Correva l’anno 1977 quando gli Italiani ascoltarono per la prima volta Come è profondo il mare di Lucio Dalla, brano presto divenuto cult che dava il titolo all’omonimo album. In quel testo non c’era soltanto il dramma dello Stivale negli anni di piombo, ma un bel pezzo di Novecento, con le sue vicende travagliate e terribili, una sequenza inaccettabile di guerre, oppressioni, stermini di massa, macabri spettacoli offerti dall’homo homini lupus di hobbesiana memoria agli altri esseri viventi: «Frattanto i pesci, dai quali discendiamo tutti, / assistettero curiosi, al dramma collettivo / di questo mondo che a loro indubbiamente / doveva sembrare cattivo».
Nella strofa finale, il cantautore puntava il dito contro i detentori del potere che, avendo la possibilità e l’onere di decidere, nel corso della storia troppo spesso hanno scelto di perseguire la via della violenza, soffocando il pensiero che è vita, svilendo la poesia che è bellezza e violando l’umano: «Certo chi comanda / non è disposto a fare distinzioni poetiche. / Il pensiero come l’oceano / non lo puoi bloccare, / non lo puoi recintare. / Così stanno bruciando il mare / così stanno uccidendo il mare / così stanno umiliando il mare / così stanno piegando il mare» [1]. Quel grido, così sofferto ed evocativo, è il leitmotiv intorno a cui prendono forma i contributi apparsi sull’ultimo numero del «Grandevetro», trimestrale di immagini, politica e cultura edito a Santa Croce sull’Arno (Pisa) dall’omonimo circolo culturale, sodalizio guidato – con grande passione e viva attenzione per le questioni più cogenti della contemporaneità – da Giovanni Commare.
Casualità vuole che il primo numero della rivista abbia visto la luce nel febbraio dello stesso anno in cui Dalla cantava Come è profondo il mare: il nome del periodico fu scelto da Romano Masoni, pittore e incisore toscano, in omaggio all’opera La Mariée mise à nu par ses célibataires, même di Marcel Duchamp, nota anche come Le Grand Verre [2]. L’ultima pubblicazione – della quale in questa sede si dibatte – è, invece, dedicata al Mediterraneo [3], spazio entro cui si è dispiegata una parte importante della storia dell’umanità, da sempre luogo di libera circolazione di uomini, beni, idee, tecniche, simboli, miti, religioni, oggi divenuto teatro d’un dramma umanitario senza precedenti: Mare Monstrum più che Nostrum, per richiamare l’efficace e icastica formula scelta da Antonino Cusumano come titolo del suo scritto, posto in apertura della rivista [4].
All’interno di questo bacino «polisemico e policentrico», «alternativo alla modernità atlantica» e «metafora del pensiero meridiano», le migrazioni si caratterizzano da sempre come «esperienze transcontinentali», osserva il Presidente dell’Istituto Euroarabo e Direttore editoriale dei nostri Dialoghi Mediterranei, nel pieno rispetto dell’etimologia del nome: mare di mezzo, mare tra terre che insistono su ben tre continenti. Ma ciò che più rileva è che esse, le migrazioni mediterranee, avvenute secondo processi «pluridirezionali» oltre che «plurisecolari», hanno dato luogo alla «formazione di identità miste» [5]: aspetto che avvicina il nostro Mediterraneo agli altri Mediterranei del pianeta, su tutti il Mar Caraibico, sebbene inevitabilmente differenti siano le dinamiche genetiche di tali processi e gli esiti.
Un pensatore nativo di quei luoghi, il martinicano Édouard Glissant, ha insistito – in opere fondamentali per inquadrare la questione coloniale come la Poétique de la relation [6] e l’Introduction à une poétique du divers [7] – sull’idea di una continua, incessante creolizzazione di ogni cultura umana, la cui vera marca costitutiva sta nella relazione con l’altro da sé: all’identità che si radica entro presunti invalicabili steccati, chiudendosi rispetto al Tutto-Mondo, egli ha opposto la nozione d’identità multipla (o identità rizoma), naturalmente aperta all’incontro e al dialogo. Presupposto sul quale è possibile ipotizzare, nel rapporto tra culture, una via alternativa rispetto a quella dell’assimilazione e a quella reazionaria indicata dagli esponenti della Négritude, tra cui Aimé Césaire – conterraneo di Glissant – che ha cantato i valori propri della tradizione culturale nera nelle sue diverse affermazioni ed espressioni, denunciando l’oppressione esercitata nelle Antille dall’amministrazione coloniale francese [8].
Alcuni termini della lezione di Glissant tornano nella riflessione di Francesco Farina che, sull’ultimo numero del «Grandevetro», riprende l’immagine della mano per indicare analogie e differenze tra i Due Mediterranei: la mano chiusa è metafora del «Mediterraneo, mare interno, circondato da terre, che chiudendo, riunisce e concentra, mare che nell’antichità, greca, ebraica o latina, e più tardi con l’emergere dell’islamismo, ha imposto al resto del mondo il pensiero dell’Uno»; la mano aperta rimanda, invece, al Mar dei Caraibi, «aperto sull’oceano, che irradia in varie direzioni, che fa esplodere le terre sparpagliate ad arco, ed esemplifica il pensiero della relazione intesa in una dimensione inedita che permette ad ognuno di essere qui e altrove, radicato ed aperto, in accordo o in erranza» [9].
Come si conciliano le «identità miste» di cui dice Cusumano con il «pensiero dell’Uno» cui rimanda Farina? Sono davvero o solo apparentemente concetti contrapposti quando ci si trova a discutere di vicende mediterranee? Per dirimere la questione occorre ripartire dalla domanda di fondo: che cos’è il Mediterraneo? Un interrogativo al quale Fernand Braudel, il più importante studioso del mondo Mediterraneo, ha così risposto: «Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare ma una successione di mari. Non una civiltà ma più civiltà accatastate le une sulle altre» [10]. Con queste parole lo storico francese, tra i principali esponenti dell’École des Annales, ha inteso sottolineare – come già aveva fatto Hegel nelle Lezioni di filosofia della storia – la specificità del Mediterraneo, «antichissimo crocevia» tra i popoli, centro nevralgico di confluenza e fattore di unificazione di esperienze lontane nel tempo e nello spazio. Sospeso tra passato ed eternità, il Mediterraneo è, non secondariamente, tempio di idiomi scomparsi, di gerghi e parlate interessati da mutamenti diacronici e diatopici; è il luogo del mito e dell’affermarsi delle tre grandi religioni monoteiste; è arena di convergenze e antagonismi, di fascinazioni e sfide (in esso prende forma l’idea del folle volo); è soglia per eccellenza [11].
Sin dall’antichità più remota moltitudini di genti, muovendo da Oriente come da Occidente, lo hanno attraversato in cerca di nuove opportunità, percorrendo le più diverse rotte, andando incontro ad altre civiltà e, assai frequentemente, entrando con esse in collisione per affermare la propria egemonia: mossi, cioè, dalla volontà di imporre l’Uno. Ma un conto è vincere una guerra, altra cosa è mettere a tacere un intero orizzonte antropologico, con la sua lingua, le sue tradizioni, i suoi valori, le sue seduzioni. Il punto è questo: se è vero che l’Uno è portato ontologicamente a voler trionfare, non esiste nella storia incontro/scontro di civiltà che non abbia dato vita a contaminazioni, ibridazioni, meticciato [12].
Dinamiche inevitabili, che nella storia mediterranea talora si sono persino spinte al paradosso. «Graecia capta ferum victorem cepit», scriveva Orazio [13], testimoniando del processo di conquista culturale subito dai conquistatori, quei Romani, rozzi agricoltori e guerrieri, che si ostinavano a chiamare Mare Nostrum il Mediterraneo, pretendendolo tutto per sé e che, impossessatisi di quella regione d’Europa che guarda all’Asia Minore, subirono la fascinazione esercitata da una civiltà ben più avanzata della loro nel campo delle lettere, del pensiero, delle arti. Con i Greci fecero sfoggio del loro diritto e di tecniche costruttive e militari per quel tempo estremamente avanzate; dai Greci appresero la filosofia e la letteratura. Un esempio, nulla più, di come la storia del Mediterraneo sia frutto, tra assoggettamenti e sottomissioni, di convergenze: si pensi, su altro fronte, alle tracce durevoli impresse dalla civiltà araba entro il bacino, dalle meraviglie architettoniche della Spagna meridionale alle sonorità della musica arabo-andalusa; o, ancora, all’impronta permanente della civiltà ebraica.
«Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa» [14], ma «il Mediterraneo non è mai stato solo Europa» [15], avvertiva del resto, sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, Predrag Matvejević nel suo Breviario Mediterraneo: lettura necessaria per chi voglia confrontarsi con la complessità del mondo mediterraneo, guida appassionata e appassionante alla scoperta delle molteplici sfaccettature che lo caratterizzano, catalogo delle diversità che coesistono nell’unità. In un volume più recente, Il Mediterraneo e l’Europa, che raccoglie alcune delle lezioni tenute al Collège de France, il pensatore di Mostar ha posto l’accento sul fatto che «le decisioni relative alle sorti del Mediterraneo sono prese, molto spesso, al di fuori di esso o senza di esso»: sicché quest’area strategica nello scacchiere geopolitico mondiale «si presenta come uno stato di cose che non riesce a diventare un vero progetto» [16].
Matvejević, venuto a mancare nel febbraio 2017, aveva ben chiaro lo stretto legame intercorrente tra il futuro dell’Unione Europea e i destini del Mediterraneo: «Sarebbe auspicabile che la futura Europa fosse meno eurocentrica di quella del passato, più aperta al cosiddetto Terzo Mondo dell’Europa colonialista, meno egoista dell’Europa delle nazioni, più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione, […] più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più accogliente che orgogliosa» [17]. Come non condividere, analizzando il contesto odierno, le sue lungimiranti riflessioni.
A Matvejević – cui si deve una delle più complete e suggestive ricostruzioni della storia del termine “Mediterraneo” – dedica un intenso ricordo Gregorio Migliorati, tratteggiandone la parabola esistenziale e, per aforismi, il pensiero: «Matvejević inseguiva l’entelechia del mare, ossia il suo telos interno, il telos di un essere senza forma, ma capace di tutte le forme come Proteo, divinità del mare, appunto» [18]. Mare di mari, di isole grandi e piccole che hanno catalizzato eventi di enorme portata storica [19], di golfi sinuosi e ricchi di fascino, di città che erano «Stato e nazione e qualcosa di più», il Mediterraneo è dunque realtà avente in sé la meta finale, l’orizzonte verso cui tendere nel dispiegarsi del processo storico: «Le città di mare hanno i loro destini come i mari stessi su cui sono elevate. Dalle loro profondità si possono sentire le voci, vecchie e rauche, del Mediterraneo di una volta» [20].
«Viaggiare nel Mediterraneo» – ha scritto Braudel – significa «incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, la presenza araba in Spagna, l’Islam in Jugoslavia»; equivale a «sprofondare nell’abisso dei secoli. Fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto», incontrando «realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto a Venezia nella sua falsa immobilità, l’imponente agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere» [21]. Potremmo proseguire nell’elencazione, completandola – ad oltre un trentennio dalla stesura di queste incantevoli pagine – con l’orrore dell’Aquarius e di tutte i barconi della speranza che negli ultimi anni hanno percorso il Mediterraneo lungo la direttrice Sud-Nord. Con la lista di tutti i figli di nessuno che, ieri come oggi, in esso hanno trovato la morte in un’indifferenza pressoché generale.
Le parole sono pietre è il titolo scelto da Carlo Levi per raccontare il suo viaggio in Sicilia, isola-mondo al centro del Mediterraneo, la sua inchiesta tra contadini costretti a sottostare ai privilegi dei potenti, oppressi, vinti dalla fiumana della storia e relegati al ruolo di ultimi [22]. Nel Mediterraneo d’oggi anche le onde sono pietre e, colpendoci, hanno il potere di scuoterci dal torpore in cui troppo spesso sprofondiamo. Come le Pietre d’Inciampo – mattonelle in ottone leggermente rialzate sull’asfalto, poste dall’artista berlinese Gunther Demning in prossimità delle case nelle quali vivevano uomini, donne, bambini perseguitati dalla follia fascista e nazista – rimemorano ai passanti l’orrore della Shoah, richiamando la loro attenzione sul fatto che, in forma di altri olocausti, la storia continua a mietere vittime innocenti; così i flutti mediterranei raccontano l’orrore del nostro tempo.
Servirebbero interventi decisi e risolutivi; invece, «mentre l’Europa balbetta e si divide, si consuma la più grande tragedia umanitaria dal dopoguerra ad oggi. Un crimine senza nome. Una deportazione invisibile e inenarrabile. Un genocidio di desaparecidos»: non usa mezzi termini Antonino Cusumano per delineare la «rovinosa implosione degli equilibri geopolitici» da cui discende il dramma dei profughi che dall’Africa muovono, oppressi dalla fame e dalle guerre. Eppure – osserva amaramente – «nel mondo capovolto che abitiamo si fa la guerra ai migranti», anziché lottare per estirpare le cause che hanno generato il più imponente esodo di massa della storia dell’umanità [23].
Per noi euroccidentali, rei di confondere la nostra civiltà con quella universale, è tempo di guardare alla costa meridionale del Mediterraneo (e poi sempre più giù fino al cuore dell’Africa) e a quella orientale (estendendo l’analisi a tutto il Vicino Oriente Antico) con sguardo scevro da pregiudizi e volontà demistificatrice di tanti luoghi comuni, di troppi stereotipi, di insopportabili semplificazioni che aleggiano su quei mondi, per cercare di comprendere a fondo le dinamiche che ne hanno determinato l’instabilità attuale.
Nel suo L’altra sponda, Carla Cocilova sostiene che occorre sgretolare «la fotografia monolitica fatta dall’Occidente dei Paesi arabi», muovendo dalla messa in questione dell’armamentario teorico e linguistico, esiguo e talora banalizzante, che utilizziamo per circostanziare quelle aree: «La maggior parte dei termini coniati per definire le varie aree sono frutto di pensieri che sono nati e azioni coloniali che si sono verificate nel corso dei secoli, condizionando la vita delle popolazioni nonché uno sviluppo autonomo delle logiche di governo». Perché quella dell’altra sponda è in gran parte «una storia fatta di soprusi e ingerenze da parte di governi o forze occidentali, siano esse militari, come nella Siria di oggi in cui si gioca una guerra per procura, siano economiche, commerciali o strategiche; un presente di incertezze per la maggior parte della popolazione, dato dalla cristallizzazione degli scenari di crisi, più o meno gravi, e dalla totale inadeguatezza della comunità internazionale; popolazioni stremate, ma allo stesso tempo con sacche di reazione e di elaborazione di avanguardia, che in Occidente non siamo in grado di ascoltare, conoscere né supportare adeguatamente» [24].
Il Mediterraneo d’oggi – ce lo ricorda Maurizio A. Iacono nel suo Rotte di bolina – è «un mare che divide», che «fa galleggiare i ricchi e affondare i poveri»: è lo spazio delle diseguaglianze insanabili [25]. Per concepire una vera alternativa mediterranea in opposizione alla realtà a tutti tristemente nota, dobbiamo recuperare – sostiene Maria Beatrice Di Castri – «la visione sinottica di Erodoto», la «curiositas insopprimibile dell’Ulisse dantesco», «lo sguardo di Boccaccio nel Decameron, enciclopedia di un mondo variopinto e in trasformazione, dove i mercanti e i viaggiatori si spostano da una sponda all’altra, a dispetto di ogni retorica sullo scontro di civiltà». La sfida, allora, è introiettare finalmente la lezione viva e imperitura dei modelli più alti che la nostra civiltà ha saputo esprimere, realizzando che «la regressione e la barbarie non stanno necessariamente sempre da una parte del mare» [26]: un primo decisivo passo, individuale e collettivo, per la costruzione di una relazione fondata sul rispetto e sul dialogo, che si traduca nell’elaborazione di buone politiche di vicinato, progetti comuni e sinergie.