di Orietta Sorgi
Due eventi, l’uno appena trascorso, l’altro ormai prossimo, hanno riacceso l’attenzione sulle ragioni del culto di Santa Rosalia e sul contesto mitico-rituale del Monte Pellegrino.
Nel primo caso si è trattato di un convegno di studi tenutosi a Palazzo Alliata di Villafranca a Palermo il 9 giugno, sul tema della biodiversità del gorgo di Santa Rosalia, dove, secondo la scoperta di un entomologo, in quel piccolo lago adiacente la grotta rupestre convivono specie di insetti e piante diverse, come esempio di ecosistemi o interazioni ecologiche. Il fenomeno della diversità biologica, scoperta da Hutchinson nel 1959 proprio in quel sito durante una visita in Sicilia, è divenuto così metafora del sincretismo che sembra caratterizzare il culto.
Il secondo evento a cui si allude è il Festino di Santa Rosalia del 15 luglio, che celebra, con la processione dell’urna e la sfilata del carro trionfale per le vie del Cassaro, il ritrovamento delle reliquie. All’inventio delle ossa sacre attribuite alla Santa è legato, come è a tutti noto, il miracolo della guarigione di Palermo dall’epidemia della peste che imperversava nel Seicento. Un evento straordinario si è dunque manifestato in illo tempore, come nei miti di fondazione.
L’apparizione divina di una Vergine miracolosa ne rivela al devoto lo spazio sacro, ierofanico, in quella la grotta rupestre, dimora del suo eremitaggio. Dal ritrovamento in poi quel luogo si presenta ai cittadini particolarmente carico di una sacralità miracolosa, perché sede di resti mortali attribuiti ad un’anima celeste. La Santa si è manifestata attraverso le sue reliquie, e ha confermato i suoi poteri miracolosi indicando nella grotta la via della salvezza, la liberazione dal morbo. Da qui la festa e il bisogno di rivivere nel rito il giorno del ritrovamento, 15 luglio, con la grande processione urbana e l’acchianata al santuario del 4 settembre, in memoria del dies natalis.
Una serie di elementi – l’acqua, la grotta e il monte – veicolano la potenza del nume (Van der Leeuw), cui si aggiunge, ad accrescerne la valenza simbolica, anche la tomba della Santa e la memoria della sua permanenza. Sul Monte Pellegrino, il punto di contatto fra umano e divino, fra terrestre e oltremondano, coincide infatti con la pietra tombale di Santa Rosalia. «Una tomba – scrive Eliade a questo proposito – considerata punto di interferenza del mondo dei morti, dei vivi e degli dèi, può essere contemporaneamente un “centro”, un omphalos della terra».
Del resto il valore sacrale della montagna nelle società antiche è noto a tutti gli antropologi, in quanto – come scrive ancora Eliade – «è più vicina al cielo e questo le confluisce una doppia sacralità: da un lato partecipa al simbolismo spaziale della trascendenza (alto-verticale-supremo) e dall’altra parte il monte è per eccellenza il dominio delle ierofanie atmosferiche». La montagna è dunque il punto di incontro fra il cielo e la terra, alto e basso, vita e morte, coincidentia oppositorum: costituisce un “centro” come axis mundi, luogo della cosmogonia.
Nel nostro caso, già in periodo precristiano il Monte Pellegrino, era sede di culto, probabilmente di origine punica e dedicato alla dea Tanit, protettrice della fertilità. Le prime testimonianze cristiane si hanno nel VII secolo, con la scoperta di una chiesetta bizantina o normanna, dedicata all’Immacolata Concezione, ed eretta proprio sul vestibolo dell’ingresso attuale del santuario su una preesistente edicola punica. Si hanno altre notizie intorno al XIV secolo, della presenza diffusa di ossa umane e della permanenza di frati eremiti sul monte, dove scelsero la propria dimora sull’esempio di vita della Santa.
Ancor prima del ritrovamento delle relique, il culto per la Vergine romita era già attivo e largamente praticato, in quanto la vita stessa e la vicenda esistenziale di Rosalia, la sua Passio, indicavano ai devoti un modello esemplare da seguire, una storia mitica per eccellenza: la nascita nobiliare e la discendenza dai Normanni, il distacco da un ambiente privilegiato e la vocazione religiosa seguita dalla scelta di vivere in privazione e isolamento, le tentazioni del diavolo e la resistenza al martirio fino alla morte.
Quando nella Palermo seicentesca, la Vergine manifestava al suo popolo la volontà di assumere il patronato sulla città, il Monte era già per tradizione secolare un luogo sacro, dotato di memorie di culto da parte di divinità femminili: la Grande Madre della fertilità, di origini orientali o la “Mater Oreia” “Mater Montana”, presso i Greci più volte identificata con Rhea Kybele e successivamente rielaborate dal Cristianesimo nelle figure di Maria Immacolata o di Santa Rosalia.
Nell’antichità sono diffuse – come è noto – numerose figure sacerdotali femminili, anche in aree geograficamente distanti, dotate di poteri terapeutici e oracolari che, come la Santuzza, si manifestano sulla terra attraverso il seppellimento di ossa-reliquie, o con apparizioni oniriche durante l’incubatio (addormentamento o pernottamento in un luogo sacro).
Se la montagna è il luogo dell’ascensione, il pellegrinaggio rituale diviene un viaggio verso l’altrove, lo spostamento dalla città alla campagna, dallo spazio profano allo spazio sacro. Non è casuale inoltre che al santuario, posto in cima al monte, si acceda attraverso una scala, richiamando una evidente simbologia ascensionale. La scala, nella Genesi, è l’elemento che mette Giacobbe in comunicazione col Dio, unificando così l’umano e il divino, il cielo e la terra. Percorrere la montagna, salire le scale in forme rituali come in ginocchio, significa in fondo trascendere la stessa condizione umana, compiere in vita il viaggio dei morti, un viaggio «sciamanico», come avverte Valerio Petrarca, ricordando che in assiro «morire» si esprime con «aggrapparsi al monte» (1988: 54).
Dal giorno del ritrovamento, anche Palermo si riappropria della potenza di Santa Rosalia, conferendole il patronato sulla città, a discapito delle altre quattro sante, Cristina, Ninfa, Oliva e Agata che restano immortalate a Piazza Villena. Viene fissata l’iconografia ufficiale per la diffusione del culto e la Vergine rappresentata in abiti da pellegrina, ai piedi del sacro monte con lo sguardo rivolto al cielo.
Il topos di Monte Pellegrino restava dunque una costante nella genesi di un culto ben più antico dell’inventio, ma che solo da quel momento, per varie ragioni, veniva assunta a simbolo della municipalità e ne promuoveva la rinascita urbana ad opera dei Gesuiti (Petrarca 1986; 1988). Tuttavia, il grande pellegrinaggio rituale del 4 settembre per raggiungere il santuario resta comunque il fenomeno più intenso di religiosità collettiva, forse perché, rispetto al Festino, meno vincolato dalla presenza delle istituzioni.
Negli ultimi decenni e a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, la tradizionale acchianata sembra inoltre rinvigorita dalla presenza di intere famiglie provenienti da comunità indù, tamil e mauriziana. Si determinano così fenomeni di contaminazione religiosa e culturale in quanto gli emigrati, pur continuando a professare il culto induista per Shiva o Ganesh, aderiscono alla devozione per Santa Rosalia e a lei si accostano chiedendo protezione.
Durante il mese di settembre, e non soltanto nel giorno della ricorrenza, ondate di pellegrini, provenienti da altre religioni e tradizioni culturali, percorrono a piedi il Sacro Monte e si introducono nel santuario, nei pressi della grotta che custodisce il simulacro. Lì sostano in preghiera, offrono doni alla Vergine, toccano l’effigie divina, chiedendo protezione, sollevano i bambini neonati al suo cospetto.
In particolare le comunità ceylonesi dello Sri Lanka si ritrovano ogni domenica ai piedi del santuario e nelle prime ore del mattino raggiungono in gruppo la scala vecchia che li conduce alla grotta. Indossano per l’occasione gli abiti tradizionali della festa e, una volta arrivati in cima alla montagna, salgono in ginocchio ’lultima rampa che li porta al santuario: accendono i ceri e pregano, rinnovando il miracolo di guarigione ad opera della Santa, che ha salvato la loro bambina in coma, restituendola in vita alla madre disperata.
Quel santuario sulla montagna che guarda il mare è divenuto il loro tempio, Rosalia la loro santa. Nella Vergine ritrovano la Grande Madre, la donna sposa che protegge il matrimonio e i figli. Durga, nella religione induista, viene spesso identificata con la moglie di Shiva e rappresenta l’energia femminile come elemento dinamico di creazione del mondo, forza cosmica sintetizzata nella donna archetipo, sposa e madre.
Può sembrare difficile in apparenza comprendere le ragioni di tale accostamento con un culto cattolico, ma in realtà una possibile spiegazione sta proprio nella caratteristica principale dell’induismo che è quella dell’apertura verso altre credenze religiose. Essa è caratterizzata dall’inclusivismo, in quanto, pur avendo un nucleo comune di valori fondativi, riesce a convivere con una grande varietà di correnti filosofiche, innumerevoli mitologie e infinite pratiche rituali.
Diviene chiaro allora come nei confronti dell’ascensione al Monte Pellegrino le comunità indù ritrovano una nuova energia cosmica, espressione del divino sulla terra, che si rivela, come nel Cristianesimo e in altre religioni, per via di elementi come l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco. Allo stesso modo si accostano a Maria Teresa di Calcutta alla Kalsa, rivedendo l’immagine di una figura mitica di protezione.
Per la comunità mauriziana, di religione induista, la festa più importante dell’anno è quella in onore di Ganesh, che rivela non poche affinità con le nostre pratiche rituali. Nel medesimo periodo del pellegrinaggio dei palermitani a Santa Rosalia, e cioè nel mese di settembre, ha luogo la grande processione a mare del Dio Ganesh, nella spiaggia dell’Arenella, antica borgata marinara della Piana dei Colli. La festa si conclude con l’immersione in acqua del simulacro, raffigurante il Dio dalla testa di elefante con la proboscide in alto in senso propiziatorio. È significativo osservare a questo proposito come durante la processione, i mauriziani abbandonano il loro tempio privato e domestico, sacralizzando tutto lo spazio esterno del percorso rituale, durante il quale una delle soste obbligate sono proprio le falde del Monte Pellegrino, grazie all’evidente simbolismo di axis mundi.
In definitiva, la figura della Santuzza palermitana, pur fondando nella liberazione dalla peste le ragioni della sua popolarità, sembra fornire un modello di assistenza trascendentale a bisogni e aspettative delle comunità degli immigrati. Non potrebbe essere diversamente in quanto la genesi cultuale del monte da cui la Vergine proviene, sussume in sé il principio della diversità e dell’altrove. La figura mitica della Santa si fonda essa stessa su una serie di dicotomie oppositive: alto-basso, popolare-culto, città-campagna.
D’altra parte anche Palermo, la sua stessa storia e il sito geografico in cui sorge, si configurano come luogo di incontro e coesistenza con l’alterità. Una città nata fra le colline e il mare è stata destinata fin dalle origini agli scambi, divenuta nel tempo teatro di dominazioni straniere e di nuovi apporti culturali. La sua storia è una storia cumulativa che non cancella il vecchio ma lo assorbe in un miracoloso equilibrio. Oggi più che mai la città di Palermo propone molteplici scenari, tutti aperti e talora contraddittori, che la rendono, malgrado tutto, uno straordinario luogo di accoglienza. Il che non è poco, in questi tempi oscuri di omofobia.