di Giuseppe L. Bonanno e Erasmo Miceli
Luigi Natoli, nato a Palermo il 14 aprile 1857 e morto ivi il 25 marzo 1941, famoso per i suoi romanzi “d’appendice”, pubblicati con lo pseudonimo di William Galt fu giornalista, docente di storia nei Licei, e scrisse anche di Letteratura e di Storia. Per i romanzi converrà qui ricordare in particolar modo il celebre I Beati Paoli, il suo seguito, Coriolano della Floresta (pubblicato vent’anni dopo, nel 1930), nonché Calvello il Bastardo, Cagliostro, Fra’ Diego La Matina, La vecchia dell’aceto, La principessa ladra, I Vespri siciliani e L’abate Meli. Per le altre pubblicazioni, i quattro volumi di Storie e leggende di Sicilia, La Sicilia e Garibaldi, Prosa e prosatori siciliani del secolo XVI – ricerche, Giovanni Meli – studi critici, e la Storia di Sicilia, edita da Ciuni a Palermo nel 1935.
Natoli cominciò a pubblicare sui giornali a 17 anni, ma ne aveva trentuno quando scrisse la corrispondenza, dal titolo Selinunte – che riportiamo integralmente, vista la sua non facile reperibilità – per il “Giornale di Sicilia”, allora definentesi quotidiano politico-letterario, al seguito di Paolo Vincenzo Boselli (che dal 17 febbraio 1888 al 6 febbraio 1891 fu Ministro della Pubblica Istruzione – Ministero che allora si occupava anche dei Beni Culturali – nel governo Crispi, e poi presidente del Consiglio dal 18 giugno 1916 al 30 ottobre 1917), in visita a Selinunte.
Alla visita parteciparono anche Antonino Salinas (allora ordinario di archeologia nell’Università di Palermo e direttore del Museo Nazionale di Palermo, cui oggi è intestato il Museo Regionale della stessa città) e Giuseppe Patricolo (allora direttore degli Uffici regii per la conservazione dei monumenti della Sicilia), autori, fra l’altro, di studi su Selinunte.
Lo scritto sulla visita selinuntina colpisce per la leggiadria e il colore vivo della prosa, che pur risentendo ovviamente di un lessico ottocentesco, tuttavia risulta gradevole e quasi poetico in alcuni passaggi sulla monumentalità e la bellezza delle rovine antiche. Non mancano anche le descrizioni di momenti allegri e di propaganda politica di quei tempi, come la descrizione della convivialità al momento del ristoro o l’accorrere delle locali popolazioni al passaggio degli augusti personaggi e le esibizioni di bande musicali municipali, le cui note erano rinforzate dallo sventolio di bandierine nazionali.
Davvero interessante risulta la descrizione dei templi della collina orientale che vengono però indicati come «il tempio d’Ercole, il tempio di Giunone, il tempio, il gran tempio di Apollo».
Se Natoli si riferiva alla posizione dei templi, troveremmo una attribuzione di E ad Ercole, di F a Giunone e di G ad Apollo (attribuzione che ritroviamo anche in fotografie, dipinti e resoconti di viaggio ottocenteschi); ma anche se, invece, si tien conto di una attribuzione che doveva essere già sicura di E ad Hera e quindi di un percorso anomalo F (Ercole), E (Giunone), G (Apollo), dobbiamo tuttavia specificare che oggi sul tempio F i pareri sono contrastanti, in quanto viene attribuito a Dioniso, ma anche ad Athena, e allo stesso Eracle, il tempio E è attribuito a Hera e il tempio G a Zeus. D’altro canto, l’Autore, nella Storia di Sicilia attribuirà il tempio C ad Heracle, mentre non darà nomi agli altri.
L’articolo tinteggia, inoltre, l’affresco della visione del sito archeologico nel momento in cui stava per incombere la tragica fine di Selinunte ad opera dell’esercito cartaginese: «Le colonne stese per terra come giganti spenti nel sonno dalla spada immortale di un nume, par che si rizzino, si ricompongano. Così allorquando le sette fatidiche trombe dell’Apocalisse suoneranno, i morti sorgeranno dal sepolcro. Gli enormi architravi si adagiano sopra i grandi capitelli, le metope, i triglifi, le cornici si svolgono dal masso informe o frantumato: E sull’altra collina sorge l’Acropoli, coi suoi templi, i suoi portici, le sue torri». Commovente risulta la descrizione di alcune scene della battaglia, quando anche donne e bambini cercano di difendere la città e di dare aiuto e conforto agli uomini impegnati nella difesa della stessa.
ANNO XXIX. 1a Edizione (sera) Mercoledì 16 gennaio 1889 Num. 16.
GIORNALE DI SICILIA POLITICO-LETTERARIO
pp. 1-2
SELINUNTE
Mentre scrivo queste note ho dinnanzi agli occhi la sinuosa rada, gialla per l’arena, sparsa di lentischi, di artemisie e di cerfuglioni, tra i quali sorgono silenziosi e solenni i colossali tronchi di colonne del tempio d’Apollo.
Il mare, azzurro in fondo, va degradando in un verde tenero verso la spiaggia, e qua e là è percorso da lembi purpurei. Il sole tramonta, fra un delicatissimo frastaglio di nuvole sfolgoranti come oro terso. D’intorno una gran pace; e da questa pace grande e maestosa assorgono mille memorie, mille fantasime; altri tempi, altri fasti.
Le colonne stese per terra come giganti spenti nel sonno dalla spada immortale di un nume, par che si rizzino, si ricompongano. Così allorquando le sette fatidiche trombe dell’Apocalisse suoneranno, i morti sorgeranno dal sepolcro. Gli enormi architravi si adagiano sopra i grandi capitelli, le metope, i triglifi, le cornici si svolgono dal masso informe o frantumato: ecco il tempio d’Ercole, il tempio di Giunone, il tempio, il gran tempio di Apollo… E sull’altra collina sorge l’Acropoli, coi suoi templi, i suoi portici, le sue torri. Un arciere, ritto sulle mura spia il mare lontano; di tra le feritoie appare il volto grave e pensieroso di un vecchio, nella vallata galoppano venti cavalieri selinuntini. E il sole splende vivamente sulle colonne doriche, sulle strade marmoree, sulle case di tufo; mentre le fanciulle nelle candide vesti vanno ad attingere l’acqua, e recano sul fianco delle lunghe anfore a losanga. Sulla piazza un ginnasiarca esercita una schiera di fanciulli nudi, e innanzi alla bottega di un vasaio cianciano col maestro che dipinge sopra un magnifico vaso la morte di Medusa (così come stava scolpita nelle metope) due o tre vecchi; e uno di essi con la barba candidissima racconta per la millesima volta la fierissima battaglia d’Imera, che egli, giovinetto, vide. Gli auguri, intanto, di fra le colonne di un pronao interrogano il cielo.
*
Ed ecco sull’orizzonte appaiono alcune vele; il vento le spinge; rapidamente esse ingrandiscono e aumentano… Son più di trecento triremi, son cartaginesi; antichi alleati… Le navi approdano, sbarca una moltitudine di Fenici e Numidi con elefanti, cavalli, carri e macchine; contro chi muovono? I cavalieri guardano in silenzio; poi veggono la sterminata oste drizzarsi contro Selinunte: come? perché?…
… “Quindi e i giovani, e quanti erano di robusta età preser le armi… i vecchi a procurare le cose necessarie alla difesa… le donne e i ragazzi a portare ai combattenti il cibo e le armi, né a badare più a ciò che volessero pudore e verecondia…
“Cade rovesciata gran parte di muro; ma siccome l’apertura è ingombra di rottami gli assalitori si ritirano… Dura nove giorni il combattimento con prodigi di coraggio d’ambo le parti; finalmente entrano gli Iberi pei primi.
“Le donne e i ragazzi saliti sui tetti delle case gittan sassi e tegoli sui nemici; gli assalitori si trovano gravemente travagliati, sparsi qua e là, per la grandine continua che loro piove addosso dai tetti. Dura fino a sera il combattimento; fino a che mancano le armi ai difensori… La città cade. I Selinunzii, ridottisi sulle piazze, combattono e muoiono tutti; e i Barbari corrono fra la città rubando e bruciando con le case stesse gli abitanti, e quelli che s’eran raccolti nelle piazze, senza riguardo a sesso e a età, fossero fanciulli, o bambini, o donne, o vecchi, alla rinfusa, con niun senso di misericordia passati a fil di spada…”
Ad un tratto sparisce ogni cosa; un fischio prolungato echeggia per l’aria; una fanfara intuona l’Inno reale, migliaia di voci gridano confusamente. La visione balena ancora un istante, io mi credo vestito dalla grave armatura di bronzo; temo di vedere dei Cartaginesi intorno a me, e alzo la mano per aggiustare l’elmo, ma invece urto negli occhiali!… Ah!… Ho dunque sognato?
La colpa non è mia, è del principe di Scalea che cortesemente prima di arrivare a Castelvetrano mi fece leggere in Diodoro Siculo il vivo e orribile racconto della distruzione di Selinunte; e del prof. Patricolo, che lì, sulle rovine, fra gli scavi di lui condotti con amore e con diligenza, ricostruiva l’antica città; e anche del cavaliere Favara-Scurto che – lo dico? – a tavola fra gli altri suoi vini offerse uno sciampagna siciliano, superiore a ogni aspettazione!
Ed io che mi ero messo per descrivere la gita a Selinunte fatta ieri dall’on. Boselli, in compagnia di quel perfetto gentiluomo che è il principe di Scalea, dell’on. mio amico il deputato Finocchiaro-Aprile, l’eccellente professore comm. Paternò, il caro prof. Salinas e l’accurato e bravo prof. Patricolo!… Ma, non temete, mi rifaccio subito, e comincio dal principio.
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Il convegno era per le sei e mezzo del mattino, alla stazione Lolli: e all’ora precisa infatti giunse l’on. Boselli e si montò sul treno, che era guidato dall’ispettore stesso delle ferrovie, cav. Della Rocca; una cortese e gentile persona. Albeggiava: le prime stazioni sonnecchiavano; il treno volava – come non è mai nelle sue abitudini. – Si viaggio in silenzio fino a Carini; qui musica, bandiere, autorità, urli, e suon di mano con elli: il ministro rimonta sul treno e via. Si giunse a Castelvetrano, che erano le dieci circa, senza alcun altro incontro.
– Possibile? io mi domandavo – che queste popolazioni di solito così pronte all’entusiasmo non si lascino vedere?
Ma la risposta venne subito: il passaggio si compiva nel più grande incognito…. per uno scherzo del caso. A Castelvetrano però la folla era enorme; io non ho contato nemmeno le bandiere; ma ho ammirato, per contrario gli elmetti rossi dei concertisti municipali, elmetti sormontati da un gran pennacchio bianco. Un esercito montato con un copricapo simile sarebbe un vero successo.
Parlando dell’accoglienza indescrivibile, entusiastica di Castelvetrano, giustizia vuole che in prima riga metta il sindaco, il cav. Saporito e la Giunta, tutte persone compitissime, che seppero fare gli onori di casa, moltiplicando e provvedendo a tutto. E una parola meritano anche le guardie municipali, le quali vero è che avevano un bel pennacchio giallo, ritto come una panocchia, ma in compenso regalavano scappellotti ai monelli, ed erano scappellotti… selinuntini!
Se io esprimo la mia riconoscenza a questi scappellotti, ne ho le mie ragioni; perché i sullodati monelli, cacciandosi tra la folla, distribuivano senza volerlo, tale serie di pedate sulle calcagna di chi andava innanzi a loro, che io ci ho perduto il conto.
A Castelvetrano c’è un circolo messo con molta eleganza, – dove si fermò per un minuto l’on. Boselli – c’è un teatro, ancora in costruzione, tutto in muratura; graziosa e ben condotta opera del prof. Patricolo; c’è poi per tutto il paese una mescolanza curiosa di medievale e di moderno, un colore di antico che – a uno che non c’è mai stato e che è abituato allo sfolgorio inelegante della architettura contemporanea – fa una gradevole impressione.
Ma le visite erano riserbate al ritorno: ora pungeva il desiderio di vedere Selinunte meta del viaggio…, e anche pungeva l’appetito, che l’ora del tempo, la dolce stagione, il viaggio avevano sviluppato in ciascuna alma presa e gentil!….. ventre.
La via che conduce a Selinunte è lunga, ma è bella; corre fra campagne or fertili, di ulivi e di aranci e fra pianure immense, dove fra breve ondeggeranno oceani di spiche. Zabare grandissime; fichi d’india e rovi assiepano la via; in fondo alla quale, di là da colline verdeggianti si stende il mare che al sole splende come una fascia di argento forbito.
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Che cosa io dirò delle meravigliose rovine di Selinunte? Nulla… per la semplice ragione che dopo il primo stupore si ridestò la fame nelle interne viscere; e la fame e la sete offuscano la intelligenza e confondono le memorie storiche e l’archeologia: talché in quel momento, se debbo dirla, i pezzi di colonna mi sembravano immense forme di cacio olandese o pecorino!…
Della stessa opinione erano, credo, tutti, anche l’onorevole Boselli; cosicché per una tacita corrispondenza di sensi più o meno amorosi, ci troviamo tutti nella casa dei viaggiatori dove ci attendeva la ridente e consolante vista della mensa apparecchiata.
Dicono che far vedere a tavola i personaggi di un racconto, di un romanzo, sia una cosa volgare – sebbene gli eroi e i numi di Omero banchettavano allegramente. Per dir la verità vedere una eccellenza, un commendatore esercitare i denti e le mascelle, è una cosa molto umana; ma intanto, fino a che non si inventerà il vero uomo-Tanner bisogna rassegnarsi anche a questa volgarità di una bella tavola, una eccellente colazione, una schietta e cortese ospitalità e tre qualità di vini squisiti, quelli del cav. Favara, i quali debbono essere tre specie di nettari le cui ricette invenne il prof. Patricolo fra gli scavi di Selinunte.
Dopo l’asciolvere si fece il giro delle rovine. La parola accurata e sapiente del prof. Patricolo riedificava la città. Questa era una torre; qui le ultime mura; là la seconda cerchia; più in là una torre esterna per difendere le mura dell’acropoli. Questo è un cunicolo, o passaggio sotterraneo…
Il principe di Scalea, che io avevo ascoltato in occasioni politiche freddo e compassato oratore, qui diventò poeta:
– Questo cunicolo – mi disse – con le Epipole di Siracusa sono i soli, gli unici modelli dell’architettura militare greca, e sono di grandissima importanza per la conoscenza della strategia antica. Quando saranno compiuti gli scavi di questo cunicolo, che è il più interessante, noi avremo reso alla scienza un servigio altissimo.
L’on. Boselli seguiva con attenzione la parola del prof. Patricolo e del prof. Salinas, ed esclamava:
– Magnifico! Non avevo mai veduto nulla di simile.
E l’on. Boselli ha ragione; le rovine di Selinunte hanno qualche cosa di particolare, di distinto, che sbalordisce e nel tempo stesso innamora. E ciò spiega perché l’indole motteggiatrice del principe di Scalea in mezzo a quegli avanzi di una città distrutta quindici secoli addietro, diventi un’indole artistica.
Alle sette siamo già di ritorno in Castelvetrano, incontrati a mezzavia dalle società, dagli alunni, dalla rappresentanza delle scuole di Mazara; poi dal prefetto di Trapani, da tutto il popolo.
E qui inni, applausi, spintoni e scappellotti… A Castelvetrano l’on. Boselli visitò le scuole, dove è però notevole un piccolo museo che conserva molte ceramiche, e una statuetta terzina di bronzo, rappresentante un Apolline o un Bacco; pregevole perché appartiene al periodo arcaico dell’arte greca.
La folla accompagnò il ministro fino alla stazione, e attese applaudendo che il treno partisse. Ma la festa non era finita. La voce del passaggio del ministro si sparse per tutta la linea; e al ritorno, graditissima sorpresa, in tutte le stazioni trovammo schierati i fanciulli delle scuole con torce e bandiere, musiche, autorità; una qualche cosa di fantastico e di commovente per la spontaneità dell’improvvisazione. Lo spettacolo più grazioso però fu a Partinico, dove la stazione era parata a festa, illuminata alla veneziana, e dove l’accoglienza fu più espansiva e più cordiale che mai.
A Isola delle Femine poi, schierati lungo la stazione, c’erano le bambine…
Tutta quella povera gente, scalza, lacera, venuta spontaneamente a salutare il ministro del Re, l’anima, l’essenza della patria, la forza e l’avvenire, mi commosse e….
E arrivai a Palermo che ci volevano tre quarti alla mezzanotte.
Luigi Natoli
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Dopo l’articolo del 1889, Natoli tornerà a parlare di Selinunte all’interno del suo romanzo più famoso, nel 1909/1910, poiché fa sbarcare donna Gabriella e Violante in un punto remoto della spiaggia meridionale della Sicilia. Quivi «si vedevano sparsi per terra grandi massi e tronchi di colonne smisurate, sui quali sorgeva ancora, come un naufrago che stenda la mano oltre l’onda che gli sovrasta, una colonna mozza. Erano gli avanzi di Selinunte, in gran parte ancora sepolti sotto il terriccio».
Il racconto si situa, però, nel 1714, secondo anno della dominazione sabauda, quando era viceré di Sicilia il conte Annibale Maffei, mentre il re Vittorio Amedeo di Savoia era già tornato nella sua Torino.
Dell’anno in questione, troviamo traccia nella Storia di Sicilia dello stesso Natoli soltanto alla pagina 228 dell’edizione seconda, con la citazione della riunione del Parlamento siciliano nel febbraio e la nomina del viceré il 3 settembre 1714.
Non entriamo, in questa sede, sulle considerazioni di Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere, il III nel 1930 e il IX nel 1934/35, né nella questione dell’appartenenza del romanzo I beati Paoli al genere “romanzo storico” o piuttosto al genere “feuilleton”, come vuole Umberto Eco,. nell’introduzione all’edizione del 1971, in quanto rivolgiamo l’interesse alla descrizione di Selinunte.
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Luigi Natoli (William Galt), I Beati Paoli. Romanzo storico siciliano
vol. II – parte III – cap. IX, pp. 454-455
S.F. Flaccovio, Palermo 1981 (prima edizione 1971)
(apparso a puntate sul Giornale di Sicilia dal 6 maggio 1909 al 2 gennaio 1910, poi pubblicato in 2 voll. dallo stesso “Giornale di Sicilia” nel 1910)
Ambientazione: Sicilia, 1698-1719
1714
Il giorno dopo donna Gabriella e Violante sbarcavano in un punto remoto della spiaggia meridionale, in un sito sabbioso, che s’elevava in colline giallognole, qua e là sparse di lentischi e di palme da scope, isole verdi in un mare giallo. La spiaggia era deserta, né era segnata da alcun sentiero. Cinque uomini sbarcarono con le donne e se le posero in mezzo; avevano barbe e parrucche posticce, che li rendevano irriconoscibili; uno solo teneva la maschera sul volto, ed era il capo con cui donna Gabriella aveva parlato.
Salirono lentamente la collina, sulla cui sommità si vedevano sparsi per terra grandi massi e tronchi di colonne smisurate, sui quali sorgeva ancora, come un naufrago che stenda la mano oltre l’onda che gli sovrasta, una colonna mozza. Erano gli avanzi di Selinunte, in gran parte ancora sepolti sotto il terriccio. Presso quelle rovine incontrarono un vetturale che si traeva dietro, legati l’uno all’altro, cinque cavalli e due mule, bardati e sellati.
Donna Gabriella e Violante furono fatte montare sulle mule, e poste in mezzo agli uomini che già erano in sella, e la comitiva, guidata dal vetturale si avviò. Tutto intorno era una campagna uniforme, senza vegetazione, deserta, che non finiva mai. Lontano lontano, si disegnavano cerulei i dorsi dei monti, dietro poggi e colline aride, o coperte di erbe selvatiche e di lentischi. Incontrarono dei pastori che appoggiati al bastone e sonando uno zufolo di canna sorvegliavano le pecore sparse fra le erbe e i cespugli: lo scalpitìo faceva loro voltare il capo: essi riconoscevano due dame e si sberrettavano, immaginando che fossero due signore che si recassero nelle loro terre, accompagnate da campieri. Fu il solo incontro; le terre erano deserte: non una fattoria, non una casa, non un pometo, non una cisterna. Il feudo, il latifondo, in tutto il suo squallore.
Sopra una collina v’erano le torri di avviso costruite fin dal ‘500 per tutto il litorale, che servivano principalmente per avvertire l’avvicinarsi di galere barbaresche.
Cavalcavano in silenzio per quella ampia solitudine; al vetturale certo quel silenzio parve opprimente, perché cominciò a cantare una di quelle patetiche arie siciliane, che paiono gemiti di passione e di dolore.
Quel canto scendeva nel cuore di Violante come un invito a piangere: in quelle solitudini, in mezzo a quella gente, dinanzi all’ignoto della sua sorte lontana, in una regione ignota che poteva essere per lei così la Sicilia come l’Africa, priva di un cuore che la intendesse, di un seno sul quale rifugiarsi, accanto a quella matrigna che le dava soggezione, ella sentiva sempre più trasportarsi a Blasco, e nella visione di quella immagine provava come un sollievo.
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Nella Storia di Sicilia, Natoli cita più volte Selinunte, dalla pagina 41 alla 60, nei capitoli dedicati alla presenza dei Greci in Sicilia. L’opera pubblicata nel 1935, e poi in seconda edizione postuma nel 1979, era stata in origine iniziata con l’intenzione della pubblicazione presso Remo Sandron, ma la morte dell’editore aveva interrotto il progetto, poi ripreso da Ciuni.
Riportiamo i brani specificamente dedicati a Selinunte, seguiti da alcune nostre considerazioni.
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Luigi Natoli, Storia di Sicilia, seconda edizione a cura e con nota introduttiva di Massimo Ganci, Flaccovio editore, Palermo 1979, edizione originale Ciuni, Palermo 1935.
Pag. 43
Nel 628 quelli [i colonizzatori] di Megara-Iblea, spingendosi verso occidente, sulla costa meridionale della Sicilia, fondarono Selinunte, sulla riva del fiume da cui prese il nome. Avevano così i Megaresi sulla stessa costa due città, Gela e Selinunte; e da questa si spinsero alle falde del Monte Kronios (S. Calogero), fortificandovi le Terme dette Selinuntine (Sciacca), e mandarono una colonia ad Eraclea.
Natoli accetta qui la versione di Tucidide (VI, 4, 2), allora ritenuta più veritiera, della fondazione di Selinunte nel 628 a.C., ma poi non segue lo stesso Tucidide (VI, 4, 3), che vuole Gela di origine greca, ma fondata nel 688 a.C. da una colonia di Rodii e Cretesi, guidati rispettivamente da Antifemo di Rodi ed Eutimo di Creta.
Oggi, inoltre, si è più propensi ad accettare la datazione fornitaci da Diodoro Siculo (651 a.C.), ovvero a ritenere che la fondazione di Selinunte abbia avuto vari momenti.
Pag. 52
Questo secolo [il V a.C.] segna il pieno e perfetto indirizzo dell’architettura sacra: e diciamo sacra, perché di questa sola avanzano mirabili testimonianze; scarse sono quelle dell’architettura civile, e solo in qualche avanzo di fortificazioni. È però ovvio che se progredì quella, questa non poté non risentirne gli effetti in un maggior gusto; ed è ovvio ancora, che la pittura e la scultura, così intimamente connesse con l’architettura sacra, dovettero anch’esse raggiungere un grado elevato di bellezza. Questo anche dai profani può essere costatato guardando le metope selinuntine.
I tempii di Selinunte appartengono a due periodi: al VI e al V secolo a.C. Il più antico sembra quello segnato C, che si crede dedicato a Heracle, perché dalle metope trovate, due rappresentano fasti del dio. Come quasi tutti i tempii di Sicilia, e di quello stile dorico particolare, che fu detto appunto dorico-siculo. Vi è inoltre una certa rozzezza e asimmetria: come si può vedere dalle metope, le cui sculture hanno uno spiccato carattere arcaico. Il rosso e il nero erano i soli colori adoperati nella decorazione di queste sculture e nella trabeazione. [...]
Molto più progrediti sono i tempii del secondo periodo, indicati dagli archeologi con le lettere A, B, E, C; non solo pei rapporti tra le varie parti e la misura delle colonne, ma ancora per la decorazione, che reca tracce di stucco, e per l’uso di altre tinte nella colorazione come il celeste e il grigio; oltre il rosso e il nero. Ma è nelle metope che può vedersi il grande sviluppo preso dalla statuaria: lo studio del corpo, quello delle pieghe, la espressione dei volti hanno quel carattere di bellezza che diede alla scultura greca il primato.
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Oggi il tempio C si ritiene dedicato ad Apollo.
La seconda citazione di C è un refuso, probabilmente al posto di F.
Per i colori, invece del grigio, sarebbe stato più opportuno citare il giallo.
Pag. 58
Nella primavera del 409 a.C. erano già pronte per la spedizione sessanta navi da guerra, mille e cinquecento da trasporto, e un poderoso esercito, con macchine e materiale abbondante. A capo della spedizione era uno dei due re, Annibale, nipote di Amilcare. – Sbarcato, piantato il campo, ritirate le navi, Annibale, impadronitosi del castello sul Mazaro, cinse d’assedio Selinunte. Otto giorni durò l’assedio; nel qual tempo i Selinuntini mandarono corrieri ad Agrigento, Gela, Siracusa per aiuti; e tardando questi, Selinunte, nonostante la eroica difesa, cadde; sedicimila dei suoi uccisi, cinquemila prigionieri, altre migliaia fuggiaschi, la città saccheggiata e data alle fiamme. E allora giunsero ad Agrigento le schiere siracusane! All’invito di mandare liberi i prigionieri e rispettare i tempii, Annibale si oppose.
Distrutta Selinunte, Annibale corse sopra Imera, per vendicare l’onta patita dall’avo settantun anni prima.
Il brano è evidentemente tratto da Diodoro, XIII, 59.
Pag. 59
In questo tempo ritornava in Sicilia Ermocrate. Col denaro avuto dal satrapo Farnabazo, assoldata una schiera di mille uomini, sbarcò a Messana, sperando di ritornare in patria. Ma non ottenuto il richiamo, divisò meritarselo; e rafforzato da Imeresi, assalì i presidii cartaginesi, devastò le campagne di Motye e di Panormo, rialzò le mura di Selinunte.
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Tre momenti della vita di un Autore, a distanza di anni: 1889, 1910, 1935. Una Selinunte raccontata da un cronista, poi da un romanziere, infine da uno storico. Tre descrizioni di Selinunte nel fluire tempo e fatte da diversa prospettiva, ma dallo stesso scrittore.
Selinunte, luogo, di storia, di archeologia, di cultura, di natura di turismo; Selinunte, che ancor oggi è poco conosciuta nel mondo e soltanto in parte scavata e studiata; Selinunte, una città grande che merita maggiore interesse e rispetto di quanto le siano dati oggi, città che era più considerata dalla politica e dagli studiosi negli anni di cui ci siamo occupati.
Divulgazione necessaria