di Silvia Pierantoni Giua
«Caterina! Come la signora anziana che seguivo in una casa di riposo. Senza gambe dall’età di quarant’anni, è rimasta sempre nel suo paese ma aveva il mondo dentro; una sapienza e un’esperienza tali da palesarmi che non è necessario viaggiare per andare lontano». Con queste parole mi risponde la mia amica Daniela alla domanda circa la storia del nome dato alla figlia, parole che mi riportano al mio centro, all’origine profonda della vita e a quanto la prospettiva con cui la si guarda ne cambi l’essenza.
Si possono percorrere chilometri senza aver trovato niente di nuovo e scoprire l’universo intero senza aver mosso un passo. Ho sempre amato migrare, spostare i limiti della mente e del corpo. Tra i miei viaggi c’è quello a Roma.
Al Colosseo, i guardiani del reame controllano il traffico straniero. I sandali del centurione sono saldi, sicuri davanti alle porte dell’arena. Il tempo minaccia coriandoli dal cielo lasciando quieti gli zoccoli dei cavalli attaccati alle carrozze e, sullo sfondo, teenager addossati alla parete ascoltano distratti estratti di una guida. I piedi del cocchiere si permettono una siesta sul cocchio fermo nella piazza e i turisti strappano qualche scatto veloce al previsto temporale.
L’euforia dei viaggiatori si percepisce dal rumore dei passi rapidi, dalla corsa alla fila per entrare. Una sfilata di sandali, ballerine, scarpe e infradito si staglia all’interno del Colosseo per prendere il biglietto. Finalmente dentro, si sale la rampa del teatro: come quinte un abbraccio di bifore romane, il palco al centro, snaturato della sua funzione. Dei calzini tedeschi si affacciano dalla grata che separa l’antico anfiteatro; la musica del cemento e dei bulloni tradisce carpentieri alle prese coi lavori, mentre guide e stranieri si aggirano tra le arcate centenarie.
Dalle terrazze, le suole si fermano un momento per uno scatto all’arco trionfale, al foro imperiale, poi riprendono la corsa verso pannelli che espongono gli usi, i giochi degli antichi romani. I piedi coraggiosi di un ginnasta si arrampicano su un capitello testimone di una struttura ormai sventrata, scheletro di un antico splendore.
L’incanto della storia, del profumo inebriante della memoria si rompe all’impatto col reale: all’uscita, bancarelle, banchetti e venditori ti ubriacano con ogni tipo di souvenir locale. Un foulard rincorre i passi cinesi e una scia di pompieri s’allontana per raggiungere i colleghi mentre qualcun altro si riposa su una ringhiera prima di proseguire sulle tracce della magia romana.
Catapultata in una manciata di chilometri nel mondo, mi ritrovo in Piazza di Spagna. I riccioli modernisti della pensilina in ferro battuto della banca in Piazza Mignanelli sono i primi ad accordarsi col mio obbiettivo. Decido di abbandonare la fatica di arrampicarmi su qualche idea: sono le labbra dei lavoratori la mia matita. Così provo a infilarmi nel cartoccio di castagne del macedone all’angolo con via dei Condotti e sono le sue mani bruciacchiate a parlare.
Il tip tap del sole a singhiozzi s’insinua timido sul profilo dei turisti. Sono le orecchie a suggerirmi la frenesìa di zoccoli e asfalto, un suono piacevole che riaccende i sensi quasi indigesti degli impulsi cromatici. Mi siedo sulla scalinata di Trinità dei Monti e provo a vomitarli sulla carta col pennello traduttore. La lingua marziana della folla spoglia d’identità e di confine dà voce all’immagine del mondo mentre il sollettichìo ai piedi spinge la voglia di continuare ad andare.
Mi intrufolo adesso nell’edicola di Alessandro: souvenir, pile, accendini, riviste, santini stipati in qualche centimetro ubriaco di forme e colori; il punto di vista è frammentato, il mondo scandito dai lati poliedrici della struttura e, tra la cornice medioevale della tettoia, fa capolino lo stemma dell’ambasciata spagnola.
Proseguo e arrivo al calesse. Stefano mi dà la mano per salire nel suo punto di vista che chiama libertà; di libertà parlano anche Gigi, Pony e Spaghetto, taxisti posteggiati a Trinità dei Monti. Seguo entusiasta la scia dell’incontro che mi porta qualche metro più in là, davanti all’obelisco Sallustiano e alla vita nomade alternata al segno antropico e statico degli edifici.
Facendo a zig zag tra gli ombrelloni e le battute dei disegnatori mi siedo qualche minuto a parlare con le rughe di Marcello. In nome d’arte «to look is free» mi racconta la sua percezione di quel quadro cittadino; gli porgo la macchina fotografica chiedendogli il suo sguardo ma «non può racchiudere in uno scatto quel che pensa». Gli tolgo l’impiccio e mi addentro nella via verso Villa Borghese seguendo il ricamo del verde sul muretto che poi si apre al paesaggio romano: S. Pietro, i tetti, le vie.
Un’ombra diagonale raggiunge la mia guancia sinistra; all’incontro con Franco arriva prima il mio pregiudizio guidato dalla moto pennellata di fuoco a contrasto col nero vernice, ma veloce si sgretola alle parole di chi d’highlander ha ben poco. È un pittore che insieme ad altri ha aperto una galleria d’arte in via Margutta e mi svela un particolare che si nasconde tra le fasce che conducono alla via: il pensatoio dell’indimenticabile Totò. Poi, mi accordo col passo trottante della sportiva in legging e schivando una preghiera mendicante rimango stordita dall’odore invadente di urina della scalinata di S. Sebastiano; si confonde con quello di gas, cucina e gocce sospese sopra il mio naso. Sono a Mignanelli 24, bar di puzzle culturale, nocciolo tra il palazzo di Valentino e l’Immacolata Concezione.
In questa convulsione di brand e shopping, cartelli stradali, cavalli, castagne e ufficiali, venditori ambulanti e caffè pulsanti di lingue di ogni dove, il piccione arruffato nella Barcaccia osserva piedi viaggiatori, ridenti residenti, vip e cartomanti. Lo scroscio dell’acqua batte il tempo a un valzer di pensieri e la vita pulsa nella luce che dà forma alle giacche arcobaleno: è un via vai di valigie e bolle di sapone, carte di maghi o da gioco in carrozza, gru, metro e lavori in costruzione; poi il lusso degli hotel, di un bacio giovanile. La scritta “Change” dell’insegna del negozio davanti al mio sguardo suggerisce una parola chiave: cambio, evoluzione. Ed è ciò che sento in quel quadro multicolore del centro. Il desiderio di andare mi spinge ancora fino a portarmi in un altra culla di asfalto: l’Esquilino.
«Posso darle una mano?» chiedo alla signora gialla, blu e a fiori che cammina con sacchi e sacchetti della spesa. «No no grasie, davero, moito gentile». Sagome di ogni dove si incontrano come pongo, formano una bolla poi si sformano nella mimica straniera della vecchina romana, mentre un sorriso africano si sente a casa nella via porticata.
Le mie mani sgusciano in questo fiume di identità, poi s’intrecciano con quelle di Seyoun, l’etiope portiere dei bagni del mercato. «Posso?» gli chiedo alzando la macchina. Mi dicono sì le dita, poi si scusano mostrandomi il telefono. Faccio segno che ripasso e continuo il giro. I guanti di gomma gialla mi conducono al venditore di pesci vivi; mentre combatto col pesce gatto che prova serpentinamente a uscire dalla plastica parlo con Jonny, algerino e romano da qualche anno.
Accoccolata tra gli odori e la gamma cangiante di colori, baratto il mio tempo con mille impulsi sensoriali: banchi di spezie, arance e budella di maiali ai ganci di metallo si rincorrono, si confondono tra continue accoglienze e sorrisi che mi rendono ospite in questa fiera di costumi. Come una pallina da flipper sbatto ora contro una maglietta arancione che inizia a insultarmi e ordinarmi di andarmene via: «Non puoi fare foto!». Ho impiegato un po’ di tempo a capire che non si trattava di uno scherzo; quando vedo le sue mani telefonare alla guardia giurata. Il movimento concentrico delle dita vicino alle tempie degli spettatori ambulanti dicono «questo è tutto matto» e mentre penso a quanto successo continuo il mio viaggio.
L’ondata di urina e spazzatura si smorza e poi svanisce nel cortile dell’Università di Lingue Orientali. Entro a pagare il caffè italiano e mi ritrovo in Bangladesh: tagliano, cuciono, misurano, toccano; le mani dei sarti sono indaffarate, metodiche, precise. Mi avvicino al capo che mi permette di seguire le nocche che infilano l’ago, tessono fili, accorciano stoffe. «Grazie!» dico congedandomi; «però non fare male», mi risponde il naso dietro alla Singer, «a volte i giornalisti fanno male!».
Lo rassicuro sulle mie buone intenzioni, poi mi siedo vicino al giornale di Tipu che ventun anni fa arrivò a Roma dopo aver studiato in Bulgaria e aver attraversato la Jugoslavia. Risbuco sul cortile interno alla Facoltà e una penna svedese attira la mia attenzione: scrive cinese. Nei bordi di queste panchine si siedono studenti, passanti e viandanti. La libertà si manifesta in tutti i suoi colori, poi passo ancora nel chiaroscuro dei portici dove un bacio fa da sfondo al blu di un turbante orientale.
Mani orientali in Piazza Vittorio fanno canestro, poi contano sulla cassa del bar di Fu in via Carlo Alberto. Barattano il prezzo, aprono portoni, trasportano valigie occidentali e, dal parrucchiere cinese, quelle di Cabiria, ragazza messinese, sfogliano i possibili nuovi capelli, mentre un concerto di fon, spazzole e pettini fanno il loro mestiere. C’è chi fa la spesa, chi trasporta, chi prova a rinfrescarsi dal calore dei primi raggi primaverili a una delle tante fontanelle romane. Dietro a un albero sbucano palme e palmi che si coprono dal sole per fare un riposino.
E infine arrivo al contrasto blu e nero di Attahir; è senegalese e mi invita a bere una birra con i suoi amici in piazza Dante, proprio qui dietro. Conosco così la loro storia: un anello mi racconta la pazienza dei dettagli manifatturieri arabi, le dita incrociate di Abdul la discrezione e i suoi anni. L’intercultura del quartiere mi riempie di idee nuove, mi stimola a pensare e, fischiettando, mi ritrovo a Campo dei Fiori, altro ricco crocevia di sogni e civiltà straniere.
Una nota di Django Reinhardt incontra la mia voglia di cantare; così la seguo e capito davanti alla chitarra di un ragazzo rumeno. Rimango ad ascoltare a bocca aperta il ritmo accompagnato dal contrabbasso che sembra danzare. Poi mi avvicino e mi propongo per fare uno standard e così comincia una nuova avventura.
Quasi ogni giorno ci troviamo in Piazza Navona a suonare per quei turisti e locali che strappano qualche secondo all’itinerario. In questo spazio monumentale, la ricchezza culturale di Roma si manifesta in tutta la sua grandezza. La fontana del Bernini riesce a meravigliarmi ad ogni appuntamento in cui mi riempio di tutta la storia che passa e scorre nei ricami del marmo; poi si racconta attraverso la pavimentazione calcata nei secoli da scarpe di ogni dove e si infila nei caffè, nelle chiese, negli androni delle case.
Il mio profilo nella vetrina di un negozio riflette chi sono: incarnazione del divino, del mistero che si manifesta su di un pianeta, chiamato Terra, ospitante la civiltà che nella sua splendida pluralità si definisce come una sola: umana. Sento gratitudine e il lusso del tempo che mi prendo, dimensione che mi permette d’esser presente e passato e mi permette di godere di quel momento rendendo questo viaggio unico.
Poi mi porta a ripensare alla piazza come attesa, come spazio di accoglienza della vita. Come il ventre di Daniela che ha generato Caterina.
Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
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