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È possibile fuggire veramente dalla cultura?

copertinadi Giuseppe Sorce

Se fossi rimasto a Palermo non le avrei capite certe cose. Invece sono partito, vivo qui da quarant’anni e ho capito, e ora mi sembra strano il contrario. Di certe cose te ne accorgi solo se te ne vai, dopo tempo, dopo molto tempo lo capisci e ti chiedi perché, pensi a quanto siano assurdi certi modi di vivere, certe abitudini, certe cose che pensiamo giuste e dovute e invece non lo sono, anzi, magari sono pure sbagliate. Così mi spiegava T., emigrato in America a soli vent’anni. Ricordo quel momento di lucida riflessione spontanea.

Il sole incontrastato a dicembre, la luce accecante che ribatteva sull’asfalto delle strade vorticose, nelle sconfinate periferie di Sant’Antonio, nel Texas delle querce verdissime e dei cervi che attraversano i marciapiedi distanti come coste in un mare di noia. Veniamo dalla stessa periferia palermitana ma con cinquant’anni di differenza. A unirci una lontana simpatica parentela, a separarci probabilmente tutto il resto. Mi disse quelle parole mentre eravamo diretti verso una pescheria per prendere «del pesce dell’oceano» (ci teneva a specificare) che non sa di niente però è buono lo stesso.

Attraversavamo le strade larghe e deserte, distanti da qualsiasi cosa nello spazio della vista umana solo alberi a corteccia ruvida, qualche edificio misterioso dalla tipica architettura pittoresca degli Stati Uniti del sud. Mi faceva notare che, nonostante la scarsità di piogge – e poi quando piove non la smette per giorni, puntualizzava per esaltare l’efficienza delle infrastrutture nell’impedire allagamenti, alluvioni, ecc. – e il caldo senza tregua per tutto l’anno, tutte le strade erano racchiuse da prato rigoglioso e ben tagliato, sempre pulitissimi i bordi, i marciapiedi, i muri che sostengono i ponti senza neanche una macchia, e i sottopassaggi lindi, le gallerie sempre luminose.

T. non mostrava imbarazzo nel confessare la sua, tardiva, presa di coscienza sulle differenze culturali fra Palermo e gli Stati Uniti e con un orgoglio che non mi aspettavo insisteva proprio sulla sofferenza dei primi anni, le difficoltà ad abituarsi ad una società che non aveva “i suoi valori”. La famiglia, le relazioni sociali, il clima, le abitudini, la cucina, la lingua, tutto era diverso, tutto gli era costato caro. Guidava, quel giorno del dicembre di tre anni fa, e la conquista allora di una precisa consapevolezza gli dava una certa ebbrezza: riconosceva che il confronto fra le due culture l’aveva reso una persona migliore.

Chiaramente T. non si espresse esattamente in questi termini, questa è una sorta di mia traduzione, T. ha la quarta elementare e ormai l’inglese ha esondato anche in quel dialetto palermitano di materna memoria che resuscita quando e come può. T. non si è espresso in quei termini ma è ciò che voleva dire, nessun riferimento strettamente alla parola “cultura”, ma è ciò che il tono, le allusioni sottointese e il senso degli enunciati e della semantica voleva esprimere.

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Sant’Antonio nel Texas, nov. 2015  (ph. Sorce)

«Anche le migrazioni contemporanee sono la manifestazione di una delle caratteristiche peculiari dell’umanità: a ricerca di vie di fuga dalla propria cultura».  Le vie di fuga sono numerose, continua Adriano Favole: il viaggio, la migrazione, il pellegrinaggio, il teatro, il cinema, la letteratura, la poesia, il carnevale, i riti di iniziazione e così via. «Siamo naufraghi nella società che abitiamo, prigionieri della caverna che ci ospita. Con qualche possibilità di evasione però».

Fare un passo oltre la propria cultura permette di conquistare una dis-posizione che arricchisce e mantiene vivo l’essere umano. Questo è proprio il messaggio di Favole nel suo recentissimo, Vie Di Fuga. Otto passi per uscire dalla proprio cultura, edito da Utet.

«Fuggiamo tutti, in un modo o nell’altro, perché per quanto il potere si sforzi di negare l’esistenza di altri modelli sociali, le “possibilità” ci attraggono e spezzano, seppure temporaneamente, il carattere ottundente del costume. Abitare mondi particolari ed esplorare vie di fuga, è forse uno degli aspetti universali della condizione umana».

Le parole di Favole, leggere e di ampio respiro, toccano tasti dolenti della contemporaneità. Attraverso alcuni episodi di interesse etnografico e un’attenta visione d’insieme, dentro e fuori le discipline accademiche, ci accorgiamo che una riflessione meta-culturale onesta e audace potrebbe essere la chiave giusta. È proprio la mancanza nel dibattito politico e intellettuale  contemporaneo di una riflessione culturalista che crea il terreno fertile alla cecità, non solo politica, di fronte a fenomeni con cui il nostro tempo fa i conti quotidianamente. «È bene non confondere “cultura” e “identità”. Potremmo dire che l’identità è una sorta di cintura di castità della cultura, che ne mina incontri, apertura, fecondazioni, chiudendola in spazi ristretti e uniformi» quando invece le «culture producono somiglianze e diversità, non uniformità». È già in questo, all’apparenza, semplice tentativo di distinzione di termini che percepiamo la pericolosità dello stallo concettuale del discorso politico che dai palcoscenici, ormai, mediali fino alle chiacchiere da bar, fa marcire i difficili tentativi di comprendere sia fenomeni drammatici quali le migrazioni sia utili prospettive di un sentire europeista di tipo nuovo.

«La cultura, materiale di costruzione dell’umano, è inevitabilmente e costitutivamente  incompleta. Nasciamo nudi, biologicamente non (ancora) formati, in attesa di essere calati nel mondo simbolico e affettivo della società che ci avvolge. [….] Cultura significa varietà, scelta, possibilità.  Siamo così ma potremmo essere diversi. siamo esseri incompleti alla nascita, e non solo in quanto  persone singole che devono crescere. Anche le culture che ci fabbricano sono frutto di “scelte” (o meglio stratificazioni storiche di scelte compiute da migliaia di generazioni) che le rendono punti di vista sempre parziali».

Rendersi conto nel discorso scientifico che le culture vivono e si mantengono in vita attraverso  incontri, ibridazioni, disomogeneità non è così scontato. Riconoscere l’incompletezza e la precarietà, diacronica e diatopica, delle proprie credenze è scomodo. Accettare la parzialità della propria cultura non è un’operazione semplice, facile e indolore. È un’impresa intanto saper riconoscere di vivere secondo un sistema complesso che al contempo ci sfugge ma che si tramuta in natura radicale. È in questo processo di auto-riconoscimento che l’altro è essenziale, che l’incontro e l’apertura sono fondamentali. «Solo estendendo significati, modi e stili di vita, che ci sono familiari in direzione altrui, ci rendiamo conto del loro carattere arbitrario. Sappiamo chi siamo solo quando ci proiettiamo verso i nostri simili».

Solo che l’“altro” spaventa. Estendere i propri significati, i “valori”, come diceva T., inevitabilmente li sgretola un po’, li indebolisce perché ne piega la struttura. Ma solo creando dei microsolchi, delle fratture molecolari, distendendo la pasta allora questa può prendere la consistenza appropriata che la porta a lievitazione. Ora, tutto questo non è scontato, il coraggio nell’apertura costa caro, per ricordare ancora T., è faticoso, necessita di quel minimo di abnegazione che può portare a una riaffermazione di sé arricchita, con quel surplus inevitabile e necessario sia alla vita di una cultura sia a quella dell’individuo.

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Al confine turco-siriano (ph. Kilic)

Le culture che ci formano non sono mai superfici lisce e uniformi, la cultura non è uno spazio innocente, ci ricorda Favole. E se far riferimento alle migrazioni o agli stadi estatici di un fenomeno artistico necessita di un maggior numero di pagine, basta guardare il nostro vicinato, il condominio nel quale viviamo, casa nostra, per renderci conto che la cultura è pervasiva e alle volte può imbrigliare, può costringere, può portare all’esasperazione quando si fanno scelte “diverse” da quelle a cui si accennava poco sopra, quelle cioè che hanno costruito quella cultura che ci ha «fabbricato». Quando si ama qualcuno che non si può amare, o quando lo si ama in modo sbagliato, quando ci si sacrifica per un obiettivo non condiviso, quando non ci si comprende pur parlando la stessa lingua, quando si guardano le stesse cose ma attraverso uno spirito identitario che nega, prefigurando nel momento stesso in cui si afferma, una sconfitta a cui toccherà ancora una volta al tempo porre rimedio, all’inevitabile fluire imperterrito delle cose del mondo.

È possibile fuggire veramente dalla cultura? Personalmente credo di no, ne siamo strutturalmente incapaci. È possibile però fare qualche passo fuori dalla propria cultura per s-coprirci e riscoprirci, per sperimentare quello «spazio di libertà, uno spazio di evasione, di estensione di moltiplicazione di possibilità della vita quotidiana» che altro non è che cultura.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
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 Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Attualmente studia Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna.

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