Quella che vedete nella fotografia è una scultura-installazione a Topolò / Topolove, il luogo dove ho svolto la ricerca. Composta da parti di vecchi strumenti agricoli, questa scultura, installata nel 1995, rappresenta un animale che urla verso il confine. È collocata vicino alle case, prima dei pendii coltivati a vigna, come un cane da guardia. Urla come una bestia infuriata o come un animale ferito verso l’insulto del confine che il 14 settembre del 1947 ha separato questo villaggio dai suoi campi e dai suoi prati, rimasti di là della frontiera, in Jugoslavia. Insieme ha separato gli abitanti di Topolò /Topolove da parenti, amici, scambi economici e sociali verso Luicco e l’alta valle dell’Isonzo (Caporetto /Kobarid).
Il 21 dicembre 2007 la Repubblica Slovena è entrata nell’area Schengen, e uno dei confini a lungo più crudeli e dilanianti d’Europa, quello tra l’Italia nord-orientale e la Slovenia è definitivamente caduto. Come sappiamo, è stato un confine tra due mondi irriducibili, quello tra l’Ovest e l’Est, una iron curtain che dal 1947 ha condizionato la storia delle popolazioni contermini, oltre che i complessi rapporti tra le nazioni. Sul confine o intorno alla sua creazione, sono accaduti fatti che prolungano l’orrore della Seconda guerra mondiale ben oltre la sua fine: dopo il fascismo e il nazismo, l’orrore delle foibe, il terrore delle delazioni e delle vendette, l’esodo di popolazioni, Giuliani e Istriani, Domobranci. Valori secolari di convivenza sono stati sbranati in poche settimane.
Il confine ha sostituito una memoria storica con un’altra: da Gorizia come da Trieste e come da Topolò potevi camminare giorni o settimane prima di trovare un confine. Non eri uno Sloveno, eri un ragazzo delle Valli dell’Isonzo. Il confine orientale divenne uno sconvolgente laboratorio politico fino dalla fine della Prima guerra mondiale: per chi ci abitava, cosa ha significato, ad esempio, vivere in una città come Gorizia, dove il confine è cambiato sette volte in nemmeno un secolo? Un confine che alla mia generazione è sempre apparso illogico: ha riempito di caserme e militari il 40% del territorio regionale, in molti luoghi non era possibile coltivare a causa delle ‘servitù militari’, ha separato famiglie, scambi, orti, campi. Ha diviso persino i cimiteri e quelli che c’erano sepolti: la testa di qua, il corpo di là. Soprattutto il confine ha creato differenze là dove prima non c’erano. Ha fatto in modo che a Gorizia, a Trieste, nella Slavia friulana essere Sloveni negli ultimi sessant’anni è significato ‘appartenere alla minoranza slovena’. In Italia, non è facile spiegare a chi abita a Firenze o a Roma cosa sia la minoranza slovena. Non è facile spiegarlo nemmeno ai Goriziani o ai Friulani, in verità. Anche se gli stessi Friulani sono considerati una ‘minoranza’. Una minoranza linguistica. La creazione di differenze è stata profonda, ha modellato stereotipi reciproci, a volte pesanti atteggiamenti razzistici. In occasione della caduta del confine sono uscite numerose pubblicazioni di carattere storico, memorialistico, biografico che documentano il lavoro culturale di recupero della memoria e anche la costruzione dell’oblìo. L’oblìo degli scheletri racchiusi nell’armadio della storia, che sedimentano diffidenze, chiusure, nazionalismi.
Le note che seguono sono la prima parte di una ricerca sulla percezione vissuta del confine orientale in tre generazioni, dal 1947 al 2007. Come luogo per la ricerca ho voluto scegliere un villaggio nelle Valli del Natisone, Topolò / Topolove. Ho scelto consapevolmente una piccola comunità perché volevo poter leggere alcune delle trasformazioni legate al confine nord-orientale in un luogo che fosse rimasto al riparo dalle violente vicende politiche del secondo dopoguerra, ma dove il confine avesse segnato la vita quotidiana. È l’eredità di questa ferita nella quotidianità che mi interessa documentare e la memoria / oblìo che è stata costruita intorno ad essa.
Ho raccolto 12 interviste in profondità (in-dept interviews) tra 4 persone di oltre 60 anni, 4 tra i 30 e i 60 anni e 4 tra giovani di meno di 30 anni. A questa prima parte seguiranno in autunno interviste oltre alla linea del confine, lungo la valle dell’Isonzo. La scelta di Topolò / Topolove, infine, non è casuale: da oltre dieci anni ogni estate vi si tiene in luglio una rassegna-laboratorio di arte contemporanea (Postajna Topolove). Artisti di diversi Paesi d’Europa vi soggiornano per alcune settimane, creano installazioni che restano poi in paese, molte delle quali hanno avuto come tema ispiratore il confine. Questo ha inserito Topolò nel circuito dei finanziamenti europei grazie ai quali molte case rimaste vuote sono state aggiustate e restaurate, alcune trasformate in case vacanze, impedendo che lo spopolamento facesse diventare questo come altri villaggi delle valli del Natisone un paese fantasma e salvaguardando il suo patrimonio di architettura rurale. Ha portato giovani laddove i giovani si erano allontanati perché non c’erano possibilità per costruire il futuro. Ma parlare con gli anziani è un’altra cosa: Maria Grazia Gariup, la giovane amica di Topolò che mi ha consentito di contattarli, mi aveva avvertito che il tema del confine dopo tanti anni era ancora una materia delicata da affrontare per molti.
Qualche breve notizia su Topolò /Topolove. Il villaggio di Topolò /Topolove è situato a 580 m. s.l.m. nella vallata del Cosizza /Kosice, una delle quattro valli del Natisone. Il villaggio rimane un po’ ai margini rispetto al popolamento sloveno delle Valli del Natisone tra VII e X secolo. Topolò venne separato dal confine del 1947 dalle Valli del Canale d’Isonzo che erano il suo sbocco naturale agricolo e di scambio: molti dei prati e dei boschi che assicuravano fieno per le mucche e legna per le abitazioni rimangono oltre la frontiera. Nel 1660 a Topolò /Topolove abitavano circa 100 persone, distribuite in 14 famiglie; nel 1921 la popolazione raggiunse le 400 persone. Poi iniziò un veloce processo di spopolamento: l’emigrazione temporanea si trasforma in emigrazione definitiva (verso la Francia, nelle miniere del Belgio dopo il 1954, in Australia, Canada) o nel trasferimento verso i centri urbani oppure del fondovalle. Gli abitanti attuali sono 40, per la maggior parte anziani.
Le testimonianze degli anziani (Alfonso, 81 anni, Renzo, 72 anni, Romilda, 76 anni, Maria 79) ci permettono di ricostruire le tappe della costruzione di una etnicità contrastiva, a partire dal periodo fascista. La costruzione organizzata dallo Stato di quelle differenze che prima non c’erano. La prima opera di italianizzazione imposta agli abitanti delle Valli fu la proibizione della parlata slovena locale. Nel 1933 al clero venne proibito di recitare le funzioni e fare catechismo nel dialetto sloveno locale, con la connivenza del vescovo e degli Organi della Diocesi di Udine, quando il dialetto sloveno era l’idioma prevalente in tutta la zona. Vengono portati in carcere dei giovani colpevoli di essere stati ascoltati mentre parlavano in sloveno tra loro.
Parlare la propria lingua diventa un reato. Romilda dice di essersi trovata da adulta in mezzo a un guado linguistico e di istruzione: imperfetto lo sloveno, che non aveva potuto imparare a scuola, e imperfetto l’italiano, perché non aveva potuto continuare la scuola dopo i 5 anni di istruzione primaria. Renzo invece è un cultore appassionato della parlata locale. Ha pubblicato testi ed è un abile narratore di favole e leggende. Viene chiamato per raccontarle ai bambini delle scuole. La sua intervista è quindi modellata da questo interesse linguistico, quale veicolo principale dell’identità locale, come rivendicazione di un valore a lungo represso dalle autorità italiane. Alfonso (81 anni) ricorda bene il paese prima e dopo la seconda guerra mondiale. ‘Eravamo senza luce, senza strada, si prendeva l’acqua alla fontana con il secchio’. Le castagne venivano scambiate in pianura con il mais, e un vivace e rischioso mercato di contrabbando era attivo tra la montagna e le città del fondovalle. Il burro, in pieno tempo di guerra, veniva portato sino a Trieste, nella fodera dei cappotti.
Gli anziani raccontano i fatti della guerra: la battaglia a Topolò tra partigiani e nazisti nel 1943, in cui morirono 14 partigiani. «La gente non voleva la guerra. Noi si aiutava l’uno e l’altro quando passavano. I miei suoceri sentivano molto questa cosa, perché mia suocera aveva avuto un figlio che è rimasto [disperso] in Russia» (Romilda). Ricordano altre vicende che hanno coinvolto il paese in quel periodo. Ricordano come il confine, tracciato il 14 settembre 1947 a meno di un kilometro in linea d’aria dal villaggio, con paletti bianchi, fosse guardato da militari che mantenevano il contatto visivo tra loro. Romilda: «Ero a Raune la sera prima che hanno messo il confine. Ero con altre coetanee a cavar fuori patate, e la gente diceva: Da mezzanotte in poi chiudono il confine. Ma nessuno sapeva dove passava esattamente. Si aveva paura». Ricordano unanimi anche l’incidente che avvenne nel 1948 tra una pattuglia di militari italiani e una pattuglia jugoslava. I primi sconfinarono e la risposta a fuoco dei militari jugoslavi provocò un moto e tre feriti tra quelli italiani, sfiorando l’incidente internazionale.
Dal 1947 al 1954 il confine era impenetrabile. Tolse agli abitanti del paese la possibilità di continuare ad usare i propri prati e pascoli. Recise contatti, amicizie, vincoli di parentela, scambi di lavoro reciproci, che solo con difficoltà verranno ripresi dopo il 1954. La generazione successiva, come vedremo, non ha legami sociali se non molto recenti con i paesi transfrontalieri. La notizia della chiusura del confine corse di bocca in bocca. Venne tracciata una linea immaginaria, che non segue il crinale dei monti o il percorso di un corso d’acqua. Una linea immaginaria subdola, che pesa come un muro invisibile e continuo. Non esiste una strada di valico tra Topolò e lo Stato Jugoslavo, oggi sloveno, il confine taglia un bosco. Per trovare un valico di confine occorre andare in un’altra valle, a una decina di km di distanza. Il confine comincia a piegare il destino di questa e della generazione successiva.
Dai racconti emerge una piccola epopea narrativa del confine, un folklore con i suoi motivi: il vicino che diventa nemico, considerato che a sorvegliare i confini venivano inviati militari che non parlavano lo sloveno, e che si diceva venivano premiati con qualche giorno di licenza se riuscivano a bloccare chi attraversava illegalmente. Li chiamavano da lontano, dal Montenegro, dalla Bosnia, dice la gente del posto, perché così c’era meno il rischio di conoscenze reciproche, così erano ‘più cattivi’. «State attenti a non varcare il confine, potrebbero sparare» (Romilda). «Sono i Serbi, quelli, state attenti, neanche vi capiscono» aggiunge il figlio Piero. Ancora, l’astuzia del cacciatore per recuperare la preda finita accidentalmente di là; oppure i sotterfugi per riuscire a portare i propri animali sul pascolo oltre la linea di confine; il timore degli incidenti di frontiera. Il ritmo del racconto è dato dalla ripetizione dell’ordine più temuto: ‘Stoj! Stoj!’
Per Anna e Romilda il confine significa soprattutto la perdita di scambi lavorativi, il sentirsi osservate in ogni movimento e la preoccupazione costante che soprattutto i bambini non superino la linea di confine quando si lavora nei campi; per Renzo, il confine diventa metafora di un isolamento obbligato, iniziato durante il fascismo, un elemento di deculturazione forzata che oggi si deve recuperare prima che sia troppo tardi; è Alfonso, a dire la frase che colpisce di più: «Siamo rimasti come uno a cui viene amputata una parte del corpo… ».
Le interviste agli anziani diventano storie di vita che si allargano oltre i temi della ricerca. Alfonso sorride, ricordando la sua emigrazione e quella dei compaesani, e commenta che il modo di emigrare del tempo non era poi molto diverso da quello dei clandestini di oggi. Ricorda di aver passato clandestinamente la frontiera con la Francia per un sentiero alpino. Dall’altra parte c’era qualcuno ad aspettarli. Poi, un breve periodo di lavoro in miniera, in Belgio dal 1951 al 1953 come centinaia di altri uomini dalle Valli del Natisone, dopo gli accordi tra Belgio e Italia: carbone in cambio di uomini. Invece Renzo Gariup (72 anni) racconta delle sorelle emigrate in Australia, dove abitano tutt’ora, negli anni Sessanta. L’Italia è una patria lontana, esigente e distratta. Attenta a difendere il confine, collocando una postazione di Guardia di Finanza e di militari in paese, costruirà la strada asfaltata che collega Topolò /Topolove con il fondovalle, ancora oggi stretta e con numerosi tornanti, solo nel 1953. Nel 1954 viene permesso il passaggio dei residenti, per consentire in parte il lavoro agricolo, con la prepustnica. Inizia a cambiare anche lo scenario del confine: prima percorso da pattuglie di soldati 4 volte al giorno, poi le pattuglie divennero più saltuarie. La gente inizia a recarsi in Slovenia con il lasciapassare più spesso.
Piero (50 anni) verso di me è molto diffidente all’inizio dell’intervista. Chiede maggiori informazioni sulle mie domande, gli scopi della ricerca, chi la leggerà. «Più che un confine come lo intendiamo adesso era un altro mondo, di là» mi dice. «Per tanti anni della nostra vita non siamo neanche stati in Slovenia. Il confine era un muro immaginario… dava l’idea di essere oltre l’oceano».
Maria Grazia (43 anni) parla dell’onnipresenza del confine. Una presenza tangibile ma insieme qualcosa che non si poteva ‘guardare’. Il suo immaginario di bambina era rimasto molto colpito dal fatto che lungo la fascia confinaria non si potessero fare fotografie. Quindi, non si potevano fare neppure fotografie di Topolò. Come se verso i monti che circondano il villaggio non si potesse neppure guardare. «Noi andavamo a falciare verso Monte Brine, dove c’è il confine, andavo con mia mamma. E bisognava scendere per prendere acqua. E mentre scendevo verso il confine, c’era sempre il timore di chissà chi incontravo là. C’erano i soldati, anche se non li vedevo. Ero spaventata». Luicco, il paese dall’altra parte, acquista i colori di un mondo che, proprio perché proibito, appare più bello: si vedevano le luci, i tetti rossi, bello, lontano e inavvicinabile. Anche quando era più facile attraversare la frontiera «varcare il confine mi metteva a disagio, ero in ansia. Ho dovuto imparare ad andare a fare acquisti di là».
La frontiera diventa una dimensione introiettata. Piero, Maria Grazia, Anna e Giulio hanno fatto le scuole elementari a Topolò, tra la fine degli anni Cinquanta ed i primi anni Sessanta, quando c’erano ancora abbastanza bambini per tenere aperta la scuola. Giulio (47 anni) dice: «a scuola non ci parlavano di queste cose. Glissavano, c’era un po’ di vergogna, da queste parti dei partigiani non osava parlare nessuno. Tutti volevano dimenticare». Anna, 52 anni: «Anche le maestre che parlavano lo sloveno, facevano finta di non sapere e quando andavamo a fare le passeggiate e poi scrivevamo le composizioni, non si poteva scrivere il toponimo di dove eravamo andati, perché lo scrivevamo in sloveno». Maria Grazia dice di aver percepito maggiore discriminazione quando era alle scuole medie a San Pietro al Natisone, località riconosciuta come centro principale delle Valli. Era in collegio, perché andare e venire dal villaggio era quasi impossibile con i mezzi di allora. A scuola era proibito parlare in sloveno durante la ricreazione, e in collegio chi veniva dalla montagna era trattato diversamente rispetto agli altri, erano presi in giro, insultati. Piero pensa che abbiano preso tutti i ragazzi della montagna e li abbiano mandati a studiare altrove, per attuare una forma di sradicamento dalla montagna e dalla sua cultura, non solo come forma di assistenza scolastica. Piero accusa anche esplicitamente la Comunità montana delle Valli di essere causa del mancato sviluppo della zona negli anni Ottanta, e parla della sua esperienza personale, una cooperativa agricola nata nel 1980, per allevare pecore e lanciare una iniziativa che unisse agricoltura e turismo. «C’era ancora molta tensione politica, e mio padre era andato a comprare le pecore a Mostar. Avevamo bisogno dei permessi della Comunità Montana di qui, e loro non ci hanno mai risposto, e non hanno mai dato una lira, nonostante i fondi che ricevevano». Non solo, per i frequenti viaggi oltre confine, Piero viene guardato con sospetto, si pensava fosse una spia.
Sono i tempi di Gladio, l’organizzazione segreta italiana anticomunista, poi considerata eversiva. Le pecore, per i paesi limitrofi, diventano una questione politica. E dopo cinque anni, per mancanza di sostegno, questa iniziativa viene abbandonata. Maria Grazia dice: «Noi che eravamo vicino al confine eravamo visti come diversi anche a Cividale». Dopo la Chiesa, la scuola, la stampa, le amministrazioni, la discriminazione economica e, come se non bastasse, le organizzazioni segrete organizzate dallo Stato italiano. Racconta diversi episodi che testimoniano atteggiamenti di discriminazione. Negli anni seguenti, Maria Grazia inizierà a lavorare come infermiera nell’ospedale di Cividale: molte erano le persone delle valli ricoverate, e molti non capivano il friulano che era parlato dalla maggior parte degli altri. Maria Grazia si accorgeva che le sue compagne di corso si vergognavano di parlare sloveno, perché questo indicava la loro provenienza, diventata sinonimo di povertà, ignoranza, o dell’essere comunisti, per contiguità. Lei invece ne va fiera. Ricorda di essere stata aggredita verbalmente da un collega, ad alta voce e in mezzo a un corridoio con il termine friulano dispregiativo di ‘sclavate’ (‘slavaccia’).
Piero dice: «più che la sindrome di un confine noi avevamo la sindrome di due confini: uno sopra il paese, e uno a Ponte San Quirino [la località che segna l’ingresso nelle Valli del Natisone]». Maria Grazia ha provato una sensazione strana la prima volta che ha attraversato la frontiera dopo il 21 dicembre: nessuno ti ferma più. Quanti anni ci sono voluti. Giulio considera questo una ‘normalizzazione’ arrivata dopo tanti anni di diffidenza ed allarme.
L’iconicità del confine (Michael Herzfeld 1997) presenta due versioni apparen- temente antitetiche (chiusura VS apertura) ma entrambe funzionali sia alla costruzione delle reciproche identità nazionali (l’importanza della difesa dei confini e dell’italianità e friulanità, per la parte italiana) che alla presentazione delle dinamiche tra Stato dominante e minoranze.
Vediamo ora cosa le persone nate dopo il 1980 pensano del confine. Maria (17 anni) e Stefano (20) abitano a Topolò tutto l’anno, mentre Antonio (23) raggiunge con la sua famiglia la casa a Topolò solo nei fine settimana. Per il resto dell’anno abitano in un paese del fondovalle. Come Marco (25 anni), che ha i nonni a Topolò ma li visita di rado. Loro guardano avanti. Sono consapevoli del peso che il confine ha avuto nella vita di genitori e nonni, ma come i loro coetanei si sentono più parte di una Europa senza confini. Hanno parlato lo sloveno in casa, ma è diventata la lingua dell’intimità, che non utilizzano per altri scambi sociali. Si sentono coinvolti da iniziative di divulgazione e proposta delle tradizioni e della storia locale, ma il loro atteggiamento verso la cultura e l’identità delle Valli è caratterizzata da un concreto disincanto: si sentono parte di una identità che è una parte di una identità composita, affrancata dal peso dei nazionalismi. Ascoltano la stessa musica dei loro coetanei, desiderano muoversi e viaggiare, sentono un po’ stretta la posizione geograficamente appartata delle Valli, non temono il confine ma che la fragile economia delle Valli venga distrutta dalla delocalizzazione economica. Le loro preoccupazioni sono quelle condivise da tutti i giovani che abitano nella montagna o nelle zone economicamente marginali del Friuli. Sono in movimento, guardati dalle generazioni precedenti un po’ con la speranza che sappiano conservare il passato, un po’ con il timore che l’eredità culturale delle valli si perda. Considerano il confine come il mostro di lamiera che agita i suoi artigli verso il cielo e il bosco, un relitto un po’ arrugginito, che serve da monito per cercare di non ripetere il passato.