Nella confusa temperie del nostro presente, se si vuole intuire la rotta che si sta percorrendo per tentare di capire dove stia andando il Paese, quale sia il suo stato di salute, quale il futuro che sta preparando all’orizzonte, due sono forse, a guardar bene, gli osservatori privilegiati, i parametri cui riferirsi. Non il Pil né il tasso d’inflazione, e nemmeno le statistiche sui consumi o sui redditi, ma la scuola e la lingua, ovvero i luoghi e gli strumenti per eccellenza della conoscenza sono le spie, gli indici, le cartine di tornasole degli orientamenti e degli umori che scorrono sottopelle, delle evoluzioni carsiche, dei processi culturali che lentamente affiorano, si dispiegano e prendono forma nel divenire della storia di lunga durata.
Dentro le aule scolastiche ove si riproducono le strutture e le storture sociali del Paese si affronta una sfida quotidiana, faticosa e silenziosa, perché si riducano distanze e disuguaglianze e si costruiscano cittadinanze consapevoli e convivenze rispettose. Perché, come scrive la Costituzione, si possano «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Compito sempre più difficile dal momento in cui, da anni, l’istruzione pubblica è stata lasciata deperire nelle risorse finanziarie e screditare nella sua eminente funzione sociale.
La crisi educativa che sta attraversando la scuola risale alla rottura del patto generazionale con le famiglie, al ruolo di complicità e di protezione assunto dai genitori rispetto ai figli, alla condizione di solitudine degli insegnanti, umiliati dalla cronica precarietà e frastornati dalle contraddizioni di riforme e controriforme. L’analfabetismo e il bullismo che oggi denunciamo non sono in tutta evidenza fenomeni endogeni, generati e prodotti esclusivamente dalla scuola ma il riverbero nella scuola di un contesto, di un clima, di una deriva etica, di un lessico politico che ha parole di irrisione e di insofferenza verso l’unico capitale di un Paese, quello umano e culturale. Nelle aule straripa quanto è già dilagato fuori dalle aule: l’irrilevanza dello studio, la violenza fisica e verbale, la sciatteria mentale e comportamentale.
E di questa generale tendenza all’approssimazione e alla caduta o sfilacciamento delle regole grammaticali dell’abitare e del convivere è sintomo quanto mai significativo l’uso slabbrato e zoppicante dell’italiano, della lingua che articoliamo in una sintassi sempre più incerta e grigia e in un lessico povero e disseccato. Già Italo Calvino negli anni ottanta aveva messo in guardia dalla propagazione di un linguaggio pubblico afflitto da una specie di «epidemia pestilenziale», da un’omologazione «che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze». E il linguista Tullio De Mauro in un’intervista rilasciata circa dieci anni fa ammoniva: «Una classe dirigente male alfabetizzata, quindi non aggiornata, è la rovina di un Paese, molto più di un crollo della Borsa. Migliorare l’italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti».
Di scuola e di lingue si occupa questo numero di Dialoghi Mediterranei. Di una scuola che resiste, che supplisce, che riscatta e riabilita nelle sue esperienze di dialogo e di contaminazione tra giovani di culture diverse. Di lingue che sono luoghi di incontro, di relazioni e scambi, di rimescolamento di censi, di etnie e di geografie. Così è la Scuola di Lingua italiana per Stranieri dell’Università di Palermo. Ne scrive Mari D’Agostino che la dirige dal 2012 e ne racconta la storia e le storie degli speciali studenti che la frequentano: i profughi, i minori stranieri non accompagnati, le ragazze sottratte al vile giogo della tratta. «In loro – osserva – troviamo di sovente la stessa energia che spinge i nostri figli ad andare (e magari poi a tornare), a conoscere e a mescolare idee, lingue, canzoni, sogni». Appartengono alla categoria dei “connected migrants”, sono multilingui, abituati a passare da un codice all’altro, da uno spazio ad un altro, capaci di «usare le nuove tecnologie non solo, come sappiamo, per salvare la propria vita e quella di altri lungo il viaggio nel deserto e nella traversata del Mediterraneo, ma anche per costruire nuovi modi del vivere».
È noto che sull’impiego del cellulare da parte dei migranti si concentrano i risentimenti e le critiche anche aspre di quanti li accusano di essere questuanti e parassiti. Ma la possibilità di connettersi attraverso questi mezzi digitali tascabili e traslucidi assicura loro l’unico ancoraggio al mondo, alla casa, alla famiglia, l’unica difesa a fronte del trauma della segregazione e dello spaesamento. Così il posteggiatore bangladese Eunus «non parla con i suoi, vive con i suoi attraverso una collocazione dello smartphone che consenta di avere la panoramica sull’intero contesto in cui vive l’altro. I suoi figli conoscono così le strade di Palermo dove lavora il padre e possono perfino suggerire se c’è un posto libero o se una macchina è in arrivo». Lo smartphone dunque, non come oggetto di consumo tecnologico e di conformismo e ripiegamento autistico ma, al contrario, come tramite per essere qui e là, come rassicurante ponte con il lontano per tessere reti e arginare la vertigine del vuoto e dell’assenza, luogo in cui è possibile vivere in between, attraversando quei confini che sono interdetti.
Nella scuola per stranieri non si impara soltanto la lingua italiana ma si accendono desideri, si coltivano speranze, si elaborano progetti, si costruiscono amicizie, attraverso laboratori di narrazione, visite alla città, prove artistiche e pratiche sportive. Così è pure, per certi aspetti, nell’esperienza teatrale di un progetto scolastico realizzato a Milano, di cui scrive Silvia Pierantoni, dove è possibile sentirsi italiani e parlare arabo, recitare un poesia cilena e ascoltare un proverbio africano, restando la scuola lo spazio pubblico per eccellenza dove quotidianamente ed effettualmente avviene l’incontro, fisico, reale, tangibile tra coetanei e tra giovani e adulti. Se è vero che con le persone migrano le lingue, nelle dinamiche dello scambio le lingue come le persone mutano, si intrecciano, si abbracciano. Da qui la crescita collettiva nella reciproca conoscenza delle diversità etniche e della universalità dell’umano e nella consapevolezza dei rapporti sostantivi tra facoltà linguistiche, tecniche di apprendimento e processi di inclusione sociale e culturale. Sono esempi di proficue sperimentazioni didattiche che danno senso e concreta prospettiva a quel sistema di accoglienza che troppo spesso, tra astratte intenzioni umanitarie e severe pratiche securitarie, si risolve in abbandono istituzionale, frustrazione consumata in lunghe e incomprensibili attese, spazi opachi di marginalizzazione, di ghettizzazione, se non di reclusione.
Di lingue scrive anche Roberto Sottile, della lingua dialettale che mentre diminuisce il suo peso per numero di parlanti guadagna nuovi contesti comunicativi, soprattutto tra i giovani, «ormai pienamente italofoni, ma sempre meno “monolingui”». La sua interscambiabilità con l’italiano descrive un panorama sociolinguistico caratterizzato dalla mobilità d’uso e dalla frequente commutazione di codice. Liberato dallo stigma della subalternità a cui era associato, il dialetto oggi è una preziosa risorsa espressiva che oltre ad assumere una funzione prevalentemente ludica costituisce, in un tempo di sincretismi e di commistioni etniche, un capitale culturale di estremo interesse antropologico, dal momento che offre una indispensabile chiave di lettura della storia e della identità di un popolo e di un territorio.
Dialoghi Mediterranei, restando vicino alle cronache dell’attualità, si occupa in questo numero della violenza sulle donne, delle immigrate pakistane a Bologna, delle vittime dei delitti d’onore, consumati in Gran Bretagna ai danni di tante giovani provenienti da famiglie originarie del Medio Oriente e del Sudest asiatico, nonché dei rapporti di genere nell’uso delle tecnologie digitali. C’è chi espone gli esiti di una ricerca sui sistemi di interazione e sulle dinamiche psicologiche tra i giovani autoctoni e i figli degli immigrati tunisini in Sicilia e chi ragiona sugli effetti rovinosi provocati dall’abuso dei social, su quei fenomeni che fondendo e confondendo il vissuto virtuale e quello fattuale, alterano la percezione di sé e degli altri. «L’antropologia della contemporaneità – scrive Valeria Dell’Orzo – deve interrogarsi sulla nuova antropopoiesi e indagare la costruzione e il riformularsi dell’uomo, nel concreto del pensare, del sentire, del vivere, a seguito dello scontro con una nuova identità del sé, lungo le trame della rete sociale entro cui si muove e che lui stesso tesse».
Intorno alle conseguenze politiche ed economiche della escissione di ogni legame esperienziale articola il suo contributo Giovanni Cordova che, nella sua attenta recensione dell’ultimo libro di Mauro Magatti, descrive la società digitale come «fabbrica disciplinare in grado di aumentare la portata del controllo su ogni consumatore/essere umano che lasci tracce di sé nell’universo della rete». Analogamente Tommaso India osserva come «nel corso degli anni si sia prodotta una strategia di lento e inesorabile svuotamento di senso delle pratiche lavorative e dell’essenza del lavoro come produzione di socialità, di simboli, di cultura oltre che di economia e sostentamento per chi di lavoro vive». Anche i gravi mutamenti climatici all’origine di migrazioni forzate sono da ricondurre a totalizzanti modelli di sviluppo, «frutto – annota Chiara Dallavalle – di un sistema globale di sfruttamento delle risorse sia ambientali sia umane che ormai è sul punto di crollare, e che ha dato luogo ad asimmetrie sempre più grandi tra diverse parti del mondo».
Altri contributi riflettono su Islam, islamismo e terrorismo, su contesti internazionali, quali l’Algeria, Israele e la Siria, sulle questioni del pluralismo culturale e religioso, e come sempre su autori e aspetti della letteratura, dell’arte, della storia urbana e della cultura popolare. Tra le tante altre cose si segnalano per la loro bellezza le stampe storiche e le carte d’archivio portate alla luce e commentate da Anna Maria Iozzia e Rosario Lentini. Non manca nemmeno in questo numero lo spazio dedicato alla rete dei piccoli paesi che il suo coordinatore responsabile Pietro Clemente ha strutturato intorno ad una prospettiva culturale di crescita e di ripopolamento. «Riabitare i paesi – scrive – ha il senso di indicare uno sviluppo diverso, un diverso punto di partenza, porre il centro in periferia perché è da qui che parte una idea di sviluppo. (…) Forse – aggiunge – il paese è concetto nostro, italiano, di una società multiforme, paesana e cittadina, dallo Stato debole e dalla periferia resistente, in cui l’unità è raggiunta davvero quando – senza scandalo – si può dire che essere italiani è appartenere a un Paese fatto essenzialmente di paesi».
Dentro questa prospettiva che identifica nella riappropriazione della dimensione locale la rivitalizzazione possibile della democrazia nel nostro Paese, Dialoghi Mediterranei ritrova il progetto che ne ha ispirato la nascita: partecipare alle avventure culturali della globalizzazione contemporanea senza cancellare il radicamento mediterraneo della propria riconoscibilità. Una tensione «tra cosmo e campanile», direbbe Cirese, tra patrie elettive diverse, in tempi in cui il mondo si è contratto e i popoli si vanno rimescolando.
E il Mediterraneo trova in questo numero le immagini scattate da Giovanni Pepi, per lunghi anni condirettore del Giornale di Sicilia, ma anche giornalista che ha sempre coltivato la passione della fotografia. «Fotografando, – scrive – si vedono cose non sempre chiare quando si guarda. Lo penso da sempre. Ne ho conferma, adesso, dovendo scegliere gli scatti su Africa, immigrati e Sicilia per Dialoghi Mediterranei. I volti, le cose, i paesaggi, i contesti, che trovo fissati nelle immagini, non sempre somigliano alle cronache conosciute o alle realtà immaginate». Sì, è vero, la fotografia, quella dei Maestri, ha il potere epifanico di disvelare e illuminare ciò che sovente i nostri occhi non riescono a vedere, ciò che i nostri sensi non riescono a percepire. Se mai fosse vero, per usare le parole di Merlau-Ponty, che «il mondo è ciò che noi vediamo, è anche vero che dobbiamo imparare a vederlo». In questo esercizio, infine, è impegnato anche Stefano Montes che, nella prospettiva incrociata di fotografo e di antropologo, va «in cerca di immagini per capire, per tentare di esserci: da qualche parte». Sia icona o narrazione, indice, simbolo o documento, non c’è dubbio che la fotografia si offre come un fondamentale contributo alla riorganizzazione del nostro sguardo, alla rifondazione dei nostri modi di osservare e di pensare la realtà.
Buon Primo Maggio!
Dialoghi Mediterranei, n. 31, maggio 2018