di Silvia Pierantoni Giua
«Me lo ricordo come se fosse ieri», mi dice Ahmad al bar Italia di Rapallo. Ci conoscemmo nel 2008 quando decisi di partire per un breve viaggio a Damasco di poco più di un mese per approfondire l’arabo all’Università di Lingue dove svolgono dei corsi suddivisi in vari livelli. Ahmad mi aiutò nell’organizzazione del viaggio e si rese disponibile nell’eventualità avessi avuto bisogno di ospitalità nella casa dei suoi genitori a Harra in provincia di Daraa.
Ecco. Parleremo di questo seduti in quel Caffè rapallese: della Siria e della scacchiera di interessi internazionali in cui si trovava prima dello scoppio della guerra civile del 2011.
Il primo passo è stato proprio quello del racconto di casa sua o di ciò che ne resta, dove ci vive in parte ancora la sorella, per poi passare a quel “ricordo” che tanto gli è rimasto impresso.
Ahmad è un uomo sulla cinquantina, pochi capelli e corti, due occhi di un colore indefinibile, tra il verde bottiglia, il grigio cenere e il castano tartaruga. Si vede quasi sempre vestito da lavoro, in bianco: pantaloni leggeri, canottiera e maglietta a maniche corte di cotone. Nonostante non prenda mai il sole, perché sempre chiuso in negozio, ha la carnagione scura, come abbronzata; chissà, forse son quei pochi raggi di sole che prende quando esce a fare qualche commissione e/o a fumare le sue tante sigarette nei piccoli ritagli di tempo.
Sul carattere di Ahmad, parlano queste righe in cui emerge la sua forza e il suo coraggio nel rilasciarmi questa intervista, nel parlare della sua famiglia e della sua casa, mai perdendo, o quasi, quel sorriso così bello che lo caratterizza.
Infatti è lui a darmi forza quando di fronte alle mie emozioni mi conforta, mi mette una mano sulla spalla, mi offre acqua, caffè e sigaretta e mi strappa un sorriso.
«Era il 1991 ed ero studente all’Università di Ingegneria di Damasco – mi dice Ahmad – Stavo dirigendomi all’ingresso quando due tizi mi chiamarono come se fossi un cane: “Hey!”; e ancora “hey tu! Vieni qua!”. Io mi avvicinai e gli dissi: “ma chi siete scusa, se non sapete il mio nome al limite potete chiamarmi dicendomi “senti ragazzo, puoi venire un attimo?”».
Erano le guardie della Città Studi in borghese dove Ahmad abitava durante quell’anno di corso che lo avevano fermato in vista delle elezioni.
«Voterai il presidente non è vero» mi chiesero. «Certo! – risposi – Come ogni anno!» continua a raccontarmi. Ovviamente non era vero. Quella volta, però, vicino alle firme prendevano l’impronta della persona fatta con il sangue.
«Ti rendi conto?» mi dice Ahmad ancora stupefatto dalla rabbia. Poi continua il racconto:
«Mi mostrarono un ago e io gli dissi che non avevo intenzione di prendermi alcuna malattia usando lo stesso strumento che avevano utilizzato altre persone; così uno dei due si bucò il dito e mise la sua impronta accanto alla mia firma. Da quel giorno giurai a me stesso che, una volta laureato, sarei andato via dalla mia Terra e non vi sarei più tornato fino a quando ci fosse stato quel Governo. Ed eccomi ancora qua, in Italia, dove arrivai a Roma nel ’94 con il visto prima di essere costretto ad arruolarmi nell’esercito. Da lì dovevo andare a Bologna o a Milano dove avevo alcuni contatti ma, una volta a Milano, dovetti arrangiarmi e prenotarmi un hotel. Ora sono più di 22 anni che vivo qui di cui venti a Rapallo lavorando come pastaio».
«Lo so, lo so – rispondo io – le tue trofie al pesto le conosco bene!».
Ahmad infatti mi aiutò anche durante la mia tesi di triennale a tradurre delle poesie inedite di Abu Nuwas dall’arabo all’italiano. Insomma, è un’amicizia che dura da dieci anni ed oggi ci ritroviamo a parlare della sua splendida casa, in cui non fui mai ospitata -poiché trovai altra sistemazione- di 700 metri quadrati, ormai completamente distrutta dai soldati dell’esercito di Assad.
Ed è proprio dall’uscita del suo pastificio, dopo aver comprato degli gnocchi e dell’ottima salsa di pomodoro che, con il cuore piccolo, gli chiedo quasi tremante, come stessero i suoi e cosa fece suo padre quando si trovò la casa per la quale aveva investito i risparmi di tutta una vita completamente distrutta e Ahmad mi risponde «niente! – disse che la vita era anche questo!». Io sgrano gli occhi e gli chiedo: «e dove vive adesso?». «In Germania, con mio fratello e suoi splendidi nipotini», risponde sorridendo.
È in quel momento che mi viene l’idea di chiedergli un’intervista ed eccoci in quel Caffè a parlare della Siria e di quando Hafad (al potere dagli anni ’70), il padre di Bashar Assad, altrettanto carnefice, criminale e corrotto, era alla guida del Paese ed il figlio era a capo dell’esercito.
«Tanto per dare un’idea di chi fosse Assad padre – continua a raccontare Ahmad – durante la scintilla prima della rivolta, agli inizi degli anni ’80 ad Hama’, egli circondò la città e in una notte fece uccidere tutti gli abitanti, gli stessi suoi cittadini, ovvero più di 40 mila persone».
Sempre attraverso la testimonianza di Ahmad, riporto ora invece un esempio di corruzione.
Siamo nel contesto della Guerra dell’ottobre del ’73. L’esercito egiziano della parte del Sinai e quello siriano della parte del Golan dichiararono guerra a Israele e la persero: Sadat firmò la pace mentre Hafad Assad la “fece sporca”, facendo finta che la guerra stesse continuando mentre, in realtà, vendette il Golan a Israele. L’esercito iracheno che, nello specifico, si era mobilitato per aiutare la Siria, bombardò invece inconsapevolmente i siriani traviati dall’indicazione errata di Assad, probabilmente già d’accordo con Israele.
I soldi ricavati dalla “vendita”, furono dati in parte a Rifat, fratello di Assad padre, il quale negli anni ’80 era il Capo della Guardia Repubblicana, in cambio di un tacito “esilio” in modo che non potesse sviluppare eventuali intenzioni di rivolta per prendere il potere, nelle proprietà comprate in Europa, in particolare in Spagna, Montecarlo, Francia ecc.
Di che persona fosse Assad padre ne parlò la spia israeliana Cohen che, intorno agli anni ’60, era inserito molto bene nel Governo siriano in quanto amico di Assad, a quei tempi grande generale dell’esercito. Chissà fosse tutta una messa in gioco o un gioco tra le parti, sta di fatto che, comunque siano andate le cose, Assad lo tradì: lo fece arrestare e uccidere, ovviamente solo una volta averlo usato.
Tornando ai bombardamenti nella città di Hama’ degli anni ’80, a partire da quel momento, il regime acquisì più forza e durante un ventennio governò duramente il Paese.
Negli anni 2000 Hafad Assad morì di tumore e Assad figlio prese il potere non avendo alcuna idea di politica. Egli infatti stava studiando come oculista a Londra, dove conobbe la moglie Asma’, morta qualche giorno fa di tumore al seno.
Anche su questo Ahmad mi esprime la sua perplessità, ovvero sul fatto che Assad non abbia le mani sporche circa la sua morte e, fosse per lui, chiederebbe agli inglesi, in quanto ella cittadina britannica, di verificare il motivo del decesso.
Durante il regime di Bachar, egli diede un’apparenza di “Governo repubblicano” al Paese per rispettare gli interessi della politica internazionale ma, ovviamente, era sempre obbligatorio votare il Presidente e la repressione, i controlli e la corruzione in ogni ambito (Ambasciata, Tribunale, Università ecc.) erano all’ennesima potenza. Persino in aeroporto, ad un cittadino comune come lui, Ahmad, hanno chiesto varie volte una mancia per non controllare le borse durante i viaggi che fece tra il ’97 e il 2010, anno in cui Ahmad riaffermò di nuovo “di fronte alla tomba di sua madre” di non entrare mai più nel suo Paese fino a quando ci fosse stato questo regime carnefice almeno altrettanto quanto quello del padre.
Arriviamo ora al 2011.
Di quella che voleva essere una “Primavera” siriana ne hanno parlato e ne parlano in tanti. Non credo di poter aggiungere molto se non dire ciò che penso, ovvero che nacque come una manifestazione pacifica e spontanea del meraviglioso popolo siriano, trasformata da Assad e dagli interessi internazionali in quella che è attualmente la guerra più sanguinaria del nostro secolo e per la quale spero che il Presidente e i criminali come lui possano sopravvivere in modo da poter essere esposti alla Giustizia del Tribunale Internazionale di Ginevra per i processi contro i crimini di guerra.
Come scrissi nella mia tesi di laurea magistrale L’elaborazione del lutto, un viaggio nelle società arabo-Islamiche [1], la psicoanalista iraniana Gohar Homanayounpour dice «non vi è alcun dubbio: il dolore è dolore ovunque, né ho mai sentito di un cancro o di una radiografia, in Oriente o in Occidente, che diano conto della nazionalità, religione, lingua o cultura del paziente» [2]. La sua elaborazione, ovvero il suo effettivo superamento e non una rimozione, un aggiramento del problema o un mero conforto, bensì una ri-stabilizzazione dell’equilibrio psichico, «passa attraverso un processo di introiezione dell’oggetto perduto nell’Io, ovvero di assimilazione delle qualità dell’oggetto che però, con il tempo, dovrà recuperare la propria in-dipendenza» [3].
L’elaborazione del lutto riconsegna al soggetto una graduale ri-accettazione della realtà, la stessa che gli permetterà di tornare ad una condizione di normalità. Questo processo non è affatto scontato né semplice e anzi comporta un grande dolore. La religione offre conforto, ad esempio nell’idea di Paradiso, ma il soggetto deve ugualmente far fronte alla sofferenza che si trova a provare, e quindi necessariamente affrontare e superare un’assenza alla quale, religione o no, non è facile attribuire un senso.
Quello che c’è di uguale è l’essere umano, e lo si vede nel ripetersi della storia e delle guerre che da sempre nel rincorrersi si ripresentano diverse ma uguali, con le stesse modalità carnefici e dove a rimetterci è solo il popolo a discapito degli interessi internazionali.
Nonostante le macerie che si possono vedere dalle immagini da me riprese nel 2008 sul Golan, si può comunque scorgere la vita che si intravede attraverso un raggio di luce in questo piccolo scorcio tra le rovine, natura che ci insegna come noi siamo un tutt’uno nell’universo.