e strategico dopo la guerra fredda. Negli anni ’90, il ritiro dell’URSS come una protezione affidabile e sicuro fornitore di armi, aiuti e fonte di mercati, privò la Siria di un valido alleato. Assad non ebbe altra scelta che riparare i legami economici con l’Occidente. Da quel momento in poi, la lotta tra Siria e Israele avrebbe assunto una struttura più diplomatica e, di conseguenza, una significativa distensione con gli Stati Uniti. Assad necessitava che gli Stati Uniti accettassero la Siria come chiave per la pace e la stabilità in Medio Oriente, riconoscendo così i propri interessi legittimi in equo accordo con Israele. L’apparente contraddizione tra le norme panarabe e l’atteggiamento siriano fu risolta nella misura in cui la posizione di potere della Siria nella lotta contro Israele coincise con l’interesse nazionale arabo. È plausibile accettare che ci fosse una considerevole sovrapposizione tra i due in un momento in cui la Siria costituiva l’unica potenza araba che ancora tentava attivamente di contenere il potere israeliano, rifiutando una pace separata a scapito dei diritti palestinesi.
Hafiz Assad si spense il 10 giugno del 2000 e, dopo una serie di riforme, decreti-chiave ad hoc – quale l’abbassamento dell’età costituzionalmente richiesta per la presidenza, la veloce sostituzione dei vecchi membri dell’esercito, di guardie e capi della sicurezza – Bashar Assad venne eletto secondo Presidente della Repubblica all’età di 34 anni.
È possibile identificare alcune aree di continuità e altre in cui la politica di Bašār al-Assad cominciò a discostarsi da quella del padre. Urgente tra le questioni di politica estera fu, sicuramente, il processo di pace arabo-israeliano, in situazione di stallo. La seconda intifada, dopo la visita di Ariel Sharon alla moschea di al-Aqṣā nel settembre 2000, validò il concetto ufficiale siriano su come condurre la pace con Israele, basato sulla formula della “pace per la terra” [12], inclusa nelle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La seconda intifada rappresentò una seria sfida per Bašār che intensificò la sua retorica contro Israele, sostenendo il diritto di vendicarsi ed impiegando finanche l’attacco israeliano per mettere a tacere le crescenti critiche sulla presenza militare in Libano.
La Siria aveva investito notevolmente nel sostegno militare ed economico al movimento Ḥizb Allāh per garantire l’inseparabilità dei siriani e dei libanesi sia durante la lotta contro Israele che nei successivi processi di pace: il loro disarmo significava perdere un considerevole potere di contrattazione. Il movimento contro la rappresentanza militare siriana prese una forma popolare quando, nella primavera del 2001, migliaia di studenti organizzarono sit-in e dimostrazioni di protesta. Il 14 giugno, diverse migliaia di truppe siriane evacuarono le sedi intorno Beirut e le restituirono all’esercito libanese: secondo la spiegazione ufficiale fornita, si trattò di un’equa “ridistribuzione”[13] tra i due presidenti ma, in realtà, diversi furono i fattori nascosti dietro questa azione. In primo luogo, una tale mossa era prevista già da oltre un anno ma la morte di Assad senior e la prima ritirata israeliana dal sud libanese la ritardarono. In secondo luogo, le proteste contro l’influenza siriana in Libano e le nuove violenze nei territori occupati convinsero Assad a portare avanti il progetto per non spaccare governo ed opposizione. La ridistribuzione non mise fine al dibattito in Libano il quale fu trascinato in una grave crisi politica. Il neopresidente cercò una cooperazione economica, commerciale, scientifica, tecnica e culturale anche con l’Iraq, la quale necessitava anche della sicura cooperazione siriana nella sua battaglia.
Dopo aver assunto la presidenza, il giovane Bašār dovette dimostrare a sé stesso di essere un leader legittimo e non solo il figlio del defunto Presidente. Egli, di fronte alla necessità di riformare il sistema politico ed economico, avrebbe potuto intraprendere una delle seguenti strategie: tracciare un percorso segnato da radicali e profonde trasformazioni, simultanee in diverse aree, oppure apportare principalmente modifiche di carattere puramente estetico per mantenere il proprio status quo. Quest’ultima possibilità si dimostrò essere sicuramente la più sicura, al fine di evitare la rivolta ed ogni possibile colpo sinistro da capi di forze armate e della sicurezza, minacciate dalla perdita dei loro privilegi. Bašār adottò però una via di mezzo: il nuovo leader introdusse alcune riforme, specialmente in campo economico, preservando la struttura politica del Paese. Durante i primi sei mesi del mandato di Bašār, il governo mosse i primi passi positivi verso la liberalizzazione, avviando una serie di cambiamenti e di riforme democratiche. La democrazia fu più volte enfatizzata ed elencata come condizione per la riforma economica, nonché per la liberazione dei territori occupati, essendo definita una democrazia che includeva «trasparenza, pluralismo politico e dei media, società civile, stato di diritto, separazione dei poteri e elezioni libere sotto controllo indipendente» [14].
Sulla scia della rivoluzione dei gelsomini in Tunisia, nel 2010, proteste antigovernative e sollevazioni popolari esplosero con tutto il loro impeto, a catena, in diversi Paesi del Medio Oriente: dal Nord Africa al Golfo Persico fino a raggiungere anche la Siria. Il 15 marzo 2011, un desiderio rivoluzionario di libertà, democrazia e dignità, dopo quarant’anni di regime autoritario da parte degli alawiti Assad, toccò altresì Dara‘a: alcuni giovani studenti dipinsero sul muro della loro scuola slogan [15] inneggianti la caduta del regime di Bašār al-Assad e il loro sostegno alla primavera araba. Dapprima manifestazioni pacifiche, le proteste chiedevano al Presidente un nuovo corso di riforme in senso democratico. Tuttavia le manifestazioni, di carattere essenzialmente laico, si trasformarono in proteste e le proteste in rivoluzione come dissenso al regime e contro lo stato di emergenza imposto nel 1963 dal colpo di stato ba’thista, mai revocato.
In pochi mesi la rivoluzione si propagò a macchia d’olio in tutto il Paese, fino a trasformarsi, nel 2012, in una vera e propria guerra civile [16]. Il governo siriano, che fino ad allora aveva governato il popolo con pugno di ferro, rispose alle proteste uccidendo centinaia di manifestanti e imprigionandone molti altri. Nel luglio 2011, i disertori dell’esercito annunciarono la formazione dell’Esercito Siriano Libero, un gruppo ribelle volto a rovesciare il governo; fu così che la Siria iniziò a scivolare nella lunga e drammatica spirale della guerra civile. Sebbene l’ESL costituisse l’ossatura dell’opposizione armata, in Siria si istituirono altri gruppi paralleli, operanti in maniera più autonoma, gruppi di estremisti islamici – salaiti-takiri – ormai radicati in alcune regioni del Paese. Tra essi quello più noto fu il gruppo Ǧabhat al-Nuṣr, composto da affiliati all’organizzazione terroristica di al-Qā’ida, e da membri siriani i quali miravano all’instaurazione di uno Stato islamico basato sulla sharia, vedendo nella crisi siriana l’opportunità di rovesciare il governo di Assad.
I militanti islamici cominciarono a essere al centro dell’attenzione internazionale: nell’aprile dello stesso anno, Abu Bakr al-Baghdādī, il leader di al-Qāʿida in Iraq, dichiarò che avrebbe unito le sue forze in Iraq e in Siria sotto il nome di Stato Islamico in Iraq e Levante (IS, noto anche come Stato Islamico in Iraq e Siria, ISIS). Egli incluse sotto il comando del nuovo gruppo anche il Fronte al-Nuṣrah, ma questo rifiutò la fusione e i due gruppi finirono per combattere tra loro. Il gruppo Stato islamico non nacque solo come espressione di fanatismo religioso: la sua creazione fu il frutto di un piano di conquista del potere, ideato da un ex ufficiale dei servizi segreti di Saddam Hussein. Pian piano, il gruppo Stato islamico cominciò ad espandersi in sordina, con l’apertura di diversi campi di addestramento militare in numerose località. Il gruppo si espanse senza incontrare resistenze da parte dei ribelli siriani, quasi paralizzati di fronte al sinistro potere dei jihadisti.
L’ISIS, così, si trasformò in una minaccia strategica di prim’ordine che sfruttava il vuoto creato dall’assenza dello Stato facendo leva sulla perdita del sentimento di appartenenza nazionale in Siria e in Iraq, sull’influenza sempre più debole delle grandi potenze nella regione e sull’assenza di una leadership sunnita autorevole o sostenuta da un ampio consenso. L’insurrezione siriana nel marzo del 2011 consentì agli integralisti islamici, prima quelli di tipo tradizionale, poi quelli più radicali, di inserirsi nella ribellione. Il Paese rappresenta un terreno decisivo per le reti globali di estremisti poiché permette a gruppi locali, regionali e internazionali di stabilire basi sicure per addestrare reclute, coordinarsi a livello mondiale e condurre operazioni dentro e fuori la Siria. I ribelli che combatterono contro Assad non ebbero mai l’identità forte che si era creata lo Stato islamico. L’Esercito Siriano Libero – formato da quei disertori che per primi ebbero il coraggio di combattere una guerra quasi impossibile – subì gli attacchi dei fondamentalisti, perdendo il suo principale obiettivo. I siriani non ebbero più voce in capitolo: prosciugati di tutte le loro risorse e affamati, non restò loro solo che ubbidire e subìre. La volontà di creare uno Stato laico di musulmani sunniti, dove la maggioranza governasse sulle minoranze in nome di una rivoluzione laica, svanì velocemente, le ideologie diventarono irrilevanti. Bašār al-Assad continuò a diffondere terrore e morte in Siria tra coloro che furono e continuano a essergli ostili, sia in patria sia all’estero.
In un momento in cui le priorità furono tutt’altre, Assad organizzò meticolosamente la sua rielezione alla guida del Paese, spingendo il suo cinismo fino a conferire al voto una presunta cornice democratica. Con l’88,7% di consensi, il Presidente conquistò un nuovo mandato di sette anni. I funzionari russi gli assicurarono il sostegno nei processi politici siriani. Fin dai primi giorni dell’intervento militare russo in Siria fu chiaro che l’obiettivo di Putin non puntò alla distruzione dello Stato islamico, piuttosto a mantenere Assad al potere. L’aviazione russa attaccò tutti i ribelli che minacciarono Assad e il suo regime, eliminando una delle poche alternative, se non l’unica, al sanguinoso apparato repressivo del dittatore di Damasco. E a colpire furono pure gli alleati siriani dell’Occidente. Putin fu disposto ad oltrepassare i limiti e a rischiare la vita sia dei suoi soldati sia dei civili siriani non per mettere fine alla guerra ma per realizzare i suoi obiettivi di politica estera. La decisione russa, cinica e senza scrupoli, d’intervenire in Siria evidenziò dunque i limiti di una politica estera occidentale che preferiva, invece, evitare lo scontro militare. Con ogni probabilità il viaggio di Bašār al-Assad a Mosca del 20 ottobre e poi, successivamente, quello nel 2017 a Sochi, furono occasioni per discutere degli aspetti militari della crisi siriana ed altresì per mettere a punto le proposte che Mosca volle avanzare insieme a Damasco per trovare una soluzione politica alla crisi. Ovvero dell’organizzazione di elezioni, di un cambiamento di configurazione del potere in Siria, di un bilanciamento tra sunniti e alawiti e del coinvolgimento, nel governo di Damasco, di figure più accettabili per gli altri Paesi della regione e, probabilmente, anche di un lungo periodo di transizione. Putin incoraggiò Assad a lavorare per una soluzione politica duratura. «La cosa principale è passare ai processi politici – affermò Putin riferendosi ad Assad – sono lieto di vedere la tua disponibilità a lavorare con tutti coloro che desiderano stabilire la pace e trovare soluzioni» [17]. Eppure, a sette anni dall’inizio della guerra civile, nonostante i molti tentativi sia da parte dell’ONU che delle potenze regionali e non, la pace in Siria sembra ancora un miraggio.
Quella che nacque come una rivolta pacifica si è trasformata in una delle guerre più preoccupanti della storia contemporanea, in cui tutte le speranze sono state soffocate dal ritorno crudele e vendicativo dello Stato tirannico. Gli interventi stranieri hanno prolungato il ciclo di violenza e impedito alla guerra di seguire il suo corso naturale, creando una situazione di stallo. La paura di un futuro politico incerto e la minaccia della rappresaglia post-vittoria hanno spinto i ribelli a combattere. Il Paese è adesso diviso in quattro zone principali: le regioni occidentali e meridionali della Siria sono rimaste sotto il controllo del regime; gran parte delle aree orientali è passato sotto il controllo di Daesh, il gruppo Stato islamico; le aree settentrionali sono state occupate da gruppi curdi mentre le forze di opposizione hanno mantenuto la presa nella parte occidentale del Paese intorno a Aleppo, Homs, Damasco e Dar’a.
Guardando oltre il complesso labirinto di interessi contrastanti, è tuttavia difficile immaginare uno scenario in cui la Siria sia frammentata al punto tale in cui, da zone autonome, emergano nuovi Stati: la stretta vicinanza tra Russia e Turchia è una buona indicazione di questo improbabile scenario ed altresì l’Iran potrebbe rifiutare di dare qualche speranza alla popolazione curda per la formazione di un nuovo Stato. Questo forse è uno dei principali punti di accordo tra i tre principali Paesi, soprattutto perché le relazioni tra Ankara e Mosca sembrano essere diventate sempre più forti. Forse il decentramento è inevitabile, forse la Siria può essere ricucita di nuovo insieme. Qualunque sia il risultato, l’area troppo importante per essere lasciata in balia di sé stessa. I francesi e gli inglesi lo sapevano meglio di chiunque altro, quando scolpirono la regione per soddisfare le loro ambizioni coloniali cento anni fa. Ora, come allora, il destino della Siria sembra prigioniero del disegno coloniale di un’altra superpotenza globale che ricerca la gloria imperiale del passato. Mentre il coinvolgimento della Russia potrebbe essere attribuito all’influenza proiettiva e al riacquisto del suo status di superpotenza globale, gli interessi della Turchia sono stati più immediati, impegnata in operazioni militari contro le forze del Daesh e i separatisti curdi.
In assenza di un sensibile miglioramento economico, è probabile che la maggior parte dei rifugiati siriani rimanga nei Paesi ospitanti laddove, ogni giorno, nuovi arrivati si uniscono a loro. Si contano già 7 milioni di rifugiati – 5,5 milioni registrati presso l’UNHCR e quasi un milione di richiedenti asilo in Europa – e una Siria abbandonata da circa 12 milioni di persone su una popolazione stimata di circa 23 milioni [18 ].