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Scatto da etnografo situato. Foto-etnografia di un attraversamento

Ciò che Siena è per me.

Ciò che Siena è per me (ph. S. Montes)

di Stefano Montes

Basterebbe mostrare una foto in cui figura una scala alta, appoggiata a un muro – su cui si incontrano colori diversi e giochi vari di spazi e prospettive, nonché volumi ritagliati da aperture e chiusure di finestre o porte – perché il mio lettore sappia cosa è, per me, Siena in una sola immagine: in sintesi, in un accenno, in uno scatto. Basterebbe, basterebbe sì, basterebbe mostrare la foto e il gioco sarebbe fatto. Ma basterebbe davvero per i miei fini? Basterebbe in sé? Non ne sono certo. Il mio interesse non è soltanto di tipo deittico o ostensivo, non è il mio un dito volto a mostrare cosa intendo dire grazie a un referente colto in foto singola, ma un’interrogazione aperta sul senso dell’attraversare fluidamente uno spazio che, in quanto tratto antropologico e fenomenologico, non si lascia acciuffare staticamente, ghermire in un sol colpo semantico. Niente da fare, si muove, sfugge, richiede un contesto! Al pari dell’attraversamento, anche lo spazio – spesso concepito come cornice disambiguante, ancorante – richiede un contesto.

L’attraversamento richiede uno spazio (materiale e concettuale) e lo spazio richiede un contesto (materiale e semiotico). Io devo quindi stare al gioco e muovermi, di conseguenza, col mio oggetto dinamico: recuperando, per quanto possibile, un contesto, attraversandolo al contempo. E sto dunque al gioco, servendomi al meglio di Siena, persino immaginandola, benché l’abbia effettivamente – materialmente – attraversata in tutta la sua lunghezza, da un capo all’altro, dopo la conferenza, senza ricorrere all’invenzione, limitandomi a prendere appunti e a scattare foto a più non posso; attraversandola, però, situandomi materialmente all’interno dei suoi spazi, ho cercato e cerco ancora di cogliere quei momenti di particolare salienza in cui la città – i suoi scorci e i suoi abitanti – parevano non potersi sottrarre alle mie foto, al mio sguardo inevitabilmente situato, incrostato, individuale.

Insomma, sono stato a Siena, ho attraversato la città, ho vissuto un frammento di vita personale, cerco adesso di volgere il vissuto esperito in documento visivo, in testo scritto e altro ancora. Documento? In qualche modo, traduco; sicuramente, maneggio segni; certamente, comunico un vissuto. Consapevole dell’ampiezza della questione, oscillando inevitabilmente tra il passato (il vissuto) e il presente (la scrittura del saggio, la scelta delle foto), prima di mettermi a divagare con incoscienza tra le complessità della parola e dell’immagine, preciso ancora che la mia interrogazione è rivolta qui essenzialmente a un concetto: l’attraversamento. La mia domanda di partenza è in sostanza una e una soltanto: che vuol dire attraversare? L’interrogazione è però soltanto in apparenza semplice, soltanto in prima battuta essenziale. Come si vedrà in seguito, interrogandosi sull’attraversamento, si mettono in dubbio modi antropologici acquisiti, maniere di definire culture date per scontate, la mia stessa pratica dell’attraversare in quanto individuo sociale. La mia pratica, per di più, per quanto situata, cerca di andare al di là della domanda posta e capovolgere un andazzo teorico – ipotetico – che andrebbe dal concetto alla sua realizzazione e infine alla sua analisi.

In altri termini, io parto dalla situazione, mi pongo a peso morto in situazione e vedo cosa succede, introiettando qui e lì spizzichi di analisi man mano che mi sposto da una parte all’altra di Siena. Si potrebbe dire, riformulando diversamente, che, per capire effettivamente come un soggetto – io stesso in movimento – si inserisce in uno spazio anch’esso dinamico, faccio «dell’analisi una variante del suo oggetto» e viceversa (De Certeau 2001: 3). In questo senso dinamico (non esclusivamente sintagmatico quindi), la foto di cui parlavo prima – la foto della scala appoggiata a un muro – va vista in contraltare con quella di un bambino seduto sulle scale della posta generale di Palermo che aveva attirato la mia attenzione qualche tempo fa; nonostante sedesse di traverso infatti, il bambino mi sembrava allora attraversato dalle linee innumerevoli dei lunghi gradini inquadrati dall’alto verso il basso. Gioco di prospettive o inevitabilità dei concetti? L’uno e l’altro, in un alternarsi di rimandi, in un sovrapporsi di elementi. Perché districare, in un modo o nell’altro, i diversi elementi e prospettive è già un implicito principio di analisi.

Siede di traverso a Palermo

Siede di traverso a Palermo (ph. S. Montes)

Che ben venga, l’analisi, non mi oppongo! Io non intendo tuttavia districarmi del tutto; anzi, se possibile, vorrei scivolare da una situazione all’altra, da un ‘districarsi tentato’ a un ‘districarsi fallito’ ma sicuramente più consapevole, più maturo, a cose fatte ugualmente appagante. Fallirò? Che importa! Posso dire di averci provato. Io non intendo districarmi totalmente, ma devo pure ammettere che la foto di Siena e la foto di Palermo costituiscono comunque paradigma – instaurano, in termini hjelmsleviani, una funzione ‘o…o’ – l’una rispetto all’altra. Le penso, le due foto, in termini oppositivi, mentre vorrei invece smussare posizioni estreme e situarmi nel divenire, nel mezzo. Vorrei essere felice «abitacolo alla deriva» (Barthes 1980a: 58) in uno spazio che mi è estraneo. Chiarito questo, devo sottolineare un altro punto: nel gioco di prospettive e nell’incastro di concetti e pratiche, va posta in rilievo pure la miscela complessa di parole e immagini a cui va incontro un soggetto che si muove nello spazio. Si potrebbe obiettare che un soggetto silente, in movimento nello spazio, fa talvolta a meno delle parole. Purtroppo per chi è propenso ad accettare questa ipotesi, devo ribadire invece che le parole non sono soltanto quelle che prendono corpo nell’aria o in un libro, ma, anche, quelle che leggiamo ovunque per strada – nei cartelloni pubblicitari, nei tags dei writers, nei segnali stradali, etc. – o quelle che ci ronzano per la testa nel continuo flusso endofasico che caratterizza l’essere umano.

Noi siamo sempre nel mondo e nella testa simultaneamente, parliamo agli altri, ma anche a noi stessi come se fossimo altro da noi. Noi siamo sempre nel mondo di segni, siamo in un mondo indissociabile dai suoi segni, noi siamo in compresenza di soggetti e oggetti semiotizzati. Niente da fare quindi, non ci sono scappatoie: per quanto autenticamente antropologi direttamente interessati a individui e cose in presenza, dobbiamo avere comunque presa su semiosi vertiginose e ipotiposi incorporanti, intimamente vissute, talvolta personalmente riconfigurate (come, nel mio caso, per opposizioni tra la foto di Siena e quella di Palermo). E non è finita qui per quanto riguarda la complessità di rimandi e sovrapposizioni in gioco in un apparentemente semplice attraversamento. Nel gioco di prospettive teoriche e pratiche va infatti posta anche la regolazione tra parola e rituale: una regolazione che, nel caso in questione, mi riguarda particolarmente da vicino. Per quanto mi interroghi, difatti, aprendo bocca so bene, ogni singola volta, che il «fatto stesso di pronunciare le parole è di per sé un rituale» (Leach 1964: 407): ha, cioè, i suoi effetti performativi su me stesso intanto che discuto con voi lettori, sull’organizzazione delle idee in corso di formazione, sul mio interlocutore intento con me a interagire sul posto.

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Riflesso condizionato d’altro (ph. S. Montes)

Volenti o nolenti, siamo immersi nel rituale e nelle sue strategie discorsive. Niente di più vero, niente di più paralizzante! E io, ogni volta che apro bocca, pur sapendolo, ci penso e non posso fare a meno di cadere nella trappola dell’enunciato che non è più enunciazione: parlo, parlo persino a vanvera, ma non sfuggo alla legge inesorabile del rituale. Parlo e sono in trappola, come sempre lo sono, se parlo! Così, per una volta, decido di procedere per tentativi d’altro tipo, ricorrendo a un disorientamento dell’ordine discorsivo, affidandomi soprattutto alle immagini, altresì azzardando un attraversamento della parola stessa, pensandomi come soggetto ancorato a uno spazio del quale intende – io intendo – lasciare traccia tramite, soprattutto, le foto scattate. La complessità è già insita nel principio di partenza, se non nelle stesse mie intenzioni, e ne sono in parte consapevole. La foto lascia traccia (è un indice che mette in relazione cause ed effetti), ma è soprattutto un’immagine (è un’icona che intrattiene rapporti di similarità con il suo oggetto), talvolta pure un elemento relazionale (un simbolo visto in termini di differenze all’interno di un ipotetico sistema). Nella mia prospettiva incrociata, oltre tutto questo, la foto è anche narrazione. Dunque, per capirci e riassumere, attraverso uno spazio materiale, recandomi concretamente da un sito all’altro di Siena, mi pongo il problema dell’‘esserci’ – sono ‘da qualche parte’, vivo narrandolo – attraverso le figure del mondo che incontro man mano che avanzo e mi situo nello spazio interrogandomi al contempo.

Attraverso uno spazio e lascio fioccare le domande: è, il mio, un inutile tentativo di pensare per immagini, di sganciarmi in parte dalla parola e dall’astrazione imperante dei concetti? Che vuol dire, poi, essere situato o scattare foto da soggetto situato, in movimento? Qual è inoltre il senso dell’attraversare, se il dito corre incessantemente all’apparecchio e le gambe vanno per i fatti loro, con una loro apparente intenzionalità? Sono io o il mio dito, sono le mie gambe o il mio sguardo attratto da pezzi di mondo, a fungere da tramite e situarsi qualche parte? Una sua parte o l’insieme? Cosa entra esattamente in gioco e dove si situa il ‘tra’? Anticipando un po’, direi che si tratta di spostare l’accento dall’essere al vivere. Come scrive Jullien, adottando la prospettiva cinese, si tratta di esaminare «un’altra vocazione del tra, quando questo non è più ridotto allo statuto di intermediario o di grado, tra il più e il meno, ma si dispiega come l’attraverso che lascia passare» (Jullien 2016: 179). Lì per lì, a Siena, senza rifletterci più di tanto, mentre mi dirigo – dovrei dire: ‘mi dirigevo’ perché, non appena enunciata in forma scritta, un’azione è già proiettata nel passato – dall’albergo verso la stazione centrale, metto in atto il mio piano sregolato: decido di lasciare spazio alla foto, all’immaginazione visuale per mettere in qualche modo a tacere l’ordine del discorso ed esplorare, in pratica, l’attraversare.

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La funzione poetica (ph. S. Montes)

Osservo e scatto, immagino e penso e mi interesso ai diversi modi di «costruire, intenzionalmente o meno, orizzonti che determinano ciò che esperiamo» (Crapanzano 2007: 11). E sì, proprio così, telefono alla mano, scatto, poi scatto ancora. Senza pensare scatto. Ne scatto una, ne scatto un’altra. Ne scatto una dopo l’altra. Scatto foto su foto. Quante? Ne scatto, ne scatto tante. Ancora, tante. Scatto male, scatto come viene, scatto di riflesso. Mi lascio andare al tempo, all’umore. Ancora e di nuovo. Scatto di nuovo, scatto comunque, scatto in tempo per cogliere scorci insoliti, di colori saturo, invertebrato: sono nell’intento, seppur poco attento. E, mentre scatto, mi pongo il problema dell’inizio. Dove va infatti posto l’inizio nel mio percorso cittadino, nonché nel mio testo scritto? Dove inizia il mio viaggio di ritorno verso Palermo? Da dove inizia il mio attraversamento, visto che, nel transito, si mettono in opera intersezioni varie tra parola e immagine, tra forme di continuità e discontinuità diverse? Non c’è niente da fare, niente da soppesare: l’inizio del mio attraversamento potrebbe essere ovunque e dipende in fondo da me. O no? Potrebbe certamente essere quella bella frase attribuita a Anna Magnani che ho fotografato – l’espressione è qui volutamente ambigua: si può fotografare una frase? – in una libreria e messa da parte per l’occasione: «Le rughe non coprirle che ci ho messo una vita a farmele venire». Io l’ho fotografata con l’intento specifico di utilizzarla come incipit di un articolo perché, in quella semplice frase, capovolgendo le fasulle mode odierne, si sottolinea il principio esistenziale secondo cui il tempo lascia tracce – nel corpo e nella mente – che arricchiscono e non sminuiscono come invece alcuni credono a volte.

Rughe in tempo

Rughe in tempo (ph. S. Montes)

Per di più, con mio grande piacere dovuto all’interesse per la nozione di agentività, nella formulazione di Anna Magnani, sembrerebbe quasi imporsi, da sé, una intenzionalità marcata del soggetto che opera: il soggetto intende e le rughe sono presenti; il soggetto intende e dialoga in controcorrente. Insomma, tutto il contrario di quello che, nella società d’oggi, alcuni farebbero: cancellare le tracce del tempo e l’intenzione di mantenerle a dimostrazione di vera vita vissuta. Comunque sia, al di là di mode e imperativi, ciò che qui più conta per me è che questa frase di Anna Magnani sarebbe un inizio appropriato al mio saggio fotografico sull’attraversamento proprio perché mostra che il tempo, nel bene e nel male, è una dimensione antropologica di cui non si può fare a meno, né nel quotidiano vivere né nella simmetrica riflessione teorica; a mio parere, ancora, essa mostrerebbe che l’incastro tra immagini e parole è a volte sorprendente, ilare e misterioso, divertente e casuale. Intempestivo, infatti, io sono capitato per caso in quella libreria, a Forlì, dove ho scattato una foto e ho incominciato a pensare di potermene servire, venuto il momento, non appena avessi preso di mira la dimensione temporale in qualche saggio. E già, perché, per attraversare, è necessario risiedere nel tempo, dimorare nell’azione, praticarla, forse pure pensarla se si vuole scrivere.

Ma come si risiede nel tempo? Con quali categorie continue e discontinue? Ripartiamo da questo, ripartiamo da un sinologo. Secondo Jullien, per esempio, la trasformazione continua di cui parlano i cinesi ci sfugge perché, in Occidente, siamo più inclini a pensare in termini di categorie discontinue e nettamente più oppositive; vale per Platone che si attiene a un rigido prima e dopo, vale per Aristotele il quale, pur pensando il cambiamento, ricorre a fasi intermedie ricostitutive del punto di partenza e di arrivo. Per Jullien, la «transizione apre letteralmente un buco nel pensiero europeo, riducendolo al silenzio» (Jullien 2010: 22). Con qualche concessione, ammette Jullien: la fluidità della trasformazione concepita dai cinesi è prossima alla ‘lunga durata’ di Braudel. È pur vero però, ribadisce, che la ‘lunga durata’ di cui parla Braudel rimane intrappolata all’interno della metafisica occidentale perché fa leva sulle nozioni di struttura o di modello. Tirate le somme, noi siamo nel tempo, ma lo pensiamo attraverso la cultura di appartenenza e le relative inclinazioni teoriche manifeste o latenti. Lo ricorda pure Deleuze in controcorrente, pur essendo un occidentale, ricorrendo a categorie alternative a proposito dei suoi connazionali:

«I francesi sono troppo umani, troppo storici, troppo preoccupati per l’avvenire e il passato. Passano il loro tempo a fare il punto. Non sono capaci di divenire, pensano in termini di passato e di avvenire storici. Anche riguardo alla rivoluzione, pensano un ‘avvenire della rivoluzione’ piuttosto che a un divenire-rivoluzionario. Non sanno tracciare delle linee, seguire un canale. Non sanno perforare, limare la parete. Amano troppo le radici, gli alberi, il catasto, i punti di arborescenza, le proprietà. Guardate lo strutturalismo: è un sistema di punti e di posizioni, che opera attraverso grandi tagli detti significanti, in luogo di procedere per spinte e scricchiolii, e che poi colma le linee di fuga invece di seguirle, di tracciarle, di prolungarle in un campo sociale» (Deleuze, Parnet 1998: 42).
Eccomi eccola

Eccomi eccola (ph. S. Montes)

E io? Sono forse troppo umano? Sono preoccupato dell’avvenire o radicato nel passato? In linea con Deleuze, procedo per spunti e scricchiolii, più che per punti e posizioni. E ne sono felice. Ho eletto l’attraversamento pratica di riferimento proprio per proiettarmi meglio in un vissuto esperito in divenire e concedere più spazio alle immagini rispetto alle parole. Ma incomincio a pormi il problema veramente adesso, scatto dopo scatto, passo dopo passo, nel processo: è mai possibile eliminare del tutto le parole? Almeno in questo caso, in cui sono ‘costretto’ a scrivere per accompagnare le foto, non potrei certamente: altrimenti dovrei ricorrere soltanto a immagini che ‘parlino’ da sole. Ed è inoltre possibile porre concetti e categorie completamente in secondo piano rispetto a pratiche e attualizzazioni sul campo? No, non del tutto; posso però cercare di mantenermi nel divenire e rifletterci adeguatamente: questo sì, posso farlo, rimuginando sull’attraversamento.

Una prima riflessione, allora, viene proprio dall’uso – troppo disinvolto? – che ho fatto di Deleuze comparandolo con la posizione di Jullien sulle categorie occidentali e cinesi. Nel modo in cui lo intendo, l’attraversamento è una variante del modo di concepire il divenire da parte di Deleuze: ne sono convinto e contento. Scrive infatti Deleuze: «Non sono mai l’inizio e la fine ad essere interessanti, essi sono solo dei punti. L’interessante è il mezzo» (Deleuze, Parnet 1998: 44). Attraversando Siena da un capo all’altro, mi sono reso conto infatti che ho altresì attraversato categorie, non solo spazi, rimanendo tutto sommato nel mezzo, in divenire, nella circolazione dell’immagine e della parola. Uno dei modi di mantenermi nel mezzo, pur attraversando Siena, è rappresentato dalla dissoluzione dell’inizio – altrimenti, in altri casi, pensato come irrevocabile e originario – del mio spostamento.

In alternativa

In alternativa (ph. S. Montes)

Io inizio dove voglio, posso iniziare dove mi pare e piace, aprendo la piacevole catena dei possibili narrativi e iconici. Mi sono proposto come inizio opportuno un manifesto: un possibile punto di partenza (che mi proietta altrove) è proprio l’immagine di Anna Magnani e l’uso (che ho fatto) della sua frase. Ma il mio inizio di attraversamento cittadino potrebbe essere posto altrove ed essere altro, pur sempre felicemente ‘scricchiolante’: per esempio, potrebbe essere più legato al mio vissuto senese (la foto del poster di Anna Magnani l’ho scattata a Forlì). Il mio inizio di attraversamento cittadino potrebbe essere sostanziato, per esempio, dalla lavagna imbrattata di concetti utilizzati a lezione a Palermo e fotografata prima di partire per Siena. Si trattava di una lezione di antropologia del linguaggio vertente sull’azione situata e sulla distinzione saussuriana di langue e parole, quindi pertinente per il senso da me attribuito all’attraversamento. Se sposto l’incipit, facendolo coincidere con questa foto della lavagna, si potrebbe dire che il mio attraversamento senese è messo in moto dalla presa di coscienza – dal riaffiorare alla mente – di una lezione che ha avuto luogo in un tempo precedente rispetto al ‘situarsi’ vero e proprio sul posto, a Siena. La foto della lavagna è dunque un’alternativa? In alternativa, la lavagna e l’uso che ne faccio, più che esprimere punti e posizioni, lima e perfora vere e false partenze, lima distinzioni troppo nette tra atti cognitivi e somatici, perfora l’apparente solidità di elementi d’ordine spaziale e temporale.

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Piazza del Campo come aspettativa (ph. S. Montes)

Forse, a ben vedere, più che un vero inizio è un situare indietro nel tempo l’ordine degli elementi puntuali, affogando il discontinuo in un tracciato multilineare. Secondo questa ipotesi, in cui il divenire acquisisce spessore pragmatico, non sarebbe stato possibile dire: «Immaginatevi quindi mentre fare il vostro primo ingresso nel villaggio» (Malinowski 2004: 13). Perché? Perché il primo ingresso nel villaggio presuppone una concezione più generale della ricerca sul campo fondata su punti e posizioni in cui un inizio e una fine sono rappresentativi in maniera fissa di un tipo di azione esemplare e dell’altrettanto esemplare metodologia utilizzata. Nel caso specifico di Malinowski, l’entrata nel villaggio oblitera la continuità – esistente, necessaria e teoricamente fondante secondo me – con la vita vissuta a casa, quella vita che Malinowski sembra essersi lasciato alle spalle e che sembrerebbe non avere, per lui, almeno in apparenza, un ruolo sul campo. È come se io dicessi, quindi, che il mio – primo – ingresso sul campo a Siena, a proposito di attraversamento, è rappresentato dalla mia partenza dall’albergo per recarmi alla stazione centrale di Siena. È come se dicessi che un attraversamento necessita di un punto di partenza e di uno di arrivo rigidamente ancorati e fissati, addirittura prestabiliti. In realtà, io voglio mostrare tutto il contrario: primo e ultimo, partenza e arrivo, punti e posizioni, persino in un caso di manifesta concettualizzazione spaziale (quale sarebbe per l’appunto, per alcuni, l’attraversamento di una città) sono ritagli arbitrari di un continuum attualizzato da pratiche di immersione in insiemi di parole e immagini, elementi spaziali e temporali, soggettivanti e oggettivanti, descrittivi e narrativi.

Bircio

Bircio (ph. S. Montes)

Io voglio, da parte mia, sottrarre l’aura di straordinario al campo esotizzante trasformando la vita stessa in un campo straordinario vissuto giorno per giorno anche come elemento di osservazione e di partecipazione antropologica. Per me, l’incomprensibile è ovunque, non solo in un altrove ritagliato come fatto iniziatico a discapito di una vita concepita come lontana e piattamente ordinaria. Per un funzionalista come Firth, nelle «sue prime esperienze sul terreno l’antropologo deve sempre lottare con l’incomprensibile» (Firth 1976: 4). Per uno ‘sbandato’ e ‘scricchiolante’ come me, situato nel ‘dappertutto’ della semiosfera, in fuga da un’origine e da un ancoraggio, l’antropologo deve lasciarsi andare all’incomprensibile del quotidiano. E quindi? Scatto e scatto ancora. Ne scatto una, ne scatto un’altra. Ne scatto una dopo l’altra. Scatto foto su foto. Ne scatto, ne scatto tante. Scatto male, scatto come viene, scatto in tempo, per tempo. Ancora e di nuovo. Scatto di nuovo, scatto comunque, scatto per cogliere scorci insoliti, per cogliere l’intento e lasciarmi andare al luogo. Scatto di prima mattina, non appena mi alzo, dalla finestra, mentre le nebbia si dirada e le nuvole sono già alte in cielo, per lembi, come a voler manifestare la loro intenzione: volgere il tempo al bello e lasciare spazio al sole intravisto. Scatto al bar, mentre bevo un caffè, immergo il croissant con una mano e con l’altra pigio. E penso e mi interrogo: quale delle due foto scelte è un inizio più opportuno per il mio attraversamento? Il sonno annegato nel caffè o lo sguardo perso nei frammenti di un paesaggio? Vorrei, se solo potessi, se ne avessi il tempo, fare un montaggio. Ma il tempo scorre, incalza, devo consegnare l’articolo, sono ‘nel mezzo’, vivo in divenire. Il tempo non mi aspetta, si sgretola. E io, scegliendo le foto, riguardandole, ho l’impressione di muovermi dentro e fuori il tempo; ho l’impressione maldestra di esasperare opposizioni che non sono soltanto nelle immagini ma anche nelle mia mente, soltanto nella mia mente: la nebbia e le nuvole, il caffè e i bicchieri stilizzati, le simmetrie laterali e l’alto/basso verticale, la schiuma soffice e la stilizzazione precisa, l’albero e l’edificio, etc.

Piazza del Campo da un'altra prospettiva

Piazza del Campo da un’altra prospettiva (ph. S. Montes)

Sono sotto l’influsso delle immagini, ma sono pure nell’atto poetico, intenzionalmente ricercato, voluto sia nella scrittura adottata che nella ripetizione di coppie valorizzate nelle immagini. Sono nelle immagini e nelle simmetrie ricercate, talvolta casuali. E questo perché vorrei narrare un evento – un semplice attraversamento – ma vorrei pure proiettare categorie nella pratica e de-sostanzializzare categorie dalle pratiche. Vorrei farlo, poeticamente, combinando paradigmi in modi insoliti. D’altronde, come afferma Jakobson, la «funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione» (Jakobson 1966: 192). E io ci provo, ci provo pure, nonostante il tempo stringa: considerando il mio attraversamento un vero e proprio campo etnografico in cui mi proietto scattando foto, scattando categorie, cercando di sfuggire al loro dominio, ricorrendo alla poesia delle immagini e delle azioni. Con una ammissione che è adesso tempo di rivelare al lettore ignaro: sono stato a lungo affascinato – forse lo sono tuttora – dalla definizione di cultura formulata da Geertz, secondo cui l’uomo (l’antropologo tra questi), al pari di un ragno, produce la cultura ma è schiacciato dalla prossimità con il suo prodotto, a tal punto da non vederne bene i contorni, a tal punto da non potere prendere le distanze dal suo oggetto al fine di riconfigurarne la portata di sistema e d’insieme. Geertz ritiene infatti che «l’uomo sia un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto» (Geertz 1988: 11). Per Geertz, l’uomo è insomma sempre situato, un animale che interpreta, schiacciato sul suo oggetto, impossibilitato a mettere in atto uno sguardo d’insieme che, tralasciando i dettagli, ricostituirebbe la totalità.

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Che ci fa nella mia foto (ph. S. Montes)

Affascinato dalla ‘prossimità’ e dall’idea di ‘produzione’ di cui parla Geertz, il mio tentativo è proprio questo: mi situo nell’azione, scatto foto, prendo appunti, cerco di rimanere nel divenire. Il mio tentativo, in definitiva, consiste nel mettere alla prova questo assunto di base a modo mio: schiacciarmi sulla situazione, per quanto possibile. Mi metto alla prova, come direbbe Sartre, anteponendo l’esistenza all’essenza: a ridosso dell’esistenza, contro la sua forza avvolgente, voltando le spalle all’essenza. Diciamo che, rispetto a Sartre, sono meno fiducioso nel concetto inglobante di situazione. Lo prendo, me ne servo, lo uso senza affezionarmi troppo alla sua salienza. Per Sartre, infatti, la «compréhension n’est pas autre chose que ma vie réelle, c’est-à-dire le mouvement totalisateur qui ramasse mon prochain, moi-même et l’environnement dans l’unité synthétique d’un objectivation en cours» (Sartre 1960: 140). Per me la situazione, nonché l’ambiente, sono orizzonti che bisogna imporsi di superare. Bisogna cercare di farlo spostandosi al di qua e al di là di alcune categorie, accettate talvolta acriticamente, inconsapevolmente, cercando di andare oltre il pensare ancorato alla stessa situazione: perché un «pensiero muore quando non lo eserciti oltre» (Cioran 2016: 46).

Mi stupisce, tenendo tra le mani, il volume di Leiris, L’Afrique fantôme, vedere che la sua narrazione inizia con una partenza e un arrivo che corrispondono a due luoghi geografici precisi: Bordeaux e Marsiglia. È come se avesse avuto bisogno di un senso di finalità. Certo, lo spazio inteso come punto di partenza e di arrivo contribuisce a dare a Leiris un qualche senso di finalità al suo viaggio invece, a suo stesso dire, per molti aspetti inconcludente. Il suo racconto etnografico, così eversivo da inimicargli l’amico Griaule, è strettamente ancorato al senso dell’iniziare e del finire. Ecco le righe conclusive del suo viaggio:

 «Demain matin, vers les 7 heures, nous entrons au port de Marseille, à moins que d’ici là le bateau ne brûle, ne coule pas ou que le mistral devenu très violent ne nous oblige à attendre de longues heures devant l’Estaque, avant de pénétrer dans le port. J’ai rangé des papiers dans la caisse-bureau, bouclé mes valises, préparé mon linge pour demain matin. Dans ma couchette, j’écris ces lignes. Le bateau oscille légèrement. J’ai l’esprit net, la poitrine calme. Il ne me reste rien à faire, sinon clore ce carnet, éteindre la lumière, m’allonger, dormir, – et faire des rêves…» (Leiris 1934: 648).
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Schiacciato in basso (ph. S. Montes)

Leiris non vede l’ora di arrivare, ha forse un po’ d’ansia, compie delle azioni che in qualche modo lo situano già là dove vorrebbe essere: in Francia. Ciò che conta è che, per quanto strano sia il suo racconto etnografico, deve in fondo avere un ancoraggio spaziale che ne fissi il senso di finalità. Per quanto sregolata sia la sua narrazione, il suo attraversamento deve avere fine, situarsi. Persino la scansione delle sue azioni mostra che il suo compito è arrivato a termine: non gli resta più niente da fare se non andare a dormire. Non gli resta più niente da fare se non affermare il suo ruolo di scrittore già all’interno del testo, ma ancora nel battello sul punto di scrivere: «J’écris ces lignes». E io che attendo ancora? Che senso di finalità dare alla mia scrittura, alle mie immagini, al mio stesso attraversamento? È proprio necessario avere una finalità come sembrerebbe dire Leiris?

A peso morto mi concedo allo scoccare dello spazio sui miei pensieri in lieve ritardo sul suo incalzare costante; mi lascio andare alle associazioni inconcludenti, a se stanti, talvolta invece convincenti: al loro ritmo scioccante, allo schioccar fulmineo di dita sul cellulare sorprese dal cambio di prospettiva imposto dal mio incedere lento nello spazio circostante. Placido. Scatta Stefano, scatta! Che aspetti? Non così placido. Lo dico a me stesso e non ci rifletto, inquadro, sprono il mio ragionare al fare. Foto su foto, pensieri su pensieri, azioni su azioni. Scatto come fosse uno schioccar di dita. Non faccio altro, faccio come mi pare, come viene. Scatto foto. Non so perché lo faccio, impertinente, presente, scatto in sintonia con i luoghi, gli sguardi; non so perché procedo ammodo in spazi a me nuovi, invoglianti, seducenti. Scattando, cerco di capire: spiegare a me stesso, scattando, cosa vedo. Scattando, vorrei cercare di capire se spiegare «non è altro che descrivere una maniera di fare, [di] rifare col pensiero» (Valéry 1988: 62).

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Rivolto in alto (ph. S. Montes)

Voglio fotografare mentre penso per immagini. Mentre. Nient’altro. Penso e non posso farne a meno. Voglio: fare foto a volontà, con impegno, per piacere, attento e concentrato: con pazienza, noncuranza, ridondanza. Foto su foto. Su e giù per le strade. Siena. Soprappensiero. Sopraffatto dalle immagini. A bizzeffe, ne faccio tante, a iosa. Ne faccio tante. Sì, perché mi lascio trascinare da ciò che vedo. Voglio andare: vedere, scattare, vagare. E vedo tanto e vado intanto verso la stazione. E ne vedo, di immagini, ne vedo tante: spunti su spunti di geometrie in primo piano, sfondi sfocati, più in là del mio sguardo annacquato, linee che si intersecano, angoli che si rincorrono. Che? Io lo vedo il mondo in corsa, lo vedo in un cantuccio, mentre corre a me davanti: per immagini, per frammenti, al mio esterno, al di là di me stesso, sul bavero diritto del giubbotto. E mi lascio trascinare: dai miei passi. Penso per immagini: per spunti rapsodici. Frammentari? Improvviso, improvviso. E non pianifico. Improvviso casomai: col dito a peso morto sul puntino dell’apparecchio, a passeggio per la città. Vado. Lo sono: a passeggio, in transito, a Siena, instabile, in divenire. Eccome se lo sono!

Attraverso la città: da una parte all’altra. Senza fretta, nel flusso, scatto e non mi accontento di quel che vedo. E vado, vado avanti così. Scattando, vado verso la stazione. Vado. Scattando, una foto dopo l’altra, mi approssimo alla meta. Quale? Mi approssimo, mi basta. Basta un telefonino a questo fine. Vado e scatto senza fine. Basta allo scopo. Basta. Per il momento. Non pretendo al bello. Non pretendo affatto. Non pretendo. Scatto. Non chiedo altro: lasciare traccia. Traccia? Tenere in scacco il tempo, me stesso nel tempo, nella traccia che lascio dietro di me, nella foto. Non altro. Non chiedo altro: rintracciare. Non più di questo. Non oltre. Mi piacerebbe: muovermi nel tempo come un segugio inflessibile, in sintonia con le azioni in atto, intanto che passeggio con il fine vago di andare verso la stazione. Scatto. Attraverso Siena. È pomeriggio. È  tempo di scattare. Quel che basta. Con la luce che resta. Che scena! In tempo, fuor di me, fuori tempo: verso la stazione centrale. Mi dirigo. Lentamente. Accelerando. Mi sposto.

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Pedoni a sinistra (ph. S. Montes)

Passo dopo passo, gesto dopo gesto, una foto dopo l’altra. E formulo, inconsapevole, un desiderio a mezza voce, da nessun luogo emerso. Sorpreso! Mi piacerebbe soltanto tenere in memoria il momento: con qualche scatto imminente, immanente. Intimamente. Bloccarlo, fissarlo, renderne conto, afferrarne il senso per interposta immagine. E appropriarmi dello spazio e di me stesso in movimento nello spazio sfuggente, in fuga, in prospettiva mutevole. Berrei qualcosa, penso. Berrei un tè. Poi, senza aggiungere altro, torno a scattare, a rivolgere nuovamente l’attenzione sviata allo spazio innanzi. «Appropriarsene nonostante tutto», sarebbe questa l’idea, la mia idea, io e la mia idea e lo spazio. Io? Perché? Come? Un’idea? Se il mio corpo si muove nello spazio, la prospettiva sul mondo muta. E allora? Che fare? Come adoperarsi? Provar non nuoce: bloccare l’attimo nella sua magica sospensione mentre vado dal centro alla stazione. Ne vale la pena. Provar non nuoce: avanzare nello spazio e nel tempo, fare qualche foto, lasciare traccia. Passare scattando, passeggiare. E io passeggio, scatto e penso già al titolo: e se lo chiamassi “Scatti da autore”? Troppo, fin troppo pretenzioso. E penso già al dopo, al trasporto della redazione? Ne convengo. Il troppo è troppo.

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In cerca d’altro (ph. S. Montes)

Scatto da anni, è vero, ma non da autore. Non proprio. Non lo sono. Non sono un fotografo? Non sono quel che vorrei. Non lo sono mai stato. Ho occhi per vedere, un telefonino per capire e fare foto adesso come capita. Lasciandosi guidare dal momento, dal cambiamento di prospettiva che mi si offre mentre passeggio. Per capire, scatto, per andare al di là di me stesso, di ciò che vedo e mi cattura senza un perché apparente. Da sempre, vado in cerca di immagini per capire, per tentare di esserci: da qualche parte. Le disseziono, le foto. Le discuto. Le sottolineo, scrivendoci. Anche quando, in passato, non lo sapevo – e che potevo saperne all’epoca? – cercavo di capire in che modo il mondo è a me conforme, ai miei pensieri, alle immagini che non posso fare a meno di osservare. E adesso scatto. E allora “Scatti da etnografo” è forse più adeguato per intitolare lo scritto che seguirà a tamburo. Certo, il titolo –  ogni titolo batte le ali per sé – rimane ambiguo, imperfetto: pronto a cedere alla narrazione, alla sequela di immagini che lo assorbono. Si presta a interpretazione, è sempre un prestito, un transito, un sobbalzo. Come me in questo momento mentre attraverso Siena e scatto da pazzi. E nonostante io non mi sia mai visto come un fotografo. Non mi sono nemmeno visto come uno scrittore. Non mi sono mai visto allo specchio per sé: proiezione di un’ombra retroflessa sullo spazio alle mie spalle guardingo. Mi lascio andare ed è tutto. Lascio la presa, allento la presa. Che altro potrei volere? Scrivere, scattare foto. È tutto. Entro e fuori norma, fuori sede, in viaggio, a Siena, fuori fa freddo

Spaziazione dei writers.

Spaziazione dei writers (ph. S. Montes)

Foto, tante parole, sparuti flussi di coscienza. E io al seguito, immerso nelle mie emozioni. Come se non fossi quello che parla e scatta e pensa, come se non fossi affatto me stesso. Scatti da etnografo, scatti cognitivi, scatti in divenire. Penso, mi lascio pensare dagli scatti, ripenso. Eccoli, uno per uno, uno alla volta. Tratti del pensare. Lo sono. Sottratti al tempo che fugge via mentre passeggio, sottratti ai miei ruoli di sempre. Quali ruoli? Per quali tempi? Per quali azioni a me confacenti? A ciò che penso, al mio presente? Parlo in prima persona, scatto in prima persona. Mi basta pensare, scattare, parlare. In prima persona? Io «ho sempre avuto voglia di argomentare i miei umori; non già per giustificarli; e ancor meno per riempire con la mia individualità la scena del testo; ma, al contrario, per offrire, per porgere quest’individualità a una scienza del soggetto» (Barthes 1980b: 20).

Così, parlo in prima persona e scatto, penso alle mie aspettative rispetto a Siena, a ciò che vedo effettivamente. E scatto. Mi proietto nell’azione vera e propria, nel suo volatile movimento, deducendone considerazioni da trasporre su carta, in chiave etnografica insolita, oggettivando la mia prospettiva, ripercorrendola in atto, da soggetto che non teme di enunciare se stesso in vivo. Mi immergo: nella mia stessa prospettiva di fotografo e antropologo, amplificandola e srotolandola, poiché «i ‘dati’ non sono eventi o oggetti, ma sempre registrazioni o descrizioni o memorie di eventi o di oggetti» (Bateson 1977: 22). Lo faccio in modo da esplicitarne il processo e l’organizzazione dal punto di vista dell’enunciato e dell’enunciazione. Attraverso. Cosa? L’alterità. L’alterità di una città.

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Di ritorno (ph. S. Montes)

L’attraversamento di una città è un’incursione nell’alterità, nel non noto. L’alterità è dappertutto, persino all’interno del «tuo corpo composto per tre quarti di acqua, più un poco di minerali terrestri, un pugno scarso. E questa grande fiamma in te di cui non conosci la natura. E nei tuoi polmoni, presa e ripresa di continuo dentro la gabbia toracica, l’aria, l’ossigeno, questo splendido straniero, senza di cui non puoi vivere» (Yourcenar 1985: 188). L’alterità è dappertutto, negli oggetti e nei soggetti, persino al tuo e al mio interno. Ne prendo coscienza. Sollevo la gabbia toracica. Non mi resta che concludere. Come concludere senza finire? Come finire senza ancorarsi a un concetto ultimo? È mai possibile? In fondo, «ogni pratica di linguaggio e, a maggior ragione, ogni sforzo di scrittura costituiscono un’attività comunicativa» (De Certeau 2007: 178). Sì, ho capito, non mi resta che rimandare il lettore alle foto, alla loro parvenza di felice inconcludenza. È meglio, meglio così. E, mentre decido, un ultimo pensiero mi passa per la testa, mi attraversa la testa mentre guardo per l’ennesima volta una foto. Vorrei che il lettore leggesse questo saggio foto-etnografico come uno spostamento concettuale dal campo come luogo circoscritto ed esotizzante al viaggio e dal viaggio all’attraversamento come sregolamento del Sé. Chissà! Forse questa potrebbe essere una conclusione, per quanto inconcludente. In ogni caso, questo è per me un conforto, una etnografia – come scrive Clifford (Clifford 1997) – dice sempre altro, oltre a ciò che vuole dire.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
Riferimenti bibliografici
Barthes R., Barthes di Roland Barthes, trad. di G. Celati, Einaudi, Torino, 1980a (1975)
Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. di R. Guidieri, Torino Einaudi, 1980b (1980)
Bateson G., Verso una ecologia della mente, trad. di G. Longo e G. Trautteur, Adelphi, Milano, 1977 (1972)
Cioran E., Divagazioni, trad. e cura di H. C. Cicortaş, Lindau, Torino, 2016 (2012)
Clifford J., “Sull’allegoria etnografica”, in Clifford J., Marcus E. G., Scrivere le culture, trad. di A. Aureli, Meltemi, Roma, 1997 (1986), 135-162
Crapanzano V., Orizzonti dell’immaginario. Per un’antropologia filosofica e letteraria, trad. di D. Daniele, Bollati Boringhieri, Torino, 2007 (2004)
De Certeau M., La presa della parola e altri scritti politici, trad. di R. Capovin, Meltemi, Roma, 2007 (1968)
De Certeau M., L’invenzione del quotidiano, trad. di M. Baccianini, Lavoro, Roma, 2001 (1980)
Deleuze G., Parnet C., Conversazioni, trad. di G. Comolli e R. Kirchmayr, Ombre corte, 1998 (1996)
Firth R., Noi, Tikopia. Economia e società nella Polinesia primitiva, trad. di C. Bianco e D. Cannella Visca, Laterza, Roma-Bari, 1976 (1963)
Geertz C., Interpretazione di culture, trad. di E. Bona, Il Mulino, Bologna, 1988 (1973)
Jakobson R., Saggi di linguistica generale, trad. di L. Heilmann e L. Grassi, Feltrinelli, Milano, 1966 (1963)
Jullien F., Le trasformazioni silenziose, trad. di M. Porro, Raffaello Cortina, Milano, 2010 (2009)
Jullien F., Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, trad. di E. Magno, Feltrinelli, Milano, 2016 (2015)
Leach E., “Ritualization in Man in Relation to Conceptual and Social Development”, in Philosophical Transactions of the Royal Society of London, vol. 251, n. 722, serie B, 1964, 403-408
Leiris M., L’Afrique fantôme, Gallimard, Parigi, 1934
Malinowski B., Argonauti del Pacifico occidentale, vol. I, trad. di M. Arioti, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 (1922)
Sartre P., Questions de méthode, Gallimard, Parigi, 1960
Valéry P., “L’uomo e la conchiglia”, in All’inizio era la favola. Scritti sul mito, a cura di E. Franzini, trad. di R. Gorgani, Guerini, Milano, 1988 (1957), 57-79
Yourcenar M., Il Tempo, grande scultore, trad. di G. Guglielmi, Einaudi, Torino, 1985 (1983).
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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