di Pietro Clemente
Per la quinta volta mi accingo a scrivere una riflessione (una premessa o un editoriale, insomma un testo – cornice) sulle pagine che Dialoghi Mediterranei dedica alla rete dei piccoli paesi con il titolo Il centro in periferia. Nei quattro precedenti numeri hanno preso la parola quasi tutti gli interlocutori di questo progetto: associazioni locali che operano in una prospettiva di sviluppo locale e di ritorno nei paesi con i mezzi della diversità culturale, del patrimonio immateriale, del teatro e in genere del patrimonio culturale e dei musei.
Questa volta scrivo dopo che gli interlocutori si sono incontrati a Roma in un incontro nazionale informale ma di crescita comune. C’era stato un altro incontro nazionale l’anno passato. Questi incontri non sono convegni, ma sono aggiornamenti, comparazioni di esperienze, notizie sullo stato dell’arte. L’anno passato avevamo discusso sull’opportunità di dare alla rete una forma più definita, di dotarsi di uno statuto o un manifesto.
All’incontro partecipavano anche le Università e le Associazioni che hanno aperto iniziative convegnistiche sui paesi e rischio scomparsa (Siena, Pistoia, Reggio Calabria), e l’editore Donzelli che sta mettendo in cantiere un impegnativo volume su Riabitare l’Italia. È stato interessante far incontrare questi due diversi mondi: i protagonisti dei piccoli paesi che fanno ‘azioni sociali’ e gli studiosi che scrivono e interpretano, gli editori (l’editore in realtà) che progettano pubblicazioni.
Il risultato formale di questo incontro non è stato particolarmente rilevante. È stato espresso l’orientamento a stringere progressivamente una rete di scambi, ad immaginare forme associative possibilmente originali, a definire almeno alcuni tratti generali di uno statuto e di un manifesto. Intanto l’idea è di far nascere una pagina facebook che si chiamerà: Il centro in periferia. La rete italiana dei piccoli paesi. E uno spazio chiuso Facebook dove comunicare tra soggetti parte della rete.
È l’occasione per riprendere per intero l’espressione di Theodor W. Adorno Il centro in periferia dalla quale il titolo è tratto. È una frase che incontrai alla fine degli anni ’80, quando Alessandro Simonicca mi suggerì di leggere il libro di Adorno, Note per la letteratura 1961 – 1988 (Torino, Einaudi, 1979). Fui fortemente colpito da una frase che intendeva definire lo stile della scrittura analitica di Walter Benjamin, ma che per me parlava invece del lavoro che facevo dialogando con centri locali del territorio senese e grossetano. E infatti, quasi rubando quella espressione dedicata a Benjamin, la trasportai di forza nei discorsi sulla periferia reale dei mondi locali, scrivendo un brevissimo testo: Il centro in periferia, sulla rivista Amiata, storia e territorio (5: 5-6) una rivista locale, vivace e ancora attiva, legata alla montagna senese e grossetana.
Alberto Mario Cirese
Quel testo e quella immagine ( il centro in periferia) mi riportavano a molti dialoghi e anche a vari testi di Alberto Mario Cirese, mio maestro di studi antropologici. Cirese aveva lavorato lungamente sulle vicende e le culture del Molise, della Sardegna, del Lazio e di molti territori ‘periferici’, poco frequentati dalla cultura di élite e dallo sviluppo produttivo, sociale e intellettuale, ormai del tutto urbanizzati. Cirese voleva in sostanza affermare due cose giocando – come amava dire – su due fronti:
- Il primo era contro i localismi, diceva che la cultura locale non ha valore perché è locale, ma se è seria, rigorosa, metodologicamente avvertita e quindi si confronta con il mondo della conoscenza dove non vale di per sé il fatto che delle elaborazioni vengano da qualche luogo, ma se sono corrette, verificabili, innovative.
- Il secondo, all’opposto riguardava la presunzione delle conoscenze ‘centraliste’ di essere nel vero per il fatto di essere alla moda, sulla stampa, citate alla televisione. Di non ammettere che dalle periferie possa arrivare qualcosa e che siano invece sempre oggetto ricevente di flussi culturali. Per le idee centrali e per quelle periferiche a suo modo di vedere i criteri di valore erano comunque sempre gli stessi.
Se si studiano i lavori di Cirese c’è però una sorta di fierezza del ‘provinciale’, che alla fine del mio viaggio di studioso sento anche mia. Vedere il mondo dalla provincia, mi pare intendesse Cirese, rafforza una etica della conoscenza, tiene vicini alle realtà più difficili della vita, ha qualcosa di quel vivere nascostamente, di un sapere più modesto e saldo, rispetto ai fuochi fatui delle culture salottiere. Nei suoi studi sul Molise, Cirese invitava a studiare autori di grande rilievo che erano al tempo stesso dei provinciali. Tra questi a esempio Giuseppe Maria Galanti, Vincenzo Cuoco, Gabriele Pepe, molisani, provinciali quasi per definizione, e protagonisti – seri e severi – della conoscenza e dell’azione. Tutto il suo volume Saggi sulla cultura meridionale (Roma De Luca, 1955), segnala questo aspetto delle culture ‘provinciali’ che si fanno in un certo senso struttura di più larghi progetti nazionali. Nella loro azione la periferia si fa centro. In una intervista per la rivista Ethnolgie française pubblicata poi anche in italiano (nel volume, raccolta di saggi, di A. M. Cirese, Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identità locali, Protagon, Siena, 2003), questa idea è ancora più esplicita e si capisce che è stata un tema centrale della riflessione e ricerca di Cirese, intervistato dalle curatrici egli dice:
«E la questione dei rapporti tra ‘cultura egemonica’ e ‘culture subalterne’? Come si è posto il problema in quel momento? (si riferisce agli anni del secondo dopoguerra, nds)
Il problema era questo: la cultura di cui sono portatori i membri delle classi subalterne nasce tra di loro o c’è un rapporto di circolazione con la cultura egemonica? Benedetto Croce diceva che la storia si scrive a partire dal centro e che le periferie non si esprimono che per negazione e resistenza nei confronti del centro. La mia tesi era che la storia si fa anche nelle periferie, ma non è storia delle periferie, è storia della circolazione culturale vista a partire dalle periferie. Si tratta dunque di un processo, e, come ho scritto, anche le periferie fanno storia. …. (A. M. Cirese intervistato da F. Loux e C.Papa, Dai contadini di Rieti al calcolatore. Il punto sulla demologia, in Ethnologie Française, 25, 1994, traduzione italiana in A. M. Cirese, Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identità locali, Protagon, Siena, 2003: 139-140).
Spesso gli scritti di Cirese su Sardegna, Molise, Lazio, quelle che considerava le sue ‘patrie culturali’ hanno al centro questa problematica del rapporto tra cosmo e campanile che ricorda molto quella proposta nelle parole di Adorno su Benjamin.
Benjamin
Così dunque scriveva Adorno della filosofia di Benjamin, di quella che è stata anche chiamata ‘micrologia’ , termine che ha risonanze con i nostri temi:
«…ciascuna sua conoscenza possiede il suo valore posizionale in una straordinaria unità della coscienza filosofica. Solo che l’essenza di quest’unità è nell’andare all’esterno, a conquistarsi mentre si dà via al molteplice. Misura dell’esperienza, che fa da base a ciascuna frase di Benjamin, è la forza di porre incessantemente il centro in periferia invece di sviluppare il periferico a partire dal centro, come pretendono l’esercizio dei filosofi e della teoria tradizionale » (Adorno cit.: 245-46).
Se allargo la citazione alle pagine precedenti e a quelle successive, rischio di perdere la connessione con i piccoli paesi. Adorno non parla di noi, ma di Benjamin. Allora? È un furto operato col grimaldello, quello di usare queste frasi nel contesto che qui ci interessa? Forse sì, ma a me pare che Adorno indichi un processo di pensiero proprio di Benjamin che sembra anche indicare qualcosa di pertinente a quel che Cirese indicava con centri e periferie, cosmo e campanile.
A me, quando lessi quel periodo complesso, apparve come una sorta di visione, ed ebbe, come mi capita talora, l’effetto di aprire una ‘ferita nella sensibilità’, una angolatura visiva inedita nella percezione.
Che due espressioni si prestino ad essere significative in contesti molto diversi non rende arbitrario l’uso di una citazione filosofica per una indicazione socio-culturale. Ma mostra invece la forza allegorica che una espressione filosofica può avere. Il contenuto di metodo di quella espressione apre insomma orizzonti che non vi erano inclusi quando fu pensata. Si apre a una ulteriore potenza.
Paesi, storie, persone
I miei interessi di studio sono stati per lo più orientati verso storie di vita e comunità locali, con alterne vicende. Spesso le comunità locali esprimono una elevata incapacità di fare rete, un narcisismo drammatico per i loro destini; non tutto quel che nasce localmente è per questo positivo. Ma per un approccio polifonico, molteplice, plurale alle cose sociali il ‘centro’ non è mai stato il luogo giusto della conoscenza.
Ho cercato di dirlo anche a partire dagli studi, e mi consento una lunga citazione :
«Anche per l’impronta degli studi demologici nella mia formazione, di Alberto Mario Cirese, e per le circostanze di avere fatto ricerca soprattutto in Sardegna e in Toscana, luoghi di piccole comunità e di forti identità locali, a me è capitato di passare del tempo in tantissime piccole comunità, e poco invece nelle grandi città, salvo che per insegnare in qualcuna di esse. Siccome mi è stato fatto rilevare che ho frequentato di più Ozzano Taro, Pescarolo e Uniti, Monticchiello, Ribolla, Pianizzoli, Poggibonsi, Sesto Fiorentino, Piadena, che non Parigi e Londra, e che ho scritto più per raccolte locali, riviste irreperibili, editori quasi segreti che per grandi riviste e grandi editori, ho pensato di avere – forse – praticato un’altra antropologia, decentrata e plurale, non basata solo su quel che io scrivevo di ‘loro’, ma più partecipata che scritta e insegnata. …
…Forse per questa vocazione agli studi decentrati ho pensato che oltre il mio maestro universitario diretto, Alberto Cirese, e i miei maestri indiretti come Ernesto De Martino e Diego Carpitella, ho anche dei maestri di studi che vengono dalla società civile, come sono stati per me Ettore Guatelli per i musei, Nuto Revelli per le storie orali, e Saverio Tutino per le scritture della vita quotidiana. L’ultimo fu per nascita e stirpi lombardo-siciliano, ma per vita valdostano-piemontese- cubano, e poi romano, ma infine scelse Anghiari e Pieve Santo Stefano come ‘patrie culturali’, Revelli era di Cuneo, una città che è però la capitale simbolica dei paesi contadini d’Italia, e Guatelli di Ozzano Taro, Podere Bella Foglia, per tutta la vita, salvo sanatorio a Cortina e Iesolo. Ma anche Carpitella vantava origini di Pantelleria e girò l’Italia dei paesi, De Martino riconobbe patrie culturali lucane (ma anche calabresi e pugliesi), e Cirese ebbe nascita ad Avezzano, vita a Rieti, infanzia a Castropignano, storia di fondazione familiare a Fossalto, estati a Collelungo di Casaprota, cuore tra Città del Messico, forse un poco Parigi del Musée de l’Homme, Cagliari, la Sabina e il Molise.
La conoscenza di questi mondi non è concentrata professionalmente nel libro monografico o nel manuale dell’antropologo-professore, ma diffusa in pratiche e in testi che stanno in una dispersione connessa. La rete dell’antropologia partecipata, diffusa, polifonica.
L’antropologo classico sta a lungo in un paese, scrive la monografia, e crede così di conoscere il mondo e andare per le città a spiegarlo, mentre quello postmoderno e plurale sta meno a lungo in più paesi, condivide studi e pratiche con i ‘nativi’, scrive dentro sistemi locali, quando si affaccia alle città vi porta una idea di un mondo plurale e aperto, in cui l’antropologo fa parte del mondo che studia, lascia tracce, è una traccia.
Non si sa perché la prima idea così solitaria e così poco ricca di varietà è considerata più oggettiva, e la seconda così partecipata da ampia compagnia è considerata soggettiva. Forse i paesi più paesi per questo mio modo di fare, che ora propongo come un modo di vedere, sono Marcellinara (Cosenza) e Acquanegra sul Chiese (Mantova), perché per varie tracce di de Martino e di Gianni Bosio sono stati luoghi seminali di uno stile della antropologia italiana.
Forse Parigi e Londra o New York vanno meglio per chi si occupa di arte o di danza, le cose che ci sono a Pescarolo e Uniti o a Piadena mica si trovano in quelle città, e i libri – in effetti un po’ rari – che sono nati da Pescarolo e da Piadena, da Ribolla e Pieve Santo Stefano, a Parigi nemmeno se li immaginano» (P. Clemente, Paesi, storie, persone, in Il cannocchiale sulle retrovie, a cura di A. Sobrero, Roma, Cisu, 2012 ).
Forse mi sono allontanato molto dal percorso avviato. Quello che continua è però fatto da molti frammenti di un puzzle che stentano a trasformarsi in una figura. Anche se operano su temi culturali e del patrimonio i piccoli paesi presentano – nel confronto – situazioni e argomenti diversi, è più facile connetterli per esperienze fatte, per modi d’uso di alcune pratiche, che non per generalità comuni. Poi i temi dell’artigianato, del turismo, del teatro, del pubblico, dei musei, della gentrification, delle regole edilizie e paesaggistiche, del rapporto con l’agricoltura, della necessità di una vita pratica democratica, del rapporto tra nuovi abitanti e quelli rimasti da tempo, il welfare, i giovani, sono questioni che circolano in modi diversi, anche con scelte diverse (chi è contro la fusione di piccoli paesi, chi ne rappresenta il positivo risultato ad es.). Una iniziativa di Simbdea che ha favorito l’incontro tra musei europei, cui hanno partecipato i piccoli paesi con museo, ha fatto emergere anche il bisogno di confronti europei che c’è nella rete dei piccoli paesi, difficile perché mancano le risorse, ma strategico per vedere la rete in prospettive più ampie.
Nella rete sono penetrati profondamente i temi dell’immateriale della Convenzione Unesco 2003 e della Convenzione di Faro 2005. In qualche modo quasi tutte le associazioni della rete potrebbero rappresentare tipi di comunità patrimoniale (o comunità di eredità secondo la traduzione scelta dal MIBACT) previsti dal modello di Faro. Ciò mostra una intuitiva collocazione in una scena innovativa del patrimonio culturale.
D’altra parte la difficoltà a costruire una rete in forma associativa stabile viene dalla percezione, nelle realtà locali, di una grande possibilità di estensione dei piccoli paesi (non intesi come comuni ma come associazioni impegnate nel ritorno e nello sviluppo locale) e anche di una forma di intreccio complesso di reti di reti. Si cerca qualche cosa di inedito in questa formula dei piccoli paesi, mentre si hanno davanti i problemi quotidiani che appaiono in tutta la loro pesantezza. Una percezione di ristrettezza e difficoltà quotidiana connessa con l’impressione di essere avanti, di avere aperto una strada che è ancora difficile definire e completare.
Uno dei temi di confronto sullo sviluppo è apparso quello delle Aree Interne e dell’esperimento in corso in varie sedi italiane nell’ambito ministeriale. In questo quadro è stata fatta l’ipotesi di un progetto universitario interregionale di ricerca per costruire un grande archivio delle comunità scomparse e in via di crollo demografico e di tutte le risorse conoscitive che vi erano imbricate. Il quadro critico in cui l’incontro si è mosso, è quello del capovolgimento del paradigma progressista industrialista e urbanocentrico.
Riabitare i paesi ha il senso di indicare uno sviluppo diverso, un diverso punto di partenza, porre il centro in periferia perché è da qui che parte una idea di sviluppo. Si può dire che il puzzle frammentario delle realtà dei piccoli paesi non è destinato ad avere a breve una conclusione. Infatti i piccoli paesi aderiscono a storie geologiche, ambientali, e umane diverse tra loro, a gradi diversi di sradicamento e di abbandono, a insediamenti e monumenti diversi. Nella loro diversità è piuttosto l’equilibrio delle parti a fare unità, che non delle regole generali comuni che sono impossibili. È quel che ha insegnato Pigna, nella Balagna in Corsica, dove è la comunità – intesa come un condominio – a stabilire di volta in volta le regole del fare, in rapporto al progetto e alla missione della comunità stessa. Pigna non aderisce alle regole di Parigi nè a quelle di Ajaccio. Si costruisce le sue. La costruzione dell’auditorium in terra ad esempio forse non sarebbe piaciuta a uno dei tanti conservatori che in Italia operano nel campo dei beni culturali. A noi, quando ci andammo per un incontro di scambi culturali, non piacque che le auto dovessero essere parcheggiate a qualche chilometro di distanza, o che non ci fossero molte alternative di ristorazione. Ma le differenze che onoriamo sono anche queste. Tra i piccoli paesi possono essere comuni delle prospettive metodologiche: la possibilità di realizzare delle associazioni fondiarie, di usare la forma delle cooperative di comunità, la consapevolezza che non tutto si può salvare e che salvare non vuol dire conservare, etc… Ma in generale è il luogo che detta le regole, sulla base della propria missione. Una rete di reti e un mondo di regole locali e non generali.
Polifonie di vita e di studi
A questa pluralità di forme locali di vita sembra necessario appaiare una pluralità di forme di studio: geologi, geografi, economisti, architetti, antropologi, storici ma non ognuno per conto suo, bensì in un progetto comune che abbia l’Università come punto di riferimento e il riabitare come obiettivo. Sui nuovi equilibri dell’abitare molte delle indicazioni date dai “territorialisti” (Società dei territorialisti) e dagli studi di Alberto Magnaghi danno una visione significativa, in cui è previsto uno ruolo complementare di diverse realtà e offerte del territorio, una diversa funzione del rapporto città – periferia. Una utopia equilibrata capace di fornire una prospettiva a chi opera localmente ed ha lo sguardo dell’aquila.
A Roma nel nostro incontro, presso la Facoltà di Sociologia, sono intervenute le associazioni di Armungia e di Padru in Sardegna, di Altavalle in Trentino, di Ricadi e di Soriano in Calabria, di Paraloup in Piemonte, di Monticchiello in Toscana e di Pisticci in Basilicata, e sono state rappresentate le reti del ritorno che già da tempo connettono Calabria e Piemonte, inoltre sono stati rappresentati Introd in Val d’Aosta, Dordolla in Friuli, Fiamignano nel Lazio. Realtà minime che sommate non fanno nemmeno una piccola città di provincia. Ma in questo caso è il piccolo che conta, in quanto porta una esperienza innovativa. Diventa ‘guida’ di un possibile sguardo diverso sullo spazio della nostra vita futura.
Sul ‘piccolo’ ci sono però dei grandi investimenti di passione e di immaginazione che sono attivi come eredità. Nelle pagine di questa sezione di Il centro in periferia troviamo l’esempio di Aldo Gorfer, giornalista appassionato che tra il ’50 e il ’70 ha lasciato traccia con interviste e riflessioni sull’abbandono del Trentino montano. Le sue pagine sulla Val di Cembra, viste con lo sguardo di oggi, non si sono disperse col vento, ma sono entrate a far parte di una memoria e di una nuova realtà del ritorno.
Una storia drammatica che oggi però si riprogetta con fatica e con speranza. Così – sempre in queste pagine – è la voce di Fantino in Calabria:
«un borgo rurale che vive ormai di tre diverse istanze: un abbandono inarrestabile, lento e continuo, la nostalgia dei vecchi abitanti e un ritorno improbabile ma non impossibile….Fantino è un paese in disfacimento, ma allo stesso tempo un luogo convalescente. Un paese è ciò che tiene attaccato l’uomo ad un luogo, il segno fisico e tangibile, il composto materiale dove l’uomo lascia il segno del suo passaggio».
Tutto il mondo dei piccoli paesi è traversato da vicende di memoria, di amore e di dolore, talora anche di vergogna. Lo troviamo anche nella dimensione minacciosa del confine tra gli Stati – in queste pagine – vivere sul confine segnato da altrove, invisibile, essere un confine ed essere confinati, raccontare storie che sono traversate, smembrate, trasformate da quei ‘segni invisibili’, ed essere al tempo stesso piccoli paesi, comunità difficili, traversate anche dalle lingue nazionali che si impongono a una parola senza voce. Solo i testimoni sanno quelle sofferenze e quelle possibilità di riscatto, vivono dentro la storia fatta di azioni pratiche e non di segni invisibili, la loro memoria è la vera mappa per orientarsi.
Un mondo che in queste pagine viene anche visto con lo ‘sguardo da lontano’ come desertificazione demografica e rottura delle comunità locali. Nel contesto di un mondo che dal 1991 al 2011 ha vissuto dentro turbini costanti di trasformazione e di conflitto, il calo demografico delle piccole comunità potrebbe essere irrilevante, e invece – per i tempi lunghi di insediamento e lo stile di civilizzazione di esse – è la traccia più drammatica di un principio di desertificazione che si estende alla società civile. In questo scenario i piccoli paesi della rete e delle pagine di Il centro in periferia sono come una fioca luce di speranza in una antica fiaba.
L’Italia è i paesi
In uno studio del 1997 ho parlato di Paese/paesi in una ‘voce’ che stava nel quadro del lavoro di Mario Isnenghi, I luoghi della memoria. Stutture ed eventi dell’Italia unita (Bari, Laterza, vol. II), anche quello fu un viaggio nei paesi dell’Italia unita, spesso paesi della poesia e dell’ideologia. I paesi ‘azzurrini’ di Pascoli contro quelli corporativi di Gramsci. Ma la sostanza del mio viaggio sta nelle conclusioni:
«Alla fine del viaggio ho la sensazione che forse questo paese della memoria, che sembra così antico e così italiano, sia invece un pezzo della mia vita, nato nel corso del processo di democratizzazione e di sviluppo del dopoguerra, anticipato quanto a sentimenti da Pascoli, ma reso esperibile ai vissuti più ampi, solo quando le condizioni di vita sono migliorate e i ceti distinti e disgregati si sono avvicinati e mescolati. Legato forse alle vicende profonde e di lungo periodo dell’itala gente da le molte vite, ma anche alla possibilità di scelta e di compimento delle libertà individuali proprie della democrazia matura. Forse il paese è concetto nostro, italiano, di una società multiforme, paesana e cittadina, dallo Stato debole e dalla periferia resistente, in cui l’unità è raggiunta davvero quando – senza scandalo – si può dire che essere italiani è appartenere a un Paese fatto essenzialmente di paesi».
Tornare ai paesi è dunque anche difendere l’Italia della democrazia ritrovata, della società civile ricca e plurale, della modernità color arcobaleno.