La letteratura libica, ancora poco conosciuta, affronta e percorre le stesse fasi della letteratura araba del Maghreb, contestualmente alle proprie vicende storico-politiche. Durante il periodo ottomano che si protrasse per quattro secoli (1551-1911) la cultura era una prerogativa dei luoghi religiosi e strettamente riservata alle elites sociali, come il circolo letterario e religioso della capitale (al-Gami al Qaeamanli), a cui si affiancarono anche altre zawaya che svolsero un ruolo fondamentale specialmente nelle regioni rurali e desertiche per la lotta all’analfabetismo.
Nei primi decenni del XIX secolo molti furono gli intellettuali che andavano in Egitto affascinati dal nuovo fermento culturale della nahdah, i quali ebbero il merito di riportare e diffondere in Libia la lezione appresa dagli intellettuali egiziani. Il ruolo della stampa, fondamentale per l’evoluzione della nahdah, è stato per la Libia uno strumento a servizio del potere politico vigente, rispettivamente: ottomano; italiano e britannico. La naḥdah, “la rinascita culturale” in Libia, si è sviluppata in ritardo, come negli altri Paesi del Maghreb, a causa delle vicende storiche legate al colonialismo e all’indipendenza politica.
I generi letterari che emersero durante la nahdah furono il racconto breve e solo successivamente il romanzo. La predilezione per il racconto breve è stata dettata da fattori sociali e culturali che hanno caratterizzato la Libia nel primo trentennio del XIX secolo. La società libica rurale e beduina offriva ancora pochi spunti di immaginazione per poter strutturare dei racconti più vicini al romanzo. Per questa ragione il racconto breve diventa per gli scrittori una strategia di sperimentazione allo scopo di raccontare la società nella sua veste tradizionale ma sempre contestualizzata nella cornice storico-politica. È grazie al racconto breve di scrittori come al Buri (L’amata sconosciuta) che è stato possibile reperire informazioni e aneddoti della vita quotidiana libica durante l’epoca del colonialismo italiano. Solo negli anni Sessanta e Settanta, parallelamente ai mutamenti politici e all’urbanizzazione, il racconto si trasforma da divertissement sentimentale a documento di denuncia sociale, talvolta approdando al tema psicanalitico.
Sull’origine del genere letterario del romanzo libico, ci sono molte controversie, in quanto come scrive Salim Habil, un racconto per essere definito romanzo deve essere imbevuto di contemporaneità e di realismo storico, cosa che manca nei testi libici ancorati ad una realtà beduina e rurale lontana dalle tematiche del romanzo del 1900. Altri invece ritengono che il primo romanzo libico corrisponda a Min Makkah ila huna (“Da Mecca a qui”) di al-Sadiq al Nayhum del 1970.
Tra gli scrittori libici di fama mondiale compare la figura di Ibrāhīm al Kawnī, autore di numerosi romanzi, tradotti in più di quaranta lingue. Ibrāhīm al Kawnī nato a Ghadames (Libia) nel 1948 è cresciuto in una tribù tuareg nel deserto del Fezzan sino all’età di 12 anni. Nel 1970 ha lasciato la Libia per studiare in Russia, a Mosca e successivamente si è specializzato in giornalismo in Polonia. Attualmente vive tra la Svizzera e la Libia.
Il romanzo di Ibrāhīm al Kawnī si classifica nell’ambito della letteratura libica contemporanea come un romanzo spirituale e mistico, dai riferimenti storico-temporali non ben definiti e da un acceso simbolismo che attinge sia dalla tradizione letteraria araba che da quella tuareg. Il realismo dei romanzi di al Kawni sembra molto simile al realismo magico della letteratura dell’America Latina, laddove gli aneddoti storici si fondono con una descrizione nitida e meticolosa dell’ambiente naturale e dei suoi abitanti, tra cui compaiono anche gli spiriti e le figure soprannaturali. È interessante notare come l’autore sappia tessere la trama del racconto, alternando un simbolismo letterario che esprime una profonda conoscenza dei topoi della letteratura araba e dei personaggi della tradizione orale tuareg.
Il deserto resta il protagonista di tutti i romanzi di al Kawni ma non è un luogo esotico nel quale rifugiarsi e godere delle passioni di amanti dalla bellezza orientale. Il deserto è un luogo ostile da percorrere e da affrontare con consapevolezza. Chi lo attraversa compie un viaggio catartico attraverso il quale espiare le proprie colpe e dal quale difficilmente si esce vivi. Il deserto di al Kawni è il deserto dei Tuareg, è l’essuf che in tamasheq significa il grande vuoto, un vuoto colmo di animali selvaggi e di spiriti, i cosiddetti ginn, un vuoto che segue delle coordinate precise come le stelle, i corsi d’acqua e gli altipiani. Il deserto di al Kawni è il luogo letterario dove lo scrittore materializza la propria ġurbah, il proprio sentimento di saudade, di nostalgia nei confronti di uno spazio amato e lontano al quale voler far ritorno.
In uno dei suoi romanzi più famosi al-Tibr (“Polvere d’oro”,traduzione M. Avino, edizioni Ellisso, 2005) è evidente il nesso tra letteratura araba e cultura tuareg. La storia parla di Ukhayyad, un giovane tuareg, e del suo cammello pezzato, dal colore bianco latte. Il rapporto tra l’uomo e l’animale è fraterno, simbiotico, una relazione conflittuale, fatta di fedeltà cieca e di dolore, tipica della tradizione popolare che la viva e la identifica come un legame di sangue. Entrambi sono vittime delle donne e degli istinti sessuali, che si frappongono nella relazione tra i due, creando ostacoli e mettendo a dura prova la loro fedeltà.
Tutto comincia quando il cammello si ammala per aver contratto una malattia da un rapporto con una cammella non pezzata. Improvvisamente la pelle del cammello si macchia e l’animale comincia a patire enormi sofferenze. Ukhayyad, deciso a curare il proprio compagno, s’incammina nel deserto per cercare aiuto. È qui che s’imbatte nella dea Tanit alla quale offre un cammello pezzato in cambio della salvezza del proprio. La guarigione avviene e nel frattempo Ukhayyad sposa, contro il volere del padre, una giovane donna di una tribù dell’Air. Ella costringe il marito a vendere il proprio pezzato in cambio di pochi denari, necessari per sopravvivere in un periodo storico travagliato dalla guerra contro il regime italiano e dalla carestia. Ukhayyad vende il cammello tradendo se stesso e il suo fedele amico. Gli inganni si ripetono fino a quando il giovane tuareg capisce di essere vittima delle ire della dea Tanit per non aver rispettato il patto fatto in precedenza. Il romanzo si conclude con la morte inevitabile di entrambi i protagonisti, simbolo di un legame indissolubile tra uomo e animale, descritto ampiamente nella letteratura araba e rigorosamente osservato nella cultura tuareg.
I rimandi alla tradizione letteraria tuareg sono molteplici: Tanit, divinità berbera della fertilità; la fervente sessualità di Ukhayyad che rinvia al mito tuareg di Imrul-Qays, l’importanza degli enigmi in tifinagh, ecc… Ibrāhīm al Kawnī testimonia ed afferma con i suoi romanzi la compresenza di una cultura tuareg e di una cultura araba all’interno di un’identità libica. La figura di Ibrāhīm al Kawnī è l’emblema di una società storicamente multietnica racchiusa entro confini geografici di una terra che da secoli ha saputo accogliere popoli, culture e religioni diverse.