Già quando ho ascoltato per la prima volta Silvia Di Luzio, a un convegno emiliano sulla “tenerezza” in cui eravamo entrambi relatori, la sua suggestiva sottolineatura della polivalenza funzionale dell’organo cardiaco mi ha richiamato spontaneamente alla memoria la celebre, fulminante, asserzione di Blaise Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» (pensiero 277, ed. Brunschwig).
Per noi filosofi Pascal è uno strano compagno di viaggio. Per un verso, infatti, non può considerarsi un filosofo canonico: nella breve, intensa, esistenza ha svolto varie mansioni (matematico, fisico, ingegnere meccanico, teologo, mistico, scrittore polemista…) tranne che il filosofo di professione, convinto com’era che «tutta la filosofia non valga un’ora di fatica» (pensiero 79, ed. Br. ). Tuttavia non c’è lettore di cose filosofiche che possa evitare di confrontarsi con le sue opere, o almeno con quelle riflessioni in frammenti pubblicate postume col titolo Pensieri.
Ed eccomi allora alle prese con una domanda: caro Blaise, davvero il cuore ha ragioni che la ragione non conosce? O, in termini sostanzialmente equivalenti, davvero ci sono situazioni della vita in cui dobbiamo andare non dove ci indica la ragione ma – per prendere in prestito il titolo del più fortunato romanzo di Susanna Tamaro – “dove ci porta il cuore”?
Se fossimo nell’assetto circolare da me preferito nelle sessioni di filosofia-in-pratica, ognuno di noi avrebbe lo spazio per riflettere e esprimere la propria convinzione in proposito: e, secondo il buon Platone, sfregando le pietre delle nostre menti prima o poi si accenderebbe qualche scintilla di verità. Ma stiamo giocando un gioco diverso dalle pratiche filosofiche di gruppo e sono costretto dunque a dire – unilateralmente – la mia. Con quale impoverimento conclusivo per gli altri e, soprattutto, per me è facilmente immaginabile.
Schematizzando in maniera brutale, dunque, proverò ad argomentare due differenti risposte (ognuna delle quali dipende dall’accezione semantica che diamo alle due parole-chiave “cuore” e “ragione”).
In un primo scenario mi troverei fermamente dissenziente dalla tesi pascaliana. Se per “cuore” intendiamo il potenziale emotivo, il sentimento, o addirittura la nostra sfera inconscia e pre-conscia, confesso – contro molte ortodossie maggioritarie di impronta new age – che il cuore non ha ragioni e deve lasciarsi orientare dalla ragione. Dissento fermamente dalla contrapposizione – tutta giocata a favore del ‘cuore’ – fra cuore e ‘mente’: «La mente è moderna quanto il cuore è antico. Chi bada al cuore – si pensa allora – è vicino al mondo animale, all’incontrollato, chi bada alla ragione è vicino alle riflessioni più alte. E se le cose invece non fossero così, se fosse vero proprio il contrario? Se fosse questo eccesso di ragione a denutrire la vita? […] La mente è prigioniera delle parole, se un ritmo le appartiene è quello disordinato dei pensieri; il cuore invece respira, tra tutti gli organi è l’unico a pulsare, ed è questa pulsazione che gli consente di entrare in sintonia con pulsazioni più grandi». No: con buona pace della Tamaro (il cui romanzo, per altro, mi è piaciuto dal punto di vista letterario) non voglio andare dove mi porta il cuore perché non voglio andare a sbattere il muso contro i muri della illusione e della delusione. Se inteso in questo significato – qualcosa come la “parte” passionale dell’anima che Platone paragonava a uno scalpitante cavallo bianco che un bravo auriga deve saper controllare saldamente con le redini in mano – a mio parere vale per il cuore ciò che Gibran ha sostenuto per il complesso di passioni di cui siamo capaci: «La vostra ragione e la vostra passione sono/ il timone e le vele della vostra anima navigante./ Se si spezzano le vele, o si spezza il timone,/ o andrete, sbandati, alla deriva,/ oppure resterete a ristagnare in mezzo al mare./ Infatti la ragione, quando domina da sola,/ è una forza imprigionante;/ e la passione, quando non è custodita, è una fiamma che brucia a propria distruzione./ (…) Vorrei consideraste il vostro giudizio ed il vostro impulso/ sempre come fareste con due ospiti amati in casa vostra./ Sicuramente non onorereste un ospite più che l’altro:/ poiché chi ha più attenzione verso uno solo/ perde l’affetto e la fiducia di entrambi».
Ma questa accezione di “cuore” e questa accezione di “ragione” – sulla base delle quali non condivido il detto pascaliano che sembrerebbe privilegiare qualche facoltà rispetto alla “ragione” – non sono le uniche possibili, anche se risultano oggi le più diffuse. Ce ne sono, infatti, altre che, se adottate, rendono a mio parere la tesi pascaliana del tutto condivisibile. Per accostarci a questa interpretazione – di cui tra l’altro, secondo molti interpreti, si trovano echi nello stesso Pascal – dobbiamo risalire al significato che il termine “cuore” possedeva nella tradizione biblica. In questa prospettiva, «cuore non va inteso tanto nel senso psicologico del sentimento quanto nel senso del centro profondo nel quale l’uomo si determina alla conoscenza e alla decisione».
In un articolo su “Avvenire” il monaco di Bose Enzo Bianchi si esprime più dettagliatamente:
«cercando di conoscere che cosa è il cuore nella Bibbia, nella tradizione della sapienza di Israele e poi negli scritti del Nuovo Testamento, ci si rende conto che il termine ‘cuore’ ha risonanze che non sono identiche a quelle del nostro linguaggio odierno. Quando nel nostro contesto socio- culturale si parla di cuore, si allude innanzitutto alla vita affettiva, alle emozioni, ai sentimenti che hanno nel cuore la loro sede: «Il nostro cuore ama o odia, il nostro cuore è tenero o è chiuso, il nostro cuore accoglie o respinge », siamo soliti dire. Nel linguaggio biblico, invece, il cuore ha un significato molto più esteso perché designa tutta la persona nell’unità della sua coscienza, della sua intelligenza, della sua libertà; il cuore è la sede e il principio della vita psichica profonda, indica l’interiorità dell’uomo, la sua intimità ma anche la sua capacità di pensiero; il cuore è la sede della memoria, è il centro delle operazioni, delle scelte e dei progetti dell’uomo. In una parola, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita umana nella sua totalità. […] Antoine de Saint-Exupéry ha scritto: «Non si vede bene che col cuore». La Bibbia presenta questa stessa verità applicandola piuttosto agli orecchi, o meglio agli ’ orecchi del cuore’: tutto l’operare, il sentire, il pensare dell’uomo nasce dal cuore, quindi è il cuore che deve essere innanzitutto raggiunto dalla Parola di Dio e mettersi al suo ascolto. […] Non si dà un ascolto solo negli orecchi propriamente detti, perché questo equivarrebbe semplicemente a udire un suono, a udire delle parole; si dà vero ascolto quando le parole di Dio scendono nel profondo del cuore e qui sono accolte, meditate, ricordate, pensate, collegate tra loro, interpretate e custodite con perseveranza, in modo che, grazie al loro dinamismo ispirante, diventino azione. Senza questa qualità di vita interiore l’ascolto è vano, illusorio; anzi, è mortifero, perché quando non c’è vero ascolto allora si apre la strada alla terribile esperienza che i profeti definivano sklerokardía (Ger 4,4 LXX; cf. Ez 3,7 LXX; Sal 94 [95],8 LXX), durezza di cuore».
In questa prospettiva il cuore non è una parte dell’essere umano distinto, e tendenzialmente opposto, alla ragione: è piuttosto il tutto dell’essenza umana di cui la ragione è una parte, un’articolazione, una manifestazione. Il cuore non è un ramo che si divarica, come altri rami quale la ragione, dal tronco: è piuttosto questo tronco stesso considerato come principio vitale di ogni possibile ramificazione.
Potrei provare a ridirlo prendendo a prestito il vocabolario junghiano. Come è noto, per lui, vi sono quattro funzioni o qualità principali nell’essere umano: la razionalità, il sentimento, la sensibilità e l’intuizione. Il ‘cuore’ potrebbe concepirsi come la fonte da cui scaturiscono queste funzioni, una sorta di Sé che tende a integrare – nell’interezza di un soggetto – l’inconscio e le sue ombre. Se le cose stessero così, davvero il cuore saprebbe molte cose che la ragione non conosce. Infatti, nel linguaggio filosofico dominante in molti esponenti della storia della filosofia, la ragione è propriamente la ratio discorsiva: la capacità di argomentare passando da una premessa a una conclusione non evidente. Se parto dalla premessa che ogni totalità è maggiore di una sua parte posso facilmente dimostrare che chi mangia una torta ne mangia più di chi riceve solo una fetta di una torta identica alla prima: ma chi mi dice che “ogni totalità è maggiore di una sua parte”? Chi mi dice che “se A è uguale a B e B è uguale a C, allora A è uguale a C”? Chi mi dice che, “in un determinato momento e sotto il medesimo punto di vista, questa penna non può essere e non-essere una penna”? In filosofia si usa dire che questi princìpi primi, da cui parte la ragione per le sue dimostrazioni, non sono a loro volta dimostrabili: possono solo essere intuiti.
L’intelligenza umana non è solo analitico-discorsiva ma anche sintetico-intuitiva: e la conoscenza parte da un’intuizione e, grazie alla ragione (se correttamente usata), arriva a un’altra intuizione. Questa capacità intuitiva Pascal l’attribuisce al “cuore”: ed è ovvio che, in questo senso, il cuore ha le sue ragioni che la ragione deve limitarsi a presupporre con rispetto e docilità.
Ma così la facciamo troppo semplice e, probabilmente, anche troppo fredda. Le nostre capacità intuitive non scattano solo davanti ai primi princìpi della logica e/o della matematica: scattano anche nelle relazioni umane. Chi mi dice che questa persona che mi propone l’amicizia è sincera? Chi mi dice che questo bambino, apparentemente arrogante, ha bisogno di affetto? Chi mi dice che quel politico è corrotto perché infelice e non infelice perché corrotto? Noi potremmo rispondere: l’intuizione (sostenuta dalla ragione) , il sesto senso (sostenuto dai cinque abituali). Pascal dice: lo “spirito di finezza” che è un’altra manifestazione del “cuore”.
Ma l’uomo, considerato unitariamente nella sua totalità, oltre che intuizione dei princìpi primi e “spirito di finezza” nel decifrare la soggettività altrui, è anche capacità di amare: per il cristiano Pascal, di amare Dio e gli altri dello stesso amore con cui Dio ama (dunque di agape, di charitas). In ciò, a suo avviso, consiste la vera “saggezza”: l’organo che ne è capace è, ancora, il “cuore”. Leggiamo le righe conclusive del pensiero 793 (Br.):
«Ma ci sono alcuni che non sanno ammirare se non le grandezze carnali, come se non esistessero anche le grandezze intellettuali, e ce ne sono altri che non ammirano se non le grandezze intellettuali, come se non ce ne fossero altre infinitamente più alte nella saggezza. Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni non valgono la più piccola intelligenza; perché questa conosce tutto questo e se stessa; ma i corpi, no. Da tutti i corpi messi insieme non si potrebbe ricavare un piccolo pensiero: questo è impossibile, e appartiene a un altro ordine. Da tutti i corpi e da tutti gli intelletti non si potrebbe ricavare un moto di vera carità: questo è impossibile, e appartiene a un altro ordine, quello soprannaturale».
Il “cuore” è dunque la radice da cui si dipartono varie articolazioni spirituali: la “ragione” (o, talora equivalentemente, lo “spirito di geometria”); l’ “intelletto” (o, talora equivalentemente, l’intuito dei princìpi primi di ogni ragionamento logico); l’intuito psicologico (o “spirito di finezza”); la dedizione oblativa (o “carità”). Esso non è in concorrenza (né ancor meno in polemica) con l’ordine dell’intelligenza né con l’ordine dei corpi: li presuppone, li contiene, ma li trascende.
Allora: vado dove mi porta il cuore? In questo senso – abbastanza fedele ad alcuni frammenti pascaliani – senza dubbio. Perché non mi bastano né le scienze “geometriche” né la filo-sofia come amore della saggezza: desidero sperimentare anche la saggezza dell’amore. A qualcosa di simile, forse, si riferiva Hegel quando, due secoli dopo Pascal, auspicava l’esperienza di un “cuore pensante”. Non ascoltarlo, non seguirlo, significherebbe limitarsi a quella «ragione pura e senza mescolanza» che, secondo Giacomo Leopardi, è «fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia»; quel genere di follia che consiste – per riprendere la sentenza incisivamente ironica di Chesterton – nel perdere non la ragione, ma tutto il resto, tranne la ragione.
Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
___________________________________________________________________________
Augusto Cavadi, tra i pionieri della filosofia-in-pratica contemporanea, già docente presso il Liceo “G. Garibaldi” di Palermo, è fondatore della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Collabora stabilmente con La Repubblica-Palermo. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica, con particolare attenzione al fenomeno mafioso, nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018).
______________________________________________________________