Quando, oltre venti anni fa, ero ancora un giovane studente di antropologia e vivevo in Spagna, venni colpito (come tanti) dalla saga di Carlos Castaneda e del suo maestro nahuatl Don Juan. All’epoca non conoscevo i retroscena che caratterizzavano il lavoro di Castaneda. Successivamente, mi appassionai alla vicenda dell’Isola dei senza memoria di V. Segalen e, addottorandomi, presi coscienza di tutti gli scritti, le retoriche e le implicazioni della cosiddetta antropologia critica postcoloniale: da H. Bhabha a Gayatri Spivak, passando da A. Mbembe, P. Chakrabarty, A. Appadurai, F. Fanon, W. E. B. Du Bois, senza ovviamente trascurare nessuno degli autori del famoso seminario di Santa Fé che diede il là al celebre Writing Culture.
Fra gli autori europei, un grande stimolo mi venne da Dio d’acqua di M. Griaule, L’Africa fantasma di M. Leiris, Naven di G. Bateson, dai Racconti aztechi della conquista e Noi e gli altri di T. Todorov, da La colonizzazione dell’immaginario di S. Gruzinski. Erano tuttavia parecchi anni che non mi capitava di leggere con l’interesse appassionato del giovane studente un saggio di antropologia, finché sotto i miei occhi è apparso il libro La caduta dal cielo. Parole di uno sciamano yanomami, un saggio realizzato a due voci e scritto dall’antropologo Albert Bruce, che si concentra nel riportare le parole e sopratutto i pensieri e i valori culturali di Davi Kopenawa, attualmente considerato uno dei più carismatici e influenti leader amerindi nella lotta per la protezione della foresta amazzonica.
La lettura del saggio di Kopenawa e Albert, specie di questi tempi di revanscismo nazionalista che ci tocca vivere, ha riaperto in me tutti gli interrogativi che accompagnano coloro che studiano e praticano l’antropologia, mossi dalla passione di voler contribuire alla comprensione delle culture umane e al miglioramento delle condizioni di convivenza nel mondo.
Cosa si deve fare per fare una buona antropologia? Comprensione e interpretazione sono condizioni necessarie e sufficienti? Dobbiamo limitarci a tradurre nei termini vicini all’esperienza di chi legge ciò che vivono e credono coloro che, studiandoli, cerchiamo di rappresentare? A cosa serve, davvero, questo mestiere? L’antropologia è un’arte, un mestiere, una professione o una pratica di studio destinata a restare confinata nei corridoi dei dipartimenti universitari per dare una spolverata di esotismo ai corsi delle facoltà umanistiche?
Se per il positivismo materialistico di M. Harris l’antropologo è chi comprende l’altro meglio di come egli comprende se stesso, e per l’ermeneuticamente provocatorio C. Geertz, l’antropologo è colui che scrive (o meglio inscrive), a giudicare dai fatti italiani di questi ultimi anni, la mia posizione rispetto a noi professionisti è che gli antropologi sono quelli che, maggiormente, sono mancati al dibattito pubblico e politico attuale. Infatti, oltre a provare ad interpretare, comprendere, tradurre ed inscrivere, gli antropologi dovrebbero essere dei seminatori di dubbi volti a decostruire le certezze e i luoghi comuni che, normalmente, rendono il dibattito del senso comune e, di conseguenza, quello politico, impermeabile alla vera comprensione relativistica dell’altro e del noi.
Per queste ragioni, leggere Kopenawa e Albert è doppiamente importante, non solo per noi addetti ai lavori. Per un verso, questo testo ci consente di scavare meglio all’interno della nostra disciplina e conoscere un modo più intenso di viverne la pratica, rendendoci edotti dei costumi, delle credenze e dei valori degli Yanomami e del loro incontro/scontro coi bianchi (il popolo delle merci). Per l’altro, ci mostra un punto di vista esterno e affilato che ci rappresenta (noi bianchi) con tutte le nostre contraddizioni, paranoie, approssimazioni e irresponsabilità.
Se fra anni sessanta e settanta, E. Bloch, G. Anders e H. Jonas costruirono il triangolo dei tre princìpi con cui avrebbe dovuto fare i conti il mondo occidentale rispetto al mondo (Il principio speranza; Il principio disperazione; Il principio responsabilità), l’etnografia di Kopenawa e Albert ci riporta al centro del triangolo partendo dal lato della responsabilità: ovvero la responsabilità verso le generazioni future. Infatti, ogni giorno di più (e ormai a prescindere dalle armi nucleari: basta infatti il nostro stile di vita), noi uomini (ed in particolare gli occidentali, con l’aggiunta delle Tigri Asiatiche e dei Paesi Brics), rappresentiamo per il mondo naturale il più grande (auto)pericolo. Su questi aspetti e sui nostri paradossi, ci obbliga a riflettere lo sciamano Yanomamo che, parlando con B. Albert, dice:
«ti ho confidato le mie parole e ti ho chiesto di portale lontano per farle conoscere ai Bianchi, che di noi non sanno niente. […] I Bianchi non pensano molto lontano davanti a sé. Sono sempre troppo preoccupati dalle cose del momento. Per questo vorrei che potessero ascoltare le mie parole attraverso i disegni che hai tracciato e che il loro spirito ne fosse pervaso. Vorrei che, dopo averle comprese, dicessero a se stessi: Gli Yanomami sono diversi da noi, eppure le loro parole sono giuste e chiare. Adesso capiamo quello che pensano. Sono parole di verità! La loro foresta è bella e silenziosa. […] Vogliono difendere la loro terra perché desiderano continuare a viverci come un tempo. E così sia! Se non la proteggono, i loro figli non avranno un posto dove vivere felici. E allora penseranno che i loro padri dovevano essere davvero poco intelligenti per avergli lasciato soltanto una terra nuda e ridotta in cenere, impregnata di fumi d’epidemia e attraversata da ruscelli di acque sporche. […] se la foresta verrà completamente devastata, non ne nascerà mai un’altra».
Mentre scrivo questa recensione, non posso non pensare che, quest’anno, abbiamo esaurito le energie disponibili annualmente del pianeta il 2 di agosto e che, dal 3, stiamo intaccando le sue riserve. Quando il calcolo del giorno del superamento è iniziato nel 1970, l’overshoot day cadeva il 23 dicembre.
Prima di diventare sciamano e portavoce ufficiale degli Yanomami, Davi Kopenawa (nato attorno al 1956 a Marakana, una casa collettiva abitata da circa 200 individui e sita nella foresta tropicale dell’alto rio Tootobi, presso il confine fra Brasile e Venezuela) ha vissuto una vita travagliata e girovaga. Da bambino, ha visto la sua comunità d’origine decimata da due epidemie infettive involontariamente, ma non meno mortalmente, diffuse dalla presenza occidentale. Ironicamente la prima fu causata fra il 1959 e il 1960 da alcuni agenti del Servizio di Protezione degli Indios, mentre la seconda fu determinata nel 1967 dal morbillo del figlio del pastore missionario della New Tribes Mission. Proprio ai missionari della NTM, Davi deve il suo nome biblico, congiuntamente all’apprendimento della scrittura e ad una visione poco allettante della religione cristiana. Il suo allontanamento dal cristianesimo fu determinato dalla ripugnanza nei confronti del fanatismo dei missionari e della loro ossessione nei confronti del peccato.
Alla fine degli anni ’60, Davi lascia la sua regione natìa per cercar lavoro nel corso inferiore del rio Demini. A muoverlo erano la sua ammirazione per il potere dell’uomo bianco e la sua volontà di diventare uno di loro, in dipendenza in qualche modo del meccanismo di colonizzazione psicologica messo in luce da Frantz Fanon. L’unico risultato della sua volontà di diventare un bianco fu che contrasse la tubercolosi e venne ricoverato per mesi in ospedale. Colse qui l’occasione di apprendere un portoghese rudimentale che, una volta dimesso e tornato a casa, gli permise di essere assunto nel 1976 dalla FUNAI (Fondazione Nazionale dell’Indio) come interprete. Nella sua nuova veste professionale, ebbe occasione di viaggiare per tutto il territorio yanomami, prendendo coscienza non solo della sua estensione quanto della fondamentale intrinseca unità culturale delle varie comunità yanomami, al di là delle superficiali differenze. Sopratutto, ebbe modo di farsi una chiara idea delle logiche predatorie che sottostanno a coloro che definisce “Popolo della merce” e di quanto, i bianchi costituiscano una seria minaccia alla sopravvivenza della foresta amazzonica e del suo popolo.
Dopo circa un lustro di peregrinazioni come interprete, Davi si stabilì a Watoriki, dove sposò la figlia dello sciamano locale, un vero e proprio Big Man, molto osservante delle tradizioni, che lo iniziò nel percorso sciamanico. Sul finire degli anni ’80, la Foresta Amazzonica fu sconvolta dalla febbre dell’oro. Oltre 40 mila cercatori vi si abbatterono portando malattie e devastazioni e causando la morte di circa un migliaio di Yanomami. Per Davi fu un vero e proprio déjà vu della sua infanzia che lo spinse ancor più a perorare la causa per la quale aveva iniziato a battersi: il riconoscimento legale delle terre yanomami in Brasile, attraverso una campagna internazionale di sensibilizzazione. Tra gli anni ’80 e ’90, viaggia e parla in USA e in Europa, ricevendo importanti riconoscimenti come il Global 500 Award (1988) delle Nazioni Unite ed il Right Livelihood Award (1989). Nel maggio del 1992, durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo di Rio de Janeiro, riesce finalmente ad ottenere dal governo brasiliano il riconoscimento legale di un ampio territorio della foresta amazzonica, riservato esclusivamente alla sua gente. Nel 1999 riceve dall’allora presidente della Repubblica Brasiliana Henrique Cardoso la decorazione all’Ordine del Rio Branco. Dal 2004 è presidente fondatore dell’associazione Hutukara (che rappresenta la maggior parte degli Yanomami del Brasile). Nel 2008 riceve una menzione d’onore dal prestigioso premio Bartolomé de las Casas e nel 2009 viene decorato con l’Ordine del Merito dal Ministero della Cultura brasiliano.
Albert Bruce, nato in Marocco nel 1952, è stato direttore dell’Institut de Recherche pour le Développment (IRD di Marsiglia) dal 1997 al 2017. A 23 anni ha iniziato a lavorare come etnografo in Brasile. Nel 1975, la foresta amazzonica veniva sconquassata dalla costruzione della ciclopica Perimetral Norte. Spinto dal suo idealismo pratico, nel 1978, ha contribuito a fondare in Brasile una ONG, la Comissao Pró-Yanomami, che congiuntamente a Davi Kopenawa ha condotto la campagna di sensibilizzazione conclusasi nel 1992 con il riconoscimento legale della Terra Indigena Yanomami.
Leggendo il testo, non ho potuto che condividere le parole di Andrea Gessner in quarta copertina:
«Questo libro mi ha colpito per la potenza che emana: un racconto insieme cosmologico, sacro, politico; una serie di piani che si intrecciano di continuo. Il flusso della lingua insinua nel lettore una macchina mitologica totalmente altra dalla nostra: vediamo il mondo con lenti diverse. È un libro scritto per noi occidentali: non per eternare una cultura in via di estinzione o per celebrare il mito del “buon selvaggio”, bensì per aprire uno spazio di confronto. Queste pagine infatti sono anche uno studio di antropologia comparata, che insegnano a vedersi da un altro punto di vista: quello di una cultura fiera e viva, capace di combattere per difendere il proprio mondo, includendo anche chi fa di tutto per distruggerlo […] un ponte tra culture».
Per troppo tempo, a cavallo fra fine Novecento e inizio del Terzo millennio, l’antropologia si è concentrata su se stessa, dando vita ad interessanti autocritiche che, in modo talvolta implacabile, hanno lavato in pubblico i nostri tanti panni sporchi. La caduta dal cielo, finalmente, segna un modo di passare dal pensiero autocritico all’azione, mostrando che è possibile scrivere un testo inclusivo, impegnato e sincero, che ci riporta al midollo della nostra pratica, ponendoci le fatidiche tre domande: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando?
In fondo, depurata dalle retoriche colonialistiche ed evoluzionistiche, l’antropologia non può che essere una esplorazione culturale e filosofica dell’ io e dell’altro in un gioco etico e politico di specchi riflessi, deformanti ed estranianti. Uscito dalle certezze ed ovvietà di una pratica culturale (le nostre categorie), nessun antropologo può mai tornare completamente a casa, dopo aver praticato l’etnografia. Perché, per quanto ci sforziamo di tornare a casa, dobbiamo fare i conti con i cambiamenti e le criticità epistemiche che gli altri ci hanno (im)posto, col semplice obbligo di confrontarci per comprenderli e farci comprendere. Infatti, come scrive B. Albert:
«nella migliore delle ipotesi, mentre crede di “raccogliere dati”, l’etnografo viene rieducato, dal punto di vista di coloro che hanno accettato la sua presenza per servire da interprete a favore della loro causa».
La caduta dal cielo è un libro corposo di quasi 1100 pagine, con tante note, glossari, riferimenti bibliografici che, data la mole e il linguaggio (bisogna saltare continuamente dal testo alle note, per capire le parole yanomami), può irretire il lettore., Tuttavia ritengo che quest’opera sia destinata ad occupare un posto non secondario fra i classici dell’antropologia, segnando una via diversa da quella che R. Rosaldo aveva definito la via dell’Etnografo solitario che cavalcava al tramonto in cerca del “suo nativo”, raffigurando i colonizzati come membri di una cultura armonica, omogenea al suo interno ed immutabile.
Oggi siamo tutti, in qualche modo, colonizzati e colonizzatori. Comprenderlo e rimboccarsi le maniche per assumere la nostra dose di responsabilità rappresenta l’unica soluzione per far fronte ai tanti cambiamenti socio-culturali, economici e filosofici che il Terzo millennio ci imporrà di affrontare. Ascoltarci attraverso l’altro, pertanto, costituisce il primo di una lunga serie di passi che dovremmo fare, sia come addetti ai lavori, sia come esseri umani che popolano e sfruttano la terra e le sue risorse. In fondo, recita un adagio spagnolo, “è sempre positivo andare a dormire dopo aver appreso qualcosa di nuovo”.