L’Arcadia, intesa sia in senso strettamente letterario, sia in senso più genericamente culturale, è stata sempre oggetto di riserve da parte degli addetti ai lavori. Le riserve riguardavano (e riguardano) un certo sguardo di tipo urbanocentrico rivolto verso una realtà altra, che lo sguardo distorceva e ricomponeva in una prospettiva che poco aveva a che fare con la realtà del vissuto delle comunità pastorali. Si tratta di una “ocularità” che struttura la “realtà altra” secondo parametri consoni e comuni allo sguardo “egemone”, riconducendo a un logos condiviso, e certamente parziale, ciò che altrimenti sfuggirebbe in una “selva selvaggia e aspra e forte”. Il mondo pastorale, da sempre, almeno da quando l’uomo si è stanzializzato, organizzando la propria vita in centri urbani strutturati e retti da leggi condivise, è stato visto con diffidenza, un misto di attrazione e repulsione, ammirazione e condanna salvo a incasellarlo in una ideologia idilliaca, appunto arcadica, consona a certi stili di vita cittadini.
Il pastore (bovaro, ma soprattutto pecoraio) era pur sempre e comunque l’altro, una figura liminare, incarnando ora il pericoloso e il marginale, ora colui che più di ogni altro era vicino allo stato di natura, a quel mondo mitico, cui si aspirava. Bisognava disinnescare il pericoloso, stemperare la diversità antropologica degli statuti pastorali, in conflitto spesso con le leggi della urbs. Si elaborano, così, concetti quali semplicità, naturalezza, stato primigenio, e si adattano alle comunità pastorali, che, in società sempre più complesse, costituiranno quella riserva cui attingere in letteratura, come nella musica, nelle arti come in vari aspetti della vita materiale (l’alimentazione) tutti organizzati attorno a su un solo tema: la vita semplice del pastore così vicina allo stato di natura.
Anche l’uomo moderno non è immune da questo processo distorsivo e insieme costruttivo, poiché da esso nasce anche lo sguardo antropologico, salvo restando che quest’ultimo ha armi di analisi più scaltrite dalla ricerca sul campo e dal contatto con gli attori e gli agenti. É lo sguardo di un Pitrè o di un Giuseppe Cocchiara, di un Minà Palumbo, come di Antonino Uccello. É lo sguardo di etnografi, di antropologi e di linguisti di più recente formazione, come Mario Giacomarra e Roberto Sottile, studiosi che hanno indagato la regione madonita o come quanti nella straordinaria area del Messinese hanno organizzato strutture museali che quel mondo cercano di ricondurre ad una esatta (nei limiti del possibile) conoscenza e comprensione. Sono ricercatori come Mario Sarica, o Sergio Tedesco, Nuccio Lo Castro, Riccardo Gullo, Antonello Pettignano, Franz Riccobono. Le collezioni di alcuni di questi studiosi hanno dato luogo ai musei etno-antropologici di Mistretta o di Gesso (Messina), o allo stesso Museo di arte popolare di Taormina.
Ma questi musei demoetnoantropologici sono preceduti da intensi studi sul mondo agropastorale che a partire dagli anni ’70 hanno visto protagonisti ricercatori ed esponenti del mondo accademico, docenti dell’antropologia culturale intesa in tutte le sue declinazioni disciplinari: ricordiamo su tutte (ma per la verità è rimasta l’unica) la Scuola palermitana e l’alto magistero di Antonino Buttitta, dal cui insegnamento sono scaturite le prime serie ricerche in particolare sulla cultura agropastorale, vista non più “idillicamente” con l’occhio del “cittadino in villa” (per parafrasare il titolo di un celebre trattato del Tanara), ma nella sua realtà concreta, nell’articolarsi di quella che da allora (il convegno di Palermo del 12-15 gennaio 1978) si chiamerà cultura materiale (polemicamente certo, ma efficacemente). Al convegno diede il suo significativo apporto Giulio Angioni con una memorabile relazione che fissava le coordinate della nuova antropologia del lavoro: Sul nesso manualità-intellettualità nel processo lavorativo e sulla necessità della sua storicizzazione per lo studio delle varie forme di cultura materiale. Negli stessi anni Uccello dalla lontana Palazzolo Acreide farà conoscere la cultura casearia iblea con uno studio puntuale ed esemplificativo dal titolo che era tutto un programma Bovari, pecorai curatuli, di cui protagonisti sono appunto allevatori e pastori che parlano del loro lavoro, del loro mondo: una novità assoluta, se si pensa che fino ad allora dei pastori si era sempre scritto per valorizzarne gli esiti di certe produzioni afferenti all’arte popolare: i manufatti intagliati nel legno, le dipinture dei collari per bovini, le incisioni sui corni, l’intreccio dei cesti. Lo studio di Antonino Uccello si accompagna ai tanti contributi che sono venuti negli anni da parte dei tanti allievi di Buttitta che hanno correlato la ricognizione dei contesti economici, delle tecniche e dei cicli di lavorazione a quella dei simboli, delle ritualità e delle tradizioni orali.
Ora Mario Sarica tenta una strada “nuova”, un esperimento d’azzardo e di provocazione: far interagire la scuola tra la lettura dei classici “pastorali”, gli Idilli di Teocrito, e lo studio delle realtà di vita rurale delle popolazioni dei Nebrodi e dei Peloritani. L’occasione è un progetto che rientra nell’ambito della “Buona Scuola” e dell’Alternanza Scuola-Lavoro, messo in cantiere nell’anno scolastico 2017-2018 dall’Istituto Istruzione Superiore “La Farina-Basile” di Messina, che riunisce il “Liceo-Giannasio Statale Giuseppe La Farina” e il Liceo Artistico Statale “E. Basile”. Il progetto rivela la sua natura già dal titolo Teocrito Graphic Novel: Tirsi o il Canto, il futuro ha radici antiche, che è poi lo stesso del volume che cerca di raccogliere, nei limiti del possibile naturalmente, un’esperienza didattica che certamente è impossibile da rendere in una pubblicazione. Impossibile credo sia rendere il clima che si è creato, l’empatia che ha attraversato tutti, docenti e allievi, tutor e soggetti ospitanti-partner, come l’associazione culturale Kiklos, o l’illustratore e progettista grafico S. Spadanuda, o il Museo dei Peloritani, o i tanti bravissimi docenti impegnati al di fuori dei normali orari scolastici.
Il cuore del libro è la Graphic Novel, un fumetto in parole semplici, allestita dai ragazzi delle due scuole, che hanno messo in campo le rispettive competenze: filologiche e artistiche. Ed ecco che questi ragazzi del Duemila immaginano il dipanarsi di una “storia”, percorrendo a cavallo di scooter, come moderni centauri, le strade “misteriose” di un bosco fitto dei Peloritani messinesi. Si perdono nel bosco mentre scende il buio. E già qui, in questo perdersi nel bosco, vi sarebbe materia di riflessione: «Perdersi sui Peloritani e ritrovarsi lungo gli antichi e mitologici sentieri pastorali», come si legge nell’occhiello sottotitolo alla pubblicazione. Perdersi è come sognare: quante storie iniziano da un sogno; ma quanti racconti fiabeschi si dipanano a partire dal tema del perdersi in genere in un bosco? Un processo di iniziazione dunque quello dei tre centauri, due maschi e una femmina, i cui nomi, Filippo, Riccardo ed Andrea, sono emblematici di tre tipologie di ragazzi di oggi, lo studioso saggio, di origini pastorali, il benestante d’azzardo, non a caso bello e biondo, la ragazza il cui aspetto rivela il carattere: capelli rossi, lentiggini, una femminista “anideologica”, un “maschiaccio” direbbero i più.Si perdono e scoprono in una grotta – e qui il topos letterario è abbastanza esplicito – un manoscritto. Ed ecco un altro topos fiabesco, la scoperta di un tesoro di conoscenza, che apre un mondo e collega il presente al passato.
Il passato è a sua volta sia l’Idillio di Teocrito in lingua greca dorica, che la sua traduzione in siciliano antico fatta da un pastore peloritano che risveglia quel filo memoriale in uno dei ragazzi, quasi a sottolineare che solo la memoria è in grado di raccordare il passato remoto col passato prossimo: la letteratura classica e la memoria dei luoghi ancora pulsanti di vita pastorale, fatta di uomini vestiti di pelle, che sotto l’olmo intonano canti (la cantata dei pastori natalizia non ha quest’origine?), o modulano straordinarie melodie alla zampogna o al flauto di Pan.
Qui la passione di Mario Sarica per la musica popolare siciliana e per quella pastorale rafforza e sostanzia l’approccio multidisciplinare o, per meglio dire, metadisciplinare alla materia narrativa antica. E non poteva che essere così poiché, come scrive Fabietti, «pensare antropologicamente è una prerogativa di chi possiede delle competenze che solo in parte possono essere acquisite al di fuori della tradizione degli studi antropologici». Tali competenze sono radicate anzitutto nell’esperienza etnografica, nella ricerca sul campo. Altre sono acquisite mediante lo studio, la discussione e l’applicazione di ipotesi e teorie che, per quanto in contrasto o in competizione tra loro, fanno capo a un certo numero di assunti fondamentali.
Tesi, posture, visioni, orientamenti che caratterizzano lo stile di pensiero proprio dell’antropologia. L’antropologia è in definitiva una sorta di azzardo, una anomala roulette in perenne moto: mentre lo studioso cerca di azzeccare i numeri, la ruota continua a girare. La capacità e l’abilità dell’antropologo sta in questo sguardo “circolare”, che è poi la prospettiva olistica che si coglie nel libro, in grado di aprire le porte a un concetto assai articolato (e diverso) della cultura, legato indissolubilmente al “sapere delle cose”, al “potere delle cose”.
Ecco allora la novità che il libro introduce e che certo un liceo classico o artistico mai si sarebbe sognato di svolgere: il tema etnografico. Come si legge nella scheda metodologica, esso consiste nello «Osservare e isolare le sequenze narrative che attengono a specifiche forme di vita pastorale, che emergono dalle collezioni etnografiche del Museo Cultura e Musica popolare dei Peloritani di Villaggio Gesso. Si farà specifico riferimento alla coppa premio, quindi ai manufatti lignei della tradizione pastorale, mettendola in relazione al repertorio iconografico colto vascolare di età ellenistica siciliota».
Far dialogare metodologia antropologica e strumentazione didattica è sicuramente uno degli obiettivi dell’operazione che i curatori hanno con successo perseguito. Il risultato è un libro esperienziale e, sotto certi punti di vista, sperimentale, che si offre come esempio di libro-progetto importante perché «ha centrato – come sottolinea Emanuele Lelli nel prologo (e come poteva chiamarsi?) – una pluralità di obiettivi formativi, e non solo. Allo sviluppo delle competenze nella dimensione narrativa e illustrativa, infatti, si sono aggiunte le acquisizioni in campo etnologico ed etnomusicologico. L’apertura culturale prodotta dall’innesto dell’originario racconto teocriteo nel contesto della cultura pastorale peloritana ha sicuramente suscitato negli studenti, così come susciterà nei lettori della Graphic Novel, una emozionante attualizzazione del classico che diventa anche riappropriazione di dimensioni umane e sociali solo apparentemente passate». Come dire che il mondo classico, con i suoi saperi, i suoi miti, le sue suggestioni, le sue rappresentazioni non cessa di parlarci, di emozionarci, di insegnarci la bellezza del vivere nella cultura di una natura, non artificiosamente idillica né romanticamente bucolica ma semplicemente umana.