di Claudia Guendalina Sias
Questo scritto dà conto di due lavori di ricerca sull’artigianato sardo cosiddetto tradizionale. Durante la prima ricerca, che verteva soprattutto sul versante tecnico-operativo dei processi artigianali, erano emerse alcune specificità ed interrogativi sullo statuto variamente complesso delle professioni e sulle vocazioni degli artigiani contemporanei, che hanno fatto da stimolo per un successivo approfondimento di ricerca.
Numerose fra le botteghe artigiane inizialmente esaminate (regolarmente iscritte o meno) presentavano, infatti, rispetto al settore tradizionale di riferimento dei caratteri nuovi e in qualche modo problematici.
Tale problematicità si manifestava in tre aspetti fondamentali del mestiere artigiano: la sua identità, l’aspetto economico legato alla vendita e quello relativo al sapere e alle competenze. In tutti questi aspetti, necessari per definire artigiano e lavoro artigianale ho rilevato alcune articolazioni che mi sono apparse particolarmente significative.
Rispetto al primo punto (ovvero la ridefinizione dell’identità artigiana) il nodo individuato è quello che lega i concetti di identità, genere e tradizione alla figura dell’artigiano. Il secondo punto, relativo alla vendita e alla committenza, si muove tra alcune parole chiave: eticità, mercato e free economy. Infine, il terzo aspetto inerente saperi e competenze vede un incontro tra “saper fare” e “sapere scientifico”.
L’individuazione degli artigiani, successiva alla precedente esperienza di ricerca sopra ricordata, ha privilegiato alcuni artigiani e artigiane rispetto ai quali questi aspetti apparivano particolarmente evidenti. Tra di essi si analizza qui specificamente il caso dei tessitori di Casa Lussu (Armungia), dei tintori Maurizio Savoldo (La robbia ad Atzara) e Alessandro Nonnoi (Villaputzu) e il settore della terra cruda (su ladiri) utilizzata in edilizia dal laboratorio Adobe (Nurachi) di Luigia Demelas.
Dall’analisi di questi laboratori è emersa in partenza una tendenza ad uno “scambio di genere” da parte degli artigiani coinvolti rispetto al settore tradizionale di riferimento, secondo il quale la tessitura e la tintura della lana erano nel passato in assoluta prevalenza attività femminili, così come quelle legate all’edilizia erano attività maschili. Dati tali aspetti mi sono proposta, almeno in una fase iniziale del lavoro, di interpretare l’aspetto del genere come performativo, riprendendo lo spunto da alcune riflessioni di Judith Butler che ci riporta alla forza normativa della performatività [1] e rifacendomi, tra le altre cose, al movimento femminista materialista francese, secondo il quale la nozione di genere si è sviluppata a partire da quella dei ruoli sessuali (Christine Delphy) [2].
Secondo tali prospettive e a partire dai casi etnografici ho in alcuni casi documentato come la stessa nozione di genere, legata ad un contesto denso come quello dei lavori tradizionali caratterizzato da una forte polarizzazione tra ruoli maschili e femminili (ben descritti da M. G. Da Re ne La casa e i campi. Divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale, Cluec Cagliari, 1990) sia non solo performativa, ma come faccia emergere in tali contesti una rielaborazione dei confini di genere.
Questo aspetto è emerso significativamente nella trasmissione delle conoscenze (come è il caso di Casa Lussu e de La Robbia), che ha permesso una comunicazione di competenze tradizionalmente ritenute femminili a giovani uomini. Negli altri ambiti operativi questa componente, anche a livello autorappresentativo, è invece rimasta nello sfondo, sostanzialmente caratterizzata dalle risposte fornite da artigiani e artigiane alle più o meno bonarie ironie da parte soprattutto dei compaesani, ironie che non hanno prodotto né crisi né una reazione rivendicativa. Quello che è apparso significativo nel caso di coloro che qui chiamerò nuovi artigiani è stato, insomma, che i confini di genere presentino una porosità tale da permettere di essere attraversati in entrambe le direzioni.
Il tema dell’incontro tra saper fare e sapere scientifico è emerso, invece, con forza e ha costituito una direttrice di ricerca specifica. I tessitori e tintori individuati sono detentori di un sapere scientifico di livello accademico (botanico, chimico, culturale) che hanno variamente affiancato al saper fare proprio dello specifico settore artigiano. L’artigiana del ladiri, per contro, pur non detenendo in prima persona tali conoscenze ha messo in campo una serie di collaborazioni in tal senso. All’epoca della ricognizione la sua impresa era inserita nell’ambito di un progetto elaborato da “Sardegna Ricerche”, relativo all’applicazione di nuove tecnologie all’artigianato tradizionale, e collabora spesso con architetti e tecnici nella ricerca e sperimentazione di nuovi materiali e tecniche costruttive. Lei stessa è interessata all’innovazione del suo settore e, in collaborazione con un altro artigiano (che lavora fibre naturali atte alla costruzione), sta progettando degli utilizzi diversi del ladiri.
Le competenze dei tessitori e dei tintori sono state messe al servizio di un sapere appreso secondo meccanismi di acquisizione legati a catene di trasmissione diretta dalle generazioni precedenti, caratterizzate sovente dallo scambio di genere già citato. La scelta da parte degli artigiani e delle artigiane di evidenziare tale linea di continuità, tra le altre possibili, concorre nel comunicare una dimensione etica e politica forte.
Gli studi universitari di alcuni degli artigiani hanno implicato la disponibilità di strumenti ulteriori e hanno avuto degli esiti tecnici pratici, tra i quali ad esempio la preventivazione del risultato per quanto riguarda le tinture naturali, ma anche delle narrazioni intorno al proprio mestiere e alla propria vocazione artigiana. La competenza, nello specifico, di certi temi del dibattito antropologico da parte di alcune fra le maestranze intervistate ha reso complesso il contesto più ordinario (mi si passi il termine) dell’intervista, mettendo in campo una riflessività bidirezionale tra etnografa e artigiani, costantemente produttrice di analisi sugli assunti teorici e sul proprio posizionamento.
Ciò che qui sembra emergere è come la visione del mondo di questi artigiani possa costituire al pari del prodotto finito, un valore in sé, che a questo si somma e che con questo appunto si intesse. I discorsi legati alla scelta di dare spazio a tale vocazione si connettono con temi culturali, ideali e ideologici, con una visione del mondo sostenibile, etica, con una ideologia della decrescita che spesso è condivisa da produttori e da acquirenti (effettivi o potenziali) e che costituisce il valore cui si è accennato.
Lo stesso mettere in secondo piano l’aspetto più propriamente economico (fino ad un atteggiamento critico rispetto al fatto che alcune cose “siano diventate un business” per dirla con Savoldo), con temi che si intrecciano con la free economy, sottolinea il fattore fondante di questa produzione, che è anche produzione di una visione del mondo ricercata dai potenziali acquirenti.
Nella comprensione delle dinamiche relative ai nuovi artigiani risultano utili le categorie utilizzate negli studi (più numerosi) sui “nuovi contadini” o sulla cosiddetta “ricontadinazzazione”, che mi sembra possano essere utilmente adattati al caso nostro. Riprendendo uno schema sulla “coreografia della ricontadinizzazione”, proposto dal sociologo rurale Van Der Ploeg [3] nel suo saggio dedicato a questi temi, si evincono alcuni elementi fondamentali:
- La diversificazione contrapposta alla specializzazione;
- La vendita diretta e l’elaborazione di circuiti brevi che collegano direttamente la produzione al consumo;
- La ricostruzione di un’agricoltura basata sulla natura;
- La pluriattività;
- Nuove forme di collaborazione locale.
«L’azienda agricola, da semplice fornitore di materie prime, diventa quindi un’unità multifunzionale, che si relaziona in nuovi modi con la società e la natura. Inoltre, si determina una ridefinizione delle identità (…), così come la creazione di nuove reti di connessione con i consumatori»[4].
Dall’intervista a Luigia Demelas emerge come la diversificazione del materiale sia un punto saliente del suo lavoro, una diversificazione ancora più marcata rispetto al passato che, nell’inventare materiali diversi, va ad amplificare l’aspetto di “unicità” dell’elaborato artigianale, declinandolo sulla base dei più recenti studi legati alle materie e tecnologie costruttive. Quasi a prefigurare, sebbene con i toni discreti che sono propri di questa artigiana, un futuro non fatto in serie, ma caratterizzato da tempi più lunghi, i tempi che caratterizzano la produzione artigianale.
Proseguendo questo percorso che congiunge nuovi contadini a nuovi artigiani riprendo le sollecitazioni emerse nel saggio di Geneviève Pruvost, Vivre et travailler autrement [5], pubblicato sul numero monografico di Terrain “L’alternative écologique”. L’autrice individua una connessione tra il lavorare diversamente e il vivere diversamente. Il fatto che la scelta di dedicarsi alla tintura e alla tessitura abbia costituito una scelta di vita per gli artigiani intervistati emerge chiaramente dal campo. Tutti, allorquando hanno deciso di dedicarsi all’artigianato, hanno scelto di trasferirsi dalla città a piccoli centri interni con i quali avevano differenti legami affettivi. C’è da puntualizzare che, se nella Francia di cui ci parla la Pruvost si tratta di una seconda fase di nuovo insediamento, principalmente dopo quello hippie degli anni ’70 e di un contesto densamente abitato, in Sardegna la scelta di andare ad abitare in paesi in via di spopolamento di mille o quattrocento abitanti nominali (come nel caso di Armungia) e dove i servizi sono talvolta ridotti o assenti, assume tratti quasi pionieristici, estranei al contesto descritto nell’articolo ora citato.
La scelta di “cambiare vita”, comunque sia, fa emergere un aspetto comune tra nuovi contadini e nuovi artigiani, ovvero una sorta di “militanza del quotidiano” nelle attività professionali e domestiche che – per dirla con la Pruvost – si esprime spesso in
«un impegno militante nel senso classico del termine. Non si tratta solo di vivere e lavorare altrimenti, ma di partecipare alla promozione di un modo di vita, pensato come generalizzabile. Questo impegno assume la forma di una trasmissione pedagogica del proprio saper fare e delle proprie idee» [6].
Gli stessi artigiani qui citati sono tutti, sebbene con diverse modalità, abitualmente attivi in laboratori didattici e in attività divulgative. Tali attività oltre a testimoniare l’esistenza di una componente ideale che costituisce un ponte tra artigiani, appassionati e acquirenti, risulta necessaria nell’integrazione del reddito prodotto dal lavoro artigiano (la pluriattività) e in qualche modo “tiene insieme”, come ci dice Maurizio Savoldo, il particolare percorso di formazione di questi artigiani scienziati e/o intellettuali con la loro attività pratica.
Il lavoro manuale in questi ambiti, quindi, non è vissuto come impossibilità ad accedere ad un sapere intellettuale, ma come condizione stessa di riflessione. L’ipotesi è che questi due saperi si accumulino e coesistano in termini di complementarietà [7] e che, insomma, i due aspetti del sapere scientifico e del saper fare risultino entrambi come delle risorse disponibili messe in campo a seconda del contesto comunicativo o operativo. L’orientarsi o il riorientarsi, a seconda dei casi, della propria formazione nel settore artigiano scelto rivela (al pari dei nuovi contadini) l’affermazione di una vocazione.
Il rivolgersi alla cosiddetta società civile rinvia poi all’idea di un ancoraggio locale e alla volontà di tessere (appunto) relazioni tra artigiani (quella tra casa Lussu e Alessandro Nonnoi ad esempio). Ancoraggio locale che non si dimostra esclusivo, in quanto tutte le maestranze esaminate hanno contatti con realtà di riferimento su scala anche internazionale.
Gli artigiani ai quali qui mi riferisco, infine, dimostrano non solo una sensibilità esplicita verso i temi della sostenibilità, sebbene con modalità differenti (più o meno radicali si potrebbe dire), ma anche una volontà di divulgazione di questi in relazione al proprio lavoro.
Il tema della sostenibilità ambientale dell’uso delle materie prime non inquinanti, del rispetto per l’ambiente, con la volontà ad esempio di non impoverire il territorio con raccolte smodate di erbe tintorie, sperimentandone la coltivazione o con l’utilizzo delle lane locali, rappresenta un universo di senso verso il quale orientarsi, più ancora di una possibilità effettiva per le botteghe osservate. Un universo che non si pone solo come scelta etica individuale, ma che presuppone una visione del mondo che, in quanto tale necessita di condivisione. Per questo le botteghe delle quali qui si parla hanno messo in campo dei progetti di collegamento, di collaborazione, di rete, in modo che tale condivisione sia non solo praticata, ma anche diffusa. Ma la condivisione per essere tale deve essere espressa, narrata.
La narrazione delle specificità legate ad eticità, decrescita e sostenibilità accomuna idealmente gli artigiani e gli acquirenti e non riguarda esclusivamente l’impatto ambientale ma, in generale, la gestione del tempo del lavoro e, significativamente, la relazione dell’artigiano con il proprio sapere. Rispetto al sapere tecnico è spesso rivendicata la conoscenza dell’intero processo operativo, capace di emancipare i soggetti da uno specialismo figlio di un mercato del lavoro votato elettivamente verso la produzione. Così la crescita individuale dell’artigiano passa attraverso la rivendicazione (supportata anche teoricamente [8]) della conoscenza di ogni processo produttivo (anche di quelli che come essi stessi affermano sono economicamente sostenibili nell’ordinaria produzione dei manufatti), che allude ad un’idea di crescita a tutto tondo dell’artigiano e dell’individuo.
La comunicazione è quindi uno degli aspetti nei quali gli artigiani intervistati risultano significativamente attivi in vari modi: dalle curatissime pagine Facebook alla realizzazione di documentari sulle antiche tecniche del tintore Alessandro Nonnoi, che nel processo di ricostruzione della memoria sembra privilegiare una visione del mondo sostenibile a livello ambientale ed umano; sino ad arrivare alla partecipazione a progetti di ricerca o ad interventi attivi (dato anche il possesso di specifici e specialistici strumenti analitici) nel creare occasioni di riflessione divulgativa o scientifica.
L’attenzione degli artigiani rispetto ai temi della divulgazione e della ricerca può costituire, tuttavia, un ambito che talvolta parzialmente occulta quello economico fino a farlo apparire marginale (forse forzatamente, date le difficoltà del comparto, come più o meno ironicamente affermano alcuni degli artigiani intervistati), ma sembra comunque uno strumento complementare da mettere in campo a seconda del contesto.