di Mariano Fresta
Alla fine della seconda guerra mondiale, presagendo quasi le profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali che avrebbero in meno di un decennio investito l’Italia, un gruppo di giovani intellettuali, tra cui Umberto Eco, Italo Calvino, Roberto Leydi, Luciano Berio, si posero il problema di come fare uscire la Nazione da una cultura invecchiata, legata fortemente al mondo contadino, per dargliene un’altra che tenesse di conto sia le novità che venivano dall’estero, soprattutto dai Paesi angloamericani, sia delle scoperte scientifiche e tecnologiche, ma nello stesso tempo senza negare le tradizioni culturali italiane, anzi cercando di innestare su di esse quanto di nuovo si stava sviluppando.
Pur se incentrato sulla figura dell’etnomusicologo, il libro di Domenico Ferraro, Roberto Leydi e il “Sentite buona gente”. Musiche e cultura nel secondo dopoguerra (Squilibri, Roma 2015) tratta proprio dei tentativi effettuati in quegli anni per cercare di rendere moderna e sprovincializzare la cultura italiana. Alcuni di questi giovani intellettuali provarono personalmente a sperimentare queste innovazioni: si pensi, per esempio, a Calvino, Fortini ed altri con l’esperienza dei Cantacronache; oppure a Berio con la trascrizione in linguaggio colto di canti popolari; allo stesso Eco che avrebbe preferito poi utilizzare più le modalità della cultura di massa piuttosto che del quelle del folklore.
Il dibattito e le sperimentazioni non sortirono effetti di rilievo a livello generale, ma i tentativi non si fermarono lì; anzi, dopo il 1968 e la nascita del fenomeno del folk revival e la “scoperta” di mondi culturali diversi, indigeni o esotici che fossero, il problema fu riproposto in modi un po’ più clamorosi e con prospettive, almeno all’apparenza, più realistiche.
Uno dei luoghi in cui la questione fu più fortemente dibattuta fu la parte meridionale della provincia di Siena, in particolar la città di Montepulciano e il piccolo borgo medievale di Monticchiello (frazione di Pienza). Ovviamente non ci fu nulla di organizzato e di voluto; solo il caso volle che quella zona, tra gli anni ‘70 e gli anni ‘90 del secolo scorso, fosse al centro dell’attenzione di chi pensava che la cultura dovesse essere alla base di qualsiasi azione politica. Il dibattito fu lungo ed ampio, ed ancora se ne sente l’eco; ma gli avvenimenti successivi hanno dimostrato che, forse si trattava, di un’utopia.
Il racconto degli accadimenti che interessarono quell’area sarà riportato nelle pagine seguenti, come testimonianza degli sforzi fatti per cercare di uscire dalla gabbia del conformismo e del consumismo. È del tutto superfluo avvertire che la cronaca non sarà immune da partigianeria, perché è il frutto di una non neutra ma molto partecipata osservazione.
Il Convegno di Montepulciano del 1974
A metà degli anni ‘70 del secolo scorso, l’avvenimento più importante fu certamente il «Convegno rassegna: Forme di spettacolo della tradizione popolare toscana e cultura moderna», che si svolse a Montepulciano nel novembre del 1974; ma prima del convegno erano già accaduti eventi significativi e dopo ne sarebbero avvenuti altri. Sul momento sembravano manifestazioni autonome e non collegate, ma, a guardarle a distanza di tanti anni, si possono considerare tutte complementari. Eccole elencate cronologicamente:
1967: nascita del Teatro Povero di Monticchiello;
1974: Convegno/Rassegna “Forme dello spettacolo della tradizione toscana e cultura moderna”, Montepulciano;
1974/75: Inizio della ricerca sul teatro popolare tradizionale e del suo contesto storico-sociale, da parte della Cattedra di Tradizioni popolari dell’Università di Siena;
1978: Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano.
Vorrei qui partire, però, dal Convegno del 1974, perché il dibattito che lì si svolse può essere considerato, col senno di poi, il centro teorico che avrebbe trovato in seguito, pur se inconsapevolmente, consistenza pratica negli altri eventi ricordati. Il convegno ebbe luogo proprio in un periodo di grande fermento culturale e politico in cui sembrava che la dicotomia della vecchia cultura da cui uscivamo, in parte contadina e in parte borghese, potesse essere sostituita da una cultura la cui impronta principale era data dai contenuti nati in seno alla classe operaia e alle sue lotte. Il mondo contadino in molte regioni italiane era già un ricordo del passato, ma aveva lasciato un grande patrimonio espressivo che circolava in Italia grazie ai Dischi del Sole e alle Edizioni dell’Avanti!.
In Toscana (e forse anche nelle altre regioni cosiddette “rosse”), con il perdurare della mezzadria fino agli anni ’60, la cultura contadina era ancora molto presente nella politica (molti ex mezzadri erano sindaci ed assessori di tanti comuni) e nei comportamenti sociali; da parte sua, il Sessantotto, avendo riscoperto le classi subalterne, le loro lotte e la loro cultura (fiabe tradizionali e canti popolari venivano ripresi dalla pedagogia e riempivano libri e riviste), sembrava indicarci la possibilità di connettere il mondo contadino con quello operaio.
Ci si chiese allora cosa fare del folklore, ovvero dei residui della cultura popolare che la cultura televisiva di massa non aveva ancora sepolto. Ci furono posizioni diverse: da una parte si attribuiva alla cultura folklorica una carica di sovversione e di opposizione a quella borghese (si parlava di “folklore come contestazione”); dall’altra si cercava di unificare la tradizione delle classi subalterne delle campagne con la cultura elaborata nelle fabbriche dagli operai: il connubio avrebbe dovuto dar vita ad una cultura nuova, la cui ispirazione era data dalla Resistenza e dalla Carta costituzionale. Questa seconda ipotesi sembrava più plausibile e più convincente.
Il Convegno si svolse proprio durante questo ampio dibattito: esso era stato promosso per parlare, a partire da quello toscano, del teatro popolare tradizionale che, malgrado la pochezza delle ricerche e degli studi in merito, sembrava, tra tutte le forme folkloriche, quella più adatta a facilitare l’innesto tra cultura popolare tradizionale e cultura moderna. Tra l’altro, nonostante la fine della vecchia società contadina, talune forme teatrali erano rimaste in vigore fino agli anni ’60, e altre erano ancora vive ed agite in Toscana e in altre regioni italiane. Per questo il teatro contadino appariva tra le tradizioni popolari quella che aveva maggiore possibilità di comunicazione e quindi qualche facoltà in più di poter essere utilizzata per veicolare contenuti moderni.
Il tema del convegno diventò così un dibattito su come si potesse passare dalla cultura tradizionale a quella moderna: le forme di spettacolo tradizionale toscano si mutarono in “teatro popolare” tout court, mentre restò immutata la seconda parte del tema: “cultura moderna”; un titolo questo che era molto indicativo del dibattito esplicito ed implicito di quegli anni e che sarebbe stato scelto per intitolare, successivamente, la stampa degli atti.
Nel convegno tuttavia non si discusse solo a livello teorico perché le serate furono occupate dalla rappresentazione di testi popolari (Bruscello, Vecchia, Maggio) e di spettacoli d’avanguardia (compagnie di Carlo Cecchi e di Leo De Berardinis – Perla Peragallo). Il confronto tra lo spettacolo tradizionale e quello contemporaneo doveva mostrare i confini fra le due culture e i modi e i mezzi con cui si potesse realizzare il passaggio dal folklore alla cultura moderna. Oltre allo spettacolo di De Berardinis e Peragallo, che si basava su un’improvvisazione esemplata sulla gestualità e la quotidianità del popolo napoletano, e quello di Cecchi che tradusse in forma molto raffinata una farsa di Antonio Petito, ci fu la performance di un gruppo teatrale perugino che propose il Segalavecchia della tradizione umbra in due versioni, una originale e l’altra in cui l’antico contenuto ritualistico era stato sostituito da argomentazioni a favore del divorzio, o a favore del rinnovamento delle politiche agrarie. In sostanza la seconda versione, nelle due manipolazioni, era servita per la propaganda elettorale a favore dell’allora PCI; e questo sembrava indicare la strada eventualmente da seguire. E così anche dopo gli spettacoli, fino a tarda notte, si continuò a dibattere con molta passione, tanto era l’urgenza di addivenire ad una soluzione culturale e politica.
Insomma, la confusione era grande sotto il cielo e perciò si era ottimisti … In certi momenti del convegno sembrava che tutto fosse facile: a vedere la Vecchia Segata tradizionale modificata in uno spettacolo a favore del divorzio o in quello in difesa di un’agricoltura meno speculativa, si era autorizzati a pensare che l’alterità dello spettacolo popolare potesse veicolare contenuti moderni. Ma nello stesso convegno c’era chi, come la Vibaek (che forse l’aveva già sperimentato a Palermo con l’Opera dei pupi), faceva osservare che se era facile usare come strumento di comunicazione attuale una forma comica come la Vecchia, diventava impossibile assegnare alle azioni cerimoniali (Befanata, Maggiolata) e soprattutto ai Maggi drammatici e ai Bruscelli epici funzioni diverse da quelle svolte nelle comunità tradizionali, perché, negli spettacoli drammatici, diceva sempre la Vibaek, qualsiasi contenuto si sarebbe ridotto ad un conflitto metatemporale e metafisico tra Bene e Male.
Un convegno, tuttavia, non è certamente il luogo più adatto ad elaborare tattiche e strategie per superare una crisi culturale come quella italiana degli anni ’60-80 del Novecento. Fu, comunque, un’occasione importante per fare incontrare per la prima volta studiosi del folklore, storici del teatro, animatori culturali, gente di teatro e amministratori di Enti locali, dai Comuni alla Regione. Risultati immediati e appariscenti non ve ne furono, ma per diversi anni il convegno fu ricordato, tra gli studiosi, come un incontro fondamentale e certamente dovette in qualche modo risvegliare la memoria della gente se negli anni successivi nel territorio senese si susseguirono molti fenomeni di revival.
Il ricordo positivo del convegno, oltre che per i temi dibattuti, fu dovuto anche alle modalità con cui si svolse l’incontro: solo tre o quattro relazioni introduttive e poi dibattito libero, nessun contributo già preparato, nessun atteggiamento accademico, ma solo interventi spontanei e puntuali. Fu pertanto anche difficile pubblicare gli atti del convegno secondo la tradizione editoriale; si scelse, quindi, di fare tre lunghe sintesi del dibattito, alle quali furono aggiunte le relazioni introduttive e qualche commento a latere. Gli atti uscirono dopo quattro anni, nel 1978; nel maggio dello stesso anno si svolse a Pisa un altro convegno sempre sul teatro popolare tradizionale. Questa volta, però, l’incontro fu più paludato: l’atmosfera vivace e battagliera di Montepulciano era lontana.
Si cominciò, allora, a prendere atto che le cose stavano andando diversamente da come avevamo immaginato nell’autunno del 1974. Oggi possiamo dire che si trattò di una sconfitta: gli errori di valutazione certamente hanno avuto un ruolo negativo nella partita che si stava giocando; ma il fatto è che i folkloristi e gli antropologi non avevano strumenti adatti non solo per capire sufficientemente, ma soprattutto per contrastare quello che stava per succedere. Tanto per essere polemici, fu soprattutto la sconfitta della politica e dei partiti politici, che non seppero o non vollero cogliere quelle proposte che venivano dalla società in fermento e che forse erano atte a portare a compimento il dettato della Costituzione.
Se, infatti, quelli furono gli anni esaltanti durante i quali in ogni parte d’Italia ci fu, oltre ad una serie di lotte sociali dagli esiti positivi, la fioritura di gruppi di riproposta folklorica, accompagnata da discussioni, libri, riflessioni, speranze, contemporaneamente l’abdicazione della politica dava adito al terrorismo, teorizzava il compromesso storico e partoriva il craxismo, ed infine produceva il cosiddetto riflusso. Il riflusso spesso prendeva i connotati di un ritorno, di tono idilliaco, al passato, alla campagna, alla cucina e ai mobili rustici, al ritirarsi nei piccoli paeselli, reali e virtuali, nel rinchiudersi nel proprio guscio, appagati della diffusione del boom e contenti di avere in casa una madia contadina comprata da qualche rigattiere e usata come mobile bar. E quel che è peggio, la scoperta del paese, la difesa dell’identità culturale e linguistica delle piccole comunità si avviava a diventare non solo una specie di ritiro pascoliano, dentro il borgo, nel podere isolato dalla siepe e dalla nebbia, ma anche la base della rovinosa ideologia leghista.
Quello che è accaduto dal 1975 in poi non poteva senza dubbio essere previsto dai folkloristi, né tanto meno poteva essere contrastato da un segalavecchia alternativo o dalla riproposta di Caterina Bueno. Di tutta quella attività sono rimasti, fortunatamente, alcuni musei della civiltà o della condizione contadina; e, per quanto riguarda il teatro popolare tradizionale, sono rimasti alcuni dei numerosissimi episodi di revival, ma confinati in nicchie areali ben definite e non sempre con quella carica di alterità necessaria a non farli ingabbiare negli schemi turistico-gastronomici.
Il Teatro Povero di Monticchiello
A Montepulciano e nel Sud della provincia di Siena i fermenti del ’68 arrivarono, come succede in provincia, con qualche anno di ritardo. Ma fu proprio dalla provincia più interna e precisamente da un piccolo villaggio medievale, Monticchiello, che partì un’iniziativa che in pochi anni avrebbe destato l’attenzione di studiosi e che si protrae fino ad oggi a cinquanta anni dalle origini. L’inizio fu tipico di una cultura paesana e parrocchiale: siccome non c’erano collegamenti stradali idonei tra il borgo medievale e i paesi vicini (le uniche strade erano quelle bianche, polverose d’estate, e tutte bucherellate e fangose d’inverno), per attirare l’attenzione degli Enti locali e della pubblica opinione, i monticchiellesi pensarono di organizzare degli spettacoli teatrali su temi locali, tra lo storico e il leggendario, recitati e agiti dagli stessi abitanti del villaggio.
Queste prime rappresentazioni non ebbero nessuna ripercussione culturale, né ebbero successo al di fuori del circondario; così nessuno allora pensò che il Teatro Povero potesse avere una risonanza nazionale e potesse far coesistere in sé elementi culturali diversi. Con gli spettacoli del 1970 e del 1971 le cose cambiarono: infatti, esauriti i temi tradizionali di Moranda e di Bronzone, i due personaggi leggendari di Monticchiello, gli abitanti del borgo cominciarono a rappresentare se stessi, prima con la sceneggiatura delle vicende belliche e del rischio di eccidio di massa del 6 aprile del 1944, poi con alcune vicende più o meno straordinarie riguardanti il mondo contadino, successivamente con temi di attualità politica, sociale e culturale ma sviluppati secondo un’ottica monticchiellese, cioè contadina e paesana.
Il metodo usato nella preparazione dello spettacolo del T.P.M. era piuttosto nuovo e per molti versi straordinario. Gli abitanti di Monticchiello a quel tempo erano meno di trecento, compresi quelli che risiedevano nelle campagne attorno al borgo. Nei mesi invernali veniva convocata una serie di assemblee degli abitanti, alle quali non tutti partecipavano, ma quei cinquanta/settanta monticchiellesi presenti agli incontri potevano legittimamente dire di rappresentare tutta la comunità. La prima assemblea aveva all’ordine del giorno l’individuazione del tema che lo spettacolo estivo avrebbe dovuto rappresentare. Ciascuno dei presenti poteva lanciare una proposta che veniva discussa da tutti. Alla fine dell’incontro il numero delle proposte si era considerevolmente ristretto. Nelle successive riunioni venivano approfonditi i temi rimasti in sospeso, fino a quando il tema definitivo non veniva approvato.
A questo punto le ulteriori assemblee servivano a sviluppare il tema: chi aveva delle idee, le avanzava; chi aveva delle esperienze di vita che avevano qualche legame col tema, le raccontava. Tutto era verbalizzato. Alle riunioni finali partecipava lo scrittore Mario Guidotti al quale era stato affidato il compito di stendere il testo e di drammatizzarlo. Dopodiché cominciavano le letture del testo, l’assegnazione delle parti e le prove, fino alla rappresentazione collocata sempre tra la fine di luglio e i primi di agosto. Da questo metodo di lavoro nacque il termine di “autodramma” con cui si definiscono i testi rappresentati a Monticchiello. Questo metodo è stato usato per la preparazione di tutti gli spettacoli recenti, anche i più recenti, pur se le presenze in assemblea si sono ridotte per vari motivi, forse per stanchezza.
Per tutti gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, spesso, per non dire sempre, il tono ideologico del testo non rifletteva che in parte quello della comunità, in stragrande maggioranza di orientamento comunista; il drammaturgo, invece, veniva dall’Azione Cattolica e da esperienze democristiane; era stato capo dell’ufficio stampa del Presidente della Camera dei Deputati, Brunetto Bucciarelli Ducci, dopo di che aveva continuato l’attività di addetto stampa anche con Nilde Iotti, Pietro Ingrao, Sandro Pertini e Giorgio Napolitano. Le ultime esperienze forse avevano modificato in parte la sua concezione del mondo che, tuttavia, restò sempre ancorata alla sua prima formazione culturale, cosicché nell’ultima stesura del testo teatrale di Monticchiello le punte ideologiche più politiche venivano smussate e i drammi si chiudevano sempre in maniera aperta, senza un giudizio finale conseguente ai temi rappresentati. Queste conclusioni così “ecumeniche” finirono per essere contestate dai monticchiellesi, i quali non si riconoscevano nel finale del dramma … Cosicché nei primi anni 80, essendosi acuiti i contrasti tra lo scrittore e gli attori del TP, Guidotti si dimise. Altri si incaricarono di scrivere i testi tenendo conto dello spirito che innervava le discussioni e i racconti durante le assemblee preparatorie.
Cosa ha a che fare il Teatro Povero con il teatro popolare tradizionale? Da un punto di vista della parentela forse nulla; o forse magari molto. Certamente esso non discende direttamente né dal Bruscello né dalla Vecchia, pur se in alcune rappresentazioni queste due forme di spettacolo contadino sono ricordate e citate. Non so se dopo la presenza di una sua delegazione, il gruppo del T.P. sia stato in qualche modo influenzato dalle discussioni in seno al convegno del 1974. Ho l’impressione di no: fatto sta che anche quando i testi del T.P. hanno affrontato tematiche moderne, a volte di cocente attualità, come l’esodo dalle campagne, la fine del mondo contadino e della sua cultura, la guerra e l’obiezione di coscienza, la chiusura dei manicomi, la speculazione edilizia e la difesa del paesaggio, esse sono state sempre discusse secondo la visione del mondo dei contadini.
L’habitat, diciamo così, e l’humus in cui il T. P. ha operato, è quello della cultura contadina e mezzadrile, il Bruscello e la Vecchia certamente sono dentro il DNA culturale dei Monticchiellesi; e questa peculiarità ha consentito loro di attraversare e di trattare anche le problematiche più lontane e più estranee al loro mondo, usando, insieme con l’esperienza accumulata durante il percorso della loro condizione esistenziale, il loro patrimonio culturale ed espressivo, dai racconti di veglia al linguaggio fortemente intriso di dialetto, dai canti della tradizione e dai proverbi all’impostazione della voce, dagli aneddoti di lavoro alla gestualità, dagli elementi di vita contadina e paesana alla cinetica e alla mimica. Nella loro performance, dunque, è possibile rilevare elementi comici propri della Vecchia e quelli epici propri del Bruscello. La cosa più importante è, però, il fatto che, nonostante la forte impronta che la cultura folklorica ha lasciato nei suoi copioni, il T.P. è riuscito a parlare del Bene e del Male non più immersi in una visione metatemporale e metafisica, com’erano nel Bruscello e nei Maggi drammatici e nell’Opera dei pupi di Janne Vibaek e Antonio Pasqualino, ma come elementi ancorati alla storia della propria comunità e alla morale di una comunità contadina e paesana. È, dunque, il Teatro Povero di Monticchiello una delle possibili vie indicate durante il dibattito al Convegno di Montepulciano del 1974?
Teatro popolare e mezzadria
Dopo il Convegno su teatro popolare e cultura moderna, sorse, trainato da un’inchiesta quasi a tappeto sul teatro tradizionale, un grande fervore di studi intorno alla mezzadria, nel cui sistema le forme toscane dello spettacolo popolare sembravano trovare il proprio terreno di coltura. Sul lato storico-economico c’erano nuovi studiosi (Pazzagli, Ciuffoletti, Anselmi, Poni, ecc.) che rileggevano i classici, come Serpieri, Sereni, Cianferoni, rivedendo però nello stesso tempo le testimonianze archivistiche e la storiografia e facendo tesoro della metodologia degli “annalisti” francesi e di quella dei primi approcci di “storia orale”. Il ritratto che ne veniva fuori non era più quello univoco, puramente economico basato sul “connubio tra capitale e lavoro” che gli studiosi di tutto l’Ottocento e di buona parte del Novecento avevano illustrato; adesso il sistema colonico si presentava come un mondo sfaccettato, in cui su uno sfondo economico-sociale di tipo feudale si rilevavano elementi eterogenei, che andavano dalla subalternità alla ribellione più o meno latente, da una mentalità ristretta a sprazzi di apertura sociale.
Da parte sua, l’antropologia culturale, che in quegli anni cominciava a far sentire la sua voce, dava vita ad inchieste che non riguardavano più l’espressività vista come tipica di un’anima ingenua e semplice, bensì come un sistema eterogeneo e non sistematico ma complesso e coerente con le condizioni materiali di vita. Da questi studi sono venuti fuori immagini ed elementi nuovi del mondo mezzadrile, come, per esempio, il teatro non più ritualistico, ma strumento di comunicazione e di costruzione identitaria; sono venute fuori le storie di vita, la doppia subalternità della donna, la ribellione mezzadrile, prima sorda e latente, poi sempre più aperta fino a sfociare nelle lotte contadine degli anni 1946-1955. E da tutto ciò venivano fuori anche le contraddizioni e gli equivoci degli anni 1945/1960, quando i mezzadri furono visti come la classe operaia delle regioni centrali, quelle rosse ancora caratterizzate da un’economia agricola, perché erano riusciti ad ottenere, a livello politico-amministrativo, conquiste che la classe operaia del Nord stentava ad acquisire.
Gli anni della cosiddetta “austerità”, dovuta alla crisi petrolifera, furono quelli in cui i vecchi contadini e i vecchi mezzadri rivolsero, a volte nostalgicamente, lo sguardo ai tempi precedenti e si accorsero che, malgrado le sconfitte pesanti come quella del movimento “la terra a chi la lavora”, essi erano riusciti a creare situazioni di benessere e di civiltà; questa presa di coscienza rivalutò ai loro occhi gli anni in cui erano stati subalterni, avevano subito soprusi e ingiustizie, avevano sofferto la miseria, perché questi enormi sacrifici avevano contribuito a realizzare una società meno misera e più moderna. E mentre prima ironizzavano sui cittadini che cercavano oggetti campagnoli da usare come soprammobili, adesso erano loro che mettevano da parte falci, pignatti, vanghe ed altri attrezzi, di cui prima si disfacevano, e davano vita alle prime raccolte e ai primi spontanei musei del lavoro contadino. Perché avevano capito che avevano contribuito a costruire la storia del proprio Paese e ne volevano lasciare una testimonianza.
Forse oggi sarebbe utile e necessario verificare se ancora resta qualcosa di quella coscienza oppure se questa ha fatto la stessa fine di molti musei della condizione contadina; così come sarebbe utile vedere che ne è oggi dell’immagine della mezzadria che è stata restituita dagli studi antropologici degli anni 1970-1990.
Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano
Werner Hans Henze, illustre compositore tedesco del Novecento, prima legato all’avanguardia musicale di Darmstadt, poi convertitosi ad una produzione “classicheggiante” e ben accetta all’orecchio dei più, a metà circa degli anni ’70 si innamorò così tanto della città di Montepulciano da pensare che essa potesse essere il luogo in cui realizzare la sua utopia. Dichiarava di essere comunista; era stato a Cuba a tagliare la canna nei primi tempi dell’embargo americano; credeva nella musica come strumento rivoluzionario, oltre che di elevazione culturale. La sua convinzione era che tutti potessero e dovessero fare musica, e che, una volta preparato il terreno, tutti potessero accedere alla musica, crearla e usarla, dapprima istruiti e seguiti da musicisti di professione, e poi da soli.
Il progetto piacque agli amministratori comunali di allora, che misero a disposizione del compositore una somma per allora cospicua. Fu così che nacque il “Cantiere internazionale d’arte”. Il nome dell’iniziativa, “cantiere”, era programmatico, in quanto concerti, spettacoli teatrali di prosa e musicali, balletti, ecc. dovevano essere ideati e prodotti in loco. Sotto la direzione artistica di Henze, da tutto il mondo vennero a Montepulciano i più illustri nomi della musica, del teatro, della danza, a prestare le loro competenze per la creazione di opere spesso di gran pregio, innovative, a volte anche d’avanguardia. Venivano perché chiamati da Henze, lavoravano e ideavano gratuitamente, bastava loro il vitto e l’alloggio messi a disposizione dal Comune. Si trattava, dunque, di una novità eccezionale nel campo dell’arte musicale e teatrale che voleva preludere ad una realtà in cui l’arte fosse a disposizione di tutti.
L’altro aspetto importante del Cantiere è che Henze volle che a produrre gli spettacoli non fossero solo i grandi artisti, ma che, con l’aiuto di questi, anche i locali si dessero da fare: così giovani e meno giovani di Montepulciano e dintorni si trasformarono in attori, musicisti, scenografi, elettricisti e datori di luci, ecc. L’Istituto comunale di musica moltiplicò i suoi iscritti, si dette vita ad una piccola orchestra; nacquero cori e gruppi teatrali; si formarono tecnici di teatro locali; in sostanza l’idea di Henze si è in parte realizzata.
Nei primi anni del Cantiere ci furono un paio di tentativi di inserire nel programma qualcosa che riguardasse la cultura popolare tradizionale. La prima opera ad essere presentata fu una Vecchia, o Segalavecchia, con un testo ripreso dal revival degli anni precedenti. L’esperienza non fu ben accetta da nessuno, perché, si disse, quella povera e goffa rappresentazione stonava con le altre opere che invece erano prodotte da una cultura alta e sofisticata. Fu poi la volta di uno spettacolo che, utilizzando canti della tradizione, ripercorreva la storia della società mezzadrile del precedente cinquantennio. La rappresentazione attuata da giovani intellettuali della zona era abbastanza decorosa, ma anche questa volta essa fu ritenuta indegna di far parte del programma così aulico del Cantiere. Ultimo tentativo fu quello di fornire ad Henze la registrazione di canti popolari perché nella composizione, che stava realizzando, dell’opera Pollicino, introducesse qualche rifacimento in chiave moderna di melodie tradizionali. Il risultato fu che in effetti nel Pollicino c’è un rimando alla musica da ballo tradizionale, ma è quello del risaputissimo e non folklorico Trescone “Svegliatevi dal sonno briaconi” … Con questa esperienza si chiuse il tentativo di far dialogare il folklore con le opere create per il Cantiere.
Dopo diversi anni di grandi successi internazionali, Henze decise che ormai a Montepulciano potevano fare senza di lui. Ma senza il nume tutelare non sono più venuti i grandi direttori d’orchestra, i grandi attori, i grandi registi, le grandi orchestre. E se venivano non si accontentavano più del vitto e dell’alloggio, volevano essere pagati; cosa impossibile questa, dato che il budget messo a disposizione dal Comune, rimaneva, tranne pochi aggiustamenti, sui livelli di quello dei primi anni. Cominciò così la crisi della manifestazione; adesso il Cantiere va avanti stancamente, superato da altre decine di festival che intanto sono nati ovunque in Italia; le energie e gli entusiasmi delle forze locali, risvegliati nei primi anni, a poco a poco si sono esauriti e tutto è rientrato nella routine di un normale festival estivo.
E’ pur vero che la semina di Henze ha prodotto numerosi musicisti e tecnici teatrali, tra cui qualche professionista, ma, nonostante la buona volontà, mancano le idee e ci si adagia sul conformismo. E soprattutto non ci sono e non vengono nemmeno cercati rapporti tra la cultura moderna e la cultura tradizionale della zona.
Conclusioni
Dicevo all’inizio che il decennio 1975-85 sembra essere stato un periodo di preparazione per la fondazione di una nuova cultura, forse di una nuova società … Trascorsi tuttavia quegli anni di grande fermento, tutto si è bloccato. E niente è venuto fuori dalla cultura tradizionale delle Regioni italiane, a parte Napoli, il cui humus culturale ha prodotto negli ultimi cento anni situazioni che hanno travalicato i confini della regione e sono diventati nazionali, come il teatro dei fratelli De Filippo, il cinema di Totò, le commedie di Raffaele Viviani e tutta la moltitudine di grandi e piccoli artisti del teatro e della musica leggera. Tuttavia, c’è da dire, che la cultura napoletana ha saputo sì sfruttare la grande tradizione ma senza creare modernità, a parte qualche dramma di Eduardo e qualche intervento di Roberto De Simone.
In Toscana Roberto Benigni sembrava promettere chissà che, ma dopo le parolacce del film “Berlinguer ti voglio bene” è finito con le giaculatorie dei Dieci comandamenti. Il Cantiere d’Arte di Montepulciano ha seguito vie che non hanno portato a nulla di nuovo e non ha preso nemmeno in considerazione la possibilità di innestare le sue produzioni sulla cultura tradizionale, nemmeno su quella parte, come la musica, che poteva essere più facilmente utilizzata.
I Musei del mondo contadino, dopo gli exploit degli anni 80/90, sono entrati in profonda crisi, anche perché gli amministratori politici, per i quali la cultura è solo di ostacolo e non dà mazzette, li tengono chiusi perché non credono che essi possano diventare strumenti di diffusione culturale e di ricerca, o al massimo li tengono come fiore all’occhiello ma lasciando che tutto si mummifichi.
Non resta che Monticchiello: fino ad oggi ha funzionato, ma il suo esempio non mi pare che sia stato seguito da altri, non vedo altri Monticchiello in giro per la Penisola. I suoi spettacoli vengono a vederli in molti, ma non hanno avuto la forza di uscire fuori delle mura borghigiane; e fra qualche anno forse l’iniziativa si concluderà per stanchezza.
Conclusioni: l’incontro tra cultura popolare e avanguardia degli anni 1970/80 fu dunque solo una concomitanza fortuita? Fu un progetto velleitario e una delle tante utopie che circolavano in quel tempo?