di Marcello Carlotti
Ne La luna e i falò, Cesare Pavese riflette sul fatto che «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Per quanto l’uomo possa essere girovago, per quanto abbia voglia di andare o fuggire lontano, alla fine ha sempre bisogno di un posto a cui tornare. Le radici rimangono confitte in un suolo, per quanto alto possa salire il fusto, lontani possano spingersi i rami, distanti possano cadere i frutti.
A proposito di radici, cultura, appartenenza e strade, l’antropologo James Clifford, nel suo saggio Routes, analizza il rapporto dell’uomo con se stesso, con gli altri e fra i luoghi, la storia e la cultura, nel tentativo di sovvertire la priorità della sedentarietà sul movimento. Secondo Clifford, infatti, non esiste nessuna preponderanza, nella storia umana, delle radici sulle strade (intese come viaggio, sia individuale, che sociale, che culturale). Per meglio dare conto di questo pensiero, ancorato alla storia di viaggio dell’umanità, Clifford usa un significativo esempio: un’opera d’arte che rappresenta degli alberi messi dentro dei capienti vasi a loro volta sospesi dal suolo mediante delle piccole gambe. Questo è l’uomo, pensa Clifford, una pianta poderosa, con radici solide, confitte in un terreno culturale, a sua volta sospeso dal suolo e sempre (pronto a mettersi) in viaggio.senza delle radici che si spostano per conoscere ed arricchire la pianta e, sopratutto, i suoi frutti. Questo, però, vale se si intende lo spostamento come un viaggio, una scelta, un’opportunità. Eppure non sempre e non solo di viaggi volontari sono fatti gli spostamenti umani. L’uomo ha sempre viaggiato, come sostiene Clifford, fin dai suoi albori per le più svariate ragioni. Homo Erectus, ad esempio, mosse dall’Africa all’incirca un milione di anni fa e giunse fino all’estremità più orientale dell’Asia, oltre a popolare l’Europa. L’Homo Sapiens Sapiens non fu da meno, e anche lui, secondo le ricostruzioni del DNA mitocondriale, partì all’incirca 200 mila anni fa dal suolo africano alla scoperta del mondo.
Oggi sono molteplici le teorie e le datazioni e le interpretazioni filogenetiche, dal modello di evoluzione multiregionale, al suo opposto Out of Africa 2, per non scordare gli spunti di Arsuaga e dell’Homo Antecessor ed Ergaster che sembrereb- bero smentire e completare le teorie precedenti. Ma per quanto queste teorie giochino a smentirsi, complicarsi e interpretare in modo differente la medesima realtà, man mano che nuove acquisizioni, nuovi strumenti e nuovi reperti giungono sotto l’occhio della scienza, un solo dato sembra riconfermarsi comune a tutte: l’uomo non è mai stato fermo, il desiderio di conoscenza, scoperta e avventura, ad un certo punto, ha sempre indotto la sedentarietà a mettersi in moto verso nuovi orizzonti. Perché?
Verrebbe da rispondere con Dante, che nel 26° dell’Inferno fa pronunciare ad Odisseo la famosa orazion picciola:
« “O frati, dissi, che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza” ».
Sembrerebbe allora che Dante, ben prima di Pavese e Clifford, e sopratutto ben prima dei genetisti delle popolazioni, dei paleontologi, dei paleoantropologi e degli archeologi, ci abbia dato gli strumenti per essere tutti d’accordo: considerare la nostra semenza ed essere coscienti che non siamo fatti per vivere come bruti. L’uomo, il suo spirito, il suo animo sono mossi da un impulso: perseguire virtù e conoscenza.
Eppure, come detto, non sempre attraversiamo le colonne d’Ercole per seguir virtù e conoscenza, non sempre l’essere umano ha viaggiato, si è spostato per impulso consapevole e volontario. Ci sono state, e ancora ci sono, molte ragioni che spingono gli individui e le comunità a prendere in considerazione lo spostamento, spesso come extrema ratio. Ma procediamo per gradi e parliamo di Sardegna.
In Sardegna ci sono molte massime, alcune tradizionali, altre più prossime al campionario delle leggende metropolitane. Una di queste, ad esempio, viene pronunciata da chi rimane a proposito di chi va, e recita più o meno così: andarsene è la scelta più facile. Quelli che partono, che se ne vanno, magari, non avevano voglia di lottare, o avevano troppa ambizione di emergere: la Sardegna gli stava stretta. Che è come dire che non sapevano accontentarsi, non sapevano stare al loro posto. Allora, quando credi di essere chissachi, andarsene è la scelta più facile, perché spesso si accomuna la partenza alla fuga, la fuga alla codardia e questa ad una smodata ambizione. Sembra un cortocircuito logico. E lo sembra perché lo è.
Andarsene, infatti, sotto la crosta superficiale è spesso sinonimo di esilio: un meccanismo indotto, frutto di anni di mobbing, di sofferenza, di depressione, di porte sbattute in faccia, di demerito smaccato, di clientelismo a cui non si vuole sottostare, di un immobilismo paralizzante, di un potere (sempre lo stesso) che gioca a tenere tutto e tutti sotto al giogo. E non da oggi. Se l’avidità, come dice Gordon Gekko, muove il mondo, e il denaro non dorme mai, anche arrivismo, stupidità e invidia danno un interessante contributo a tracciare la rotta.
Se chiedete ad un sardo, ad un qualunque sardo che è rimasto, se sia più facile in Sardegna o fuori (all’estero o in continente), questi invariabilmente vi dirà che sì, fuori è più facile. Se chiedete ad un sardo che è andato fuori se sia più facile laggiù o in Sardegna, questi, quasi sempre, vi confermerà, con rabbia e tristezza, che purtroppo è così. La domanda successiva, quella sulle cause di una situazione, è automatica, come lo sono le risposte, ormai preconfezionate e succitate: invidia, immobilismo, clientelismo, arretratezza, etc.
La vera domanda, però, è piuttosto un’altra: perché se tutti sono consapevoli che fuori è più facile, non si fa nulla di concreto per cambiare la situazione?
Che il viaggio possa essere una risorsa, lo comprese, ad esempio, la giunta Soru, che infatti istituì e finanziò il fondo del Master&Back, quasi degno della celebre sintesi gallica di Cesare (veni, vidi, vixi): vado, imparo e torno. Eppure, a parte quell’esperienza (peraltro molto male riassorbita dalla Sardegna), sono mancate storicamente e ancora mancano seri tentativi di dare una risposta alla criticità sarda: il viaggio, la partenza, l’allontanamento per i sardi (giovani e meno giovani, non titolati e plurititolati) non è una scelta, non è un’esigenza dello spirito, ma è frutto doloroso di una necessità indotta.
A guardare con attenzione una cartina della Sardegna, e i famosi dati statistico-demografici, scopriremo che la Sardegna è la seconda isola più grande del Mediterraneo, ma una delle meno popolate (24.090 km/q, 1.641.290 abitanti, per una densità di meno di 69 abitanti per km/q), che il suo territorio, mediamente posto a oltre 300 metri sul livello del mare, si presta in modo eccezionale all’agricoltura di qualità, all’allevamento di carni scelte, ai prodotti caseario lattieri di assoluto pregio, oltre ad essere stato storicamente uno dei primi cantieri della cultura della vinificazione. Anche olio e frutteti troverebbero in Sardegna terreno interessante. Se poi si zooma, e si scende verso le sue coste (1.897 km in tutto, praticamente un ventesimo dell’Equatore), si scopre che esse sono rinomate: un potenziale turistico che non ha nulla da invidiare a scenari ben più famosi e proficui.
Ma la Sardegna, amano rispondere i bene informati (generalmente tedeschi) non è solo coste, anzi a volerla conoscere davvero le coste sono la parte meno affascinante di questa terra, costellata di 7 mila nuraghi (uno ogni 4 km/q), di villaggi scavati nella roccia (su tutti valga il villaggio di Tiscali), di un anfiteatro romano, di un altare simile alle ziqqurat babilonesi (l’Altare di Monte d’Accoddi), di statue arenarie gigantesche (i giganti di Monti Prama), della più grande necropoli punica del Mediterraneo (Tuvixeddu), di un immenso tophet (Sulki), di boschi selvaggi, di domus de janas, di tombe dei giganti, dolmen, menhir e di cieli notturni che non patiscono troppo del riverbero delle luci artificiali (il fastidioso fenomeno dell’inquinamento luminoso). La Sardegna può essere girata in bici, a piedi, in macchina e in camper. Non in treno, però, perché le rotte sono poche (due). Si possono usare gli autobus, ma poi spesso ti lasciano in mezzo al nulla. La gente, ad ogni buon conto, se la sai prendere, può essere molto ospitale, a volte troppo, ai limiti dell’invadenza opposta (una sorta di eccedenza esibizionista retaggio di tempi passati).
Sembra perfetta, detta così, e per molti versi lo potrebbe essere. Poi però scopri anche che la Sardegna oggi importa circa l’85% del cibo che mangia, e sopratutto che è sottoposta alla maggior servitù militare di Italia: sono oltre 350 i km/q vincolati ad ospitare strutture militari italiane o della Nato. La Sardegna, infatti, è posizionata al centro del Mediterraneo, ed è una portaerei naturale per il controllo dei cieli di una fondamentale area strategica. Cacciabombardieri, radar, sommergibili nucleari, navi e truppe in addestramento e assetto da guerra. Vivere in Sardegna, nonostante il reddito procapite sia di circa 20 mila euro all’anno, è molto costoso, e ancora di più risulta dispendioso visitarla per i turisti.
Eppure, nonostante tutto ciò, nonostante tutte queste risorse e questo intrigante potenziale (mai espresso, peraltro), i sardi hanno da sempre e storicamente fatto le valigie per emigrare, anche oggi, anzi oggi ancora di più. Secondo uno studio recente dell’OCSE, si prevede che nei prossimi trenta anni, la popolazione dell’isola calerà di 300 mila unità, che è come dire che fra trent’anni ci sarà un sardo in meno ogni cinque sardi di oggi. Perché? E sopratutto, è possibile che non si possa fare davvero nulla?
Uno degli sport preferiti dei sardi è il vittimismo: è sempre colpa degli altri. Per questa ragione, si sente spesso qualcuno urlare degli slogan precotti del tipo A fora sos istranzos (Fuori gli stranieri), dimenticando che da sempre e storicamente, agli stranieri che hanno trovato le porte principali chiuse, la porta di servizio l’ha aperta qualche sardo (come il famoso re giudicale di Arborea Ugone II che, nel 1323, si alleò per miope egoismo, coi catalano-aragonesi contro i pisani, aprendo la conquista della Sardegna a Giacomo II d’Aragona), e che non sempre chi viene da fuori è necessariamente il nemico (come nel caso dell’Ammiraglio francese Truguet che, venuto nell’isola nel 1793 per liberare il popolo e imporre una repubblica laica, venne scacciato da quello stesso popolo che voleva liberare e che era stato sobillato dai nobili e dal clero). Certo, ci sono anche casi (come nel 174 a. C., quando il console Tiberio Sempronio Gracco mise in atto una durissima repressione che comportò la morte o la schiavitù per circa 80.000 sardi; o quando, nel 1297, il papa Bonifacio VIII infeudò il Regno di Sardegna; o quando, nel 1718, con le paci di Londra l’isola e il Regno furono ceduti ai Savoia), ma di norma lo straniero ha potuto avventurarsi e predare la Sardegna sempre, grazie al contributo di una quinta colonna indigena (ne sanno qualcosa i vari Angioy, Sulis, Cadeddu, Corda, etc. che si batterono per liberarla).
La Sardegna, del resto, ha dato i natali a donne e uomini di grande tempra, intelletto e spessore umano, morale e culturale (Amsicora, Eleonora, Asquer, Gramsci, Deledda su tutti). Eppure, ad oggi la nota dominante dei sardi è la loro ombra scura, che comporta una perenne disunione campanilistica, un’asfittica invidia isterica, la capacità banditesca di rapire perfino donne e bambini, ed un rancore codardo che pensa di risolvere le cose con un bell’agguato alle spalle, magari sparando a pallettoni, stando nascosti dietro un bel muretto a secco. Non fosse una costante dell’essere umano a tutte le latitudini, ci sarebbe da spendere due parole anche sulla maldicenza, sulla critica e sul malocchio. L’unica cosa degna di nota rimane affrontare il modo di uscire da queste folli secche in cui l’isola viene cacciata dalla mentalità dei suoi abitanti, ricordando a ciascuno che ognuno di noi, sulla terra è solo di passaggio, e che forse il nostro passaggio dovrebbe essere leggero e che il quinto passo non dovrebbe essere necessariamente un addio.
Come detto, molti affrontano la cosa riempiendo una valigia, facendo un biglietto e partendo. E sarebbe comprensibile, se la Sardegna, invece di essere il paradiso che potrebbe essere, fosse un inferno tormentato da sovraffollamento, guerre, siccità, carestie e da un clima disumano: una terra priva di risorse, dove si è in troppi per il poco che può dare.
Un altro obiettivo, una categoria da incolpare è quella della classe dirigente: i politici locali, provinciali, regionali e nazionali, per non dire dei burocrati europei. La colpa è sempre degli altri, infatti. Non nostra che li votiamo in cambio di qualche briciola.
A pensarlo e analizzarlo bene, il discorso culturale sardo esprime esattamente la situazione per quella che è: una situazione di perenne infantilismo, un adolescenzialismo lamentoso che non sa mai farsi maturo: è colpa sua, non sono stato io, dicono i bambini piagnucolando, mentre qualche goccia di muco gli imbratta il muso arrossato. Come la rana della favola, il sardo tende a gonfiarsi fino a scoppiare (il suo formaggio è il migliore del mondo, il suo mare è il migliore del mondo, il suo vino è il più buono del mondo e la sua isola è la migliore del mondo, al pari della sua cultura che è la più importante e misteriosa del mondo, tanto misteriosa che in effetti sono pochi i sardi che la conoscono, e manco a dirlo: la sua lingua è la più bella del mondo, tanto bella che nessuno o quasi la parla più, anche perché non è una lingua unica e unificata, quanto piuttosto la ricostruzione che alcuni fanno a partire da molte varianti dialettali, tutte neolatine e dunque, manco a farlo apposta, parlate da quei romani che vennero nell’isola per occuparla e sottomettere e distruggere la cosiddetta cultura nuragica). Saprà mai dimostrarsi all’altezza di accettare la vera sfida del toro? Accettare quella sfida significa fare della sua isola e delle sue intriganti tradizioni e potenzialità un soggetto di primo piano nel mondo globale e nell’area del Mediterraneo in particolare.
Dimostrarsi all’altezza di un simile compito storico, per troppi decenni tradito o rimandato, significa oggi evitare che i migliori cervelli, formati dalle nostre università, siano costretti a partire per cercare luce e fortuna altrove; significa implementare strategie per far tornare davvero (e con un ruolo degno) quelli che sono andati via; e sopratutto significa investire a livello territoriale e imprenditoriale scommettendo su questa terra e sul valore dei suoi immensi potenziali e dei suoi abitanti (nati o meno in Sardegna che siano).
Dove sono allora gli imprenditori che vogliono raccogliere il guanto di sfida, consci peraltro del fatto che non raccoglierlo significa condannarsi ad una lenta e progressiva morte per affondamento e asfissia? Dove sono i liberi professionisti e la classe intellettuale ed accademica? Dove sono i genitori che insegnano ai figli che l’importante non è né vincere e neppure partecipare, ma cooperare per migliorarci come individui e come comunità?
Se ci sono, si facciano avanti, perché solo così e solo insieme potremmo scardinare un sistema e ricostruire una polis e una classe di politici degna e capace della non semplice impresa: raddrizzare finalmente la schiena e riprendere a camminare, per trasformare l’attuale emigrazione coatta dei figli di questa terra, in viaggio consapevole di uomini e donne curiosi, che vanno per tornare prima o poi e che tornano per arricchirci tutti.
Post Scriptum. Nemo profeta in patria, dirà qualcuno. Lo so. Ma so anche che a dirlo sono gli stessi che dicono che il quinto passo è necessariamente l’addio, e che non si sfugge al fato, essendo il nostro destino segnato e, a furia di dirlo e ripeterlo, finiscono veramente per crederci e convincerci tutti.