«“Ce n’erano tante di donne che allora andavano a pesca perché – così afferma un vecchio pescatore di Lipari – aiutavano i mariti che invece di prendersi il marinaio si portavano le mogli a mare”. Rievocando i miei incontri con loro spesso mi sovvengono le parole di Filippa, pescatrice di Stromboli: “Abbiamo cresciuto i figli a colpi di mare in faccia!”, e quelle maggiormente angosciate di Rosina, pescatrice di Panarea quando ricordava le tempeste vissute in mare dove “La vìstimu a morte cull’occhi, sempre con il pensiero ai figli che aspettavano a casa”. Durante i miei anni di ricerca i loro tratti sono emersi a fatica, essendo circondate da un serrato silenzio che rischiava di farle dimenticare per sempre» (Macrina Marilena Maffei, Donne di mare, Pungitopo ed., 2013)
È accaduto raramente che in seno alla cultura popolare subalterna del nostro Paese le donne abbiano potuto parlare di sé e del proprio universo, materiale e immateriale, in prima persona. Ricordo in questa sede, tra i pochi esempi, Lettere da una tarantata, di Annabella Rossi (1970) e La donna non è gente, di Armanda Guiducci (1977), opere entrambe che in qualche modo anticipano i temi relativi alla “individualità” delle persone portatrici delle culture oggetto di ricerca, resi poi comuni nell’ottica dell’antropologia interpretativa di Clifford Geertz, preceduta in ambito statunitense dagli studi di Oscar Lewis e di Joseph B. Casagrande e in ambito italiano dalle memorabili Note lucane di Ernesto de Martino (1962).
Risulta pertanto assai arduo delineare un’unica prospettiva entro la quale comprendere l’universo femminile come esso è stato percepito e rappresentato all’interno delle culture folkloriche. Tale universo ci si presenta infatti – proprio a partire dall’analisi di una cultura territorialmente circoscritta come quella popolare siciliana – connotato da una peculiare ambivalenza di fondo. Per un verso la donna viene percepita come un essere in qualche misura inferiore, occupante un posto di scarsa rilevanza nella gerarchia dei valori dominanti e socialmente condivisi; per altro verso la sua natura “altra” (un’alterità di genere percepita come stigma ontologico) la rende comunque – attraverso una pluralità di rappresentazioni – portatrice di valori e di saperi che, proprio per la loro siderale distanza da quelli del mondo maschile, favoriscono la produzione – squisitamente ideologica – di figurazioni “perturbanti” o, viceversa, angelicate.
Non è un mistero che la storia delle donne, da che mondo è mondo, sia stata declinata al maschile. Perfino l’universo popolare, subalterno per definizione e muto di fronte al grande teatro della storia, ha coltivato al proprio interno fortissimi meccanismi di esclusione, censura, tabuizzazione, rimozione, silenzio nei riguardi dell’universo femminile.
Una vecchia, ma preziosa, notazione di Carlo Ginzburg (Il formaggio e i vermi) riguardante i rapporti tra cultura dominante e cultura popolare, può acquistare un senso nuovo laddove a “dominante” sostituiamo “maschile”, a “popolare” “femminile”, a “classi” sostituiamo “sessi”, ad “analfabetismo” “patriarcato”:
«cultura maschile e cultura femminile giocano una partita ineguale, in cui i dadi sono truccati. Dato che la documentazione riflette i rapporti di forza tra i sessi in una società data, le possibilità che la cultura delle donne lasciasse una traccia di sé, sia pure deformata, in un periodo in cui il patriarcato era ancora così diffuso, erano molto ridotte. A questo punto, accettare i consueti criteri di verificabilità significa esagerare indebitamente il peso della cultura (maschilista) dominante».
Per effettuare uno scandaglio su tale abisso di incomprensioni e di mistificazioni occorre forse operare preventivamente uno smantellamento sistematico di pregiudizi che hanno fatto parte non dico della cultura maschilista ma della cultura tout court lungo l’arco di secoli, forse millenni di storia dell’Occidente (volendo limitarsi a quest’angolo di mondo). Anche in tale prospettiva può soccorrerci la parafrasi di un aureo passo di Carlo Marx (L’ideologia tedesca), che – sostituendo al termine “classe” il termine “genere” – potrebbe essere così riscritta:
«Le idee del genere dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, il genere che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. Il genere che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad esso in complesso sono assoggettate le idee di coloro alle quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti (…..) sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di un genere il genere dominante, e dunque sono le idee del suo dominio», etc. etc.
L’antropologa Macrina Marilena Maffei, analogamente a quanto svolto da Elsa Guggino nell’areale occidentale della Sicilia attraverso indagini ormai classiche, ha indirizzato larga parte dei suoi studi e della sua produzione editoriale a ridare voce alle donne eoliane, attraverso una ormai trentennale attività di ascolto e restituzione di storie di vita che aprono squarci significativi sulle attività lavorative, sui miti, le credenze, le ritualità, i sogni, la vita materiale, insomma, strettamente embricata alla vita interiore.
Chiunque abbia condotto studi sulla storia dell’Arcipelago eoliano non riesce in genere a sottrarsi, dopo avere acquisito consuetudine con le fonti e i documenti che hanno fatto giungere fino a noi le memorie del luogo, alla sensazione che esso, nonostante le profonde ferite che gli sono state inferte dagli uomini, mantenga a tutt’oggi un’aura derivante assai probabilmente da quello che, con una certa approssimazione, potrebbe esser definito il suo Genius Loci, non già inteso nel senso che gli antichi vollero conferire al termine bensì come potente metafora per adombrare il luogo virtuale in cui il mito e la storia trapassano l’uno nell’altra e viceversa, in un perenne e proficuo travaso di forme e di contenuti. E tutto ciò le Eolie riescono ancora, seppure non sempre e in ogni caso non per chi le guardi con occhi distratti, a trasmettere in forza della condizione di palinsesto che la loro configurazione territoriale è venuta acquisendo a causa della profonda mutazione antropologica cui esse sono andate incontro a partire dalla metà del XX secolo. Intendo qui sostenere che accanto alle Eolie piatte e banali che si sono consegnate al Terzo millennio, continuano forse a esistere e a pulsare delle Eolie sotterranee, sorta di doppio dell’Arcipelago ancora in grado di testimoniare degli eventi che in esse ebbero luogo e dei miti che intorno ad esse si elaborarono in quella che Vico definiva l’età della sapienza poetica.
Proprio allo scandaglio di quest’aura, in una precipua côté femminile, Marilena Maffei ha dedicato alcune opere fondamentali per la conoscenza del patrimonio orale eoliano, attraverso le quali si è appunto riportato in superficie un universo rimosso e sommerso, quello che le donne hanno abitato e vissuto per generazioni. Capelli di serpe. Cunti e credenze delle isole Eolie (1995); La fantasia, le opere e i giorni. Itinerari antropologici nelle isole Eolie (2000); I confini irreali delle Eolie. Spiriti e diavoli nella tradizione orale (2002); La danza delle streghe. Cunti e credenze dell’arcipelago eoliano (2008), e il più recente Donne di mare. Una storia sommersa dell’arcipelago eoliano (2013), affrontano tutti tematiche legate a un immaginario quasi sempre declinato al femminile, in cui la donna si fa interprete e in qualche modo maieuta di grumi ideologici che la modernità pare avere spazzato via con un colpo di spugna, intenta come essa è ad apparecchiare le proprie magnifiche sorti e progressive, e che però riemergono pervicacemente come un passato indigesto che torna a rimordere e chiedere ascolto. Attraverso questi scritti si squarcia un velo plurisecolare che aveva celato realtà ritenute ininfluenti, e si delineano, dapprima incerte ma poi via via più nette e “appassionate”, tracce dei vinti della storia che recuperano capacità di parola e volontà di testimoniare di sé.
Le chiavi di lettura dei libri (che potrebbero essere definiti testimonianze fantastiche del Novecento eoliano) sono molteplici; qualche considerazione che cercherò di svolgere su determinati temi presenti in essi potrà forse delinearne la mappa complessiva. I racconti, le leggende, i contesti mitico-rituali raccolti, descritti ed esaminati criticamente da Maffei confermano l’esattezza di quanto ebbe a sostenere Federico Engels a proposito dell’attardamento delle sovrastrutture rispetto alle strutture. Le prime continuano a vivere di vita sotterranea anche quando le seconde hanno ormai esaurito il proprio ciclo storico, proprio perché le risposte che ancora oggi esse sono in grado di fornire ai loro fruitori non hanno perso l’originaria carica di senso.
Tra i nodi critici rilevabili in questo imponente corpus di credenze che Maffei ha ricondotto a storia emergono:
gli sconfinamenti tra il mondo terreno e il mondo ultraterreno, dai quali risulta nettamente la concezione tradizionale e popolare della morte che non è mai assolutamente altra rispetto alla vita, all’esistenza, ma con la quale è possibile, e anzi opportuno, porre in essere forme di negoziazione (scrive Marilena Maffei che tra le due realtà avvengono continui vagabondaggi);
In una condizione di labilità della presenza, minacciata a vario titolo da svariate occasioni critiche, quelle che appunto costellano l’esistenza umana, e in una situazione socio-culturale di non ancora raggiunta e consolidata oggettivazione del mondo esterno, in cui pertanto tra io e mondo i confini sono ancora labili, «è possibile – secondo quanto ipotizzava Ernesto de Martino a proposito del mondo magico presso le culture d’interesse etnologico e presso i ceti subalterni del Mezzogiorno d’Italia – «che dalle persone si stacchino e tra le persone circolino frammenti psichici non risolti»; tali frammenti possono essere letti come elementari strategie comunicative in una fase della storia della comunità in cui non si è ancora affermata una visione razionale del mondo. Il contatto tra i due mondi viene accettato come una realtà normale e quasi ordinaria, ma al contempo si elabora un complesso di regole che ne consentano il corretto defluire (ad es. non parlare con i morti, tracciare cerchi magici protettivi, legare gli spiriti etc.);
I confini labili tra corpo e anima, con evidenti analogie che richiamano elementi sciamanistici, probabilmente di derivazione greca e tracia; al di là delle esperienze indotte da veri e propri stati oniroidi o di ridotta coscienza di veglia, è indubbio che questi epigoni eoliani di una cultura arcaica abbiano assimilato nel proprio DNA etnico una particolare attitudine a vivere esperienze da essi percepite come trascendentali;
La metamorfosi delle immagini corporee, che testimonia di una visione multidimensionale della realtà, la quale non è mai “come la si dipinge” ma mostra scarti, pieghe temporali, vie d’uscita;
L’ infestazione diabolica delle case; la caratteristica degli spiriti di rimanere in qualche modo legati al mondo terreno; per altro verso in molte storie emerge una funzione secondo la quale essi sono chiamati ad essere “guardaroba di personalità” (come li definiva Michel Leiris nel suo studio sulla possessione presso gli Etiopi di Gondar);
I rischi nell’attraversamento degli spazi; gli incontri esperiti in mare o quelli che avvengono nelle isole in prossimità di luoghi fatidici hanno la caratteristica dell’Unheimliche (Freud), del Perturbante, del non-domestico, dell’inquietante; gli spazi privilegiati per l’incontro tra i due mondi sono sempre luoghi in qualche misura “speciali”, come grotte, passi, burroni, crocicchi, o anche cimiteri, ruderi etc., come tali rischiosi per l’appaesamento e l’identità di chi li attraversa;
Il viaggio agli inferi; l’Inferno e le affabulazioni concernenti i contesti plutonici e sotterranei sottesi al vulcanesimo eoliano, retaggio popolare delle leggende di origine normanna su San Willibaldo e le sue incursioni ctonie, sulle quali Luigi Bernabò-Brea e Jacques Le Goff hanno scritto pagine importanti;
La figura del prete come operatore magico è un chiaro segno della prassi tradizionale di codificare forme di fruizione popolare del sacro al cui interno alcuni complessi ideologici del paganesimo antico non sono stati abbandonati o espunti, ma hanno subìto un processo di generale riplasmazione che ha sortito una serie di aggiustamenti dell’antica cultura “pagana”, di patteggiamenti e di compromessi con il Cattolicesimo che si sono composti in un nuovo raggiunto equilibrio.
Dalle testimonianze degli informatori emerge la consapevolezza di un tempo eoliano delle origini, in cui il contatto tra i due mondi, quello terreno (o realistico) e quello ultraterreno (o magico), era più agevole e frequente, o addirittura continuo. Che funzione svolgono in definitiva gli esseri fantastici, i diavoli, i monacelli, gli spiriti, i maghi, le majare, i tesori nascosti, le anime inquiete che animano queste straordinarie storie che, è bene ricordarlo, per i portatori di questa cultura sono storie di vita e non affabulazioni?
Io credo che questa, come altre analoghe produzioni dell’immaginario, siano state storicamente percepite – anche se non ovviamente in maniera consapevole – come dispositivi che hanno consentito in qualche modo il deflusso e il controllo di contenuti critici dell’esistenza. In tale prospettiva si potrebbe affermare, parafrasando Ernesto de Martino, che gli spiriti, in queste storie che Marilena Maffei ha magistralmente raccolto, offrono una prospettiva per immaginare, ascoltare, vedere ciò per cui si è senza immaginazione, sordi, ciechi, e che tuttavia chiede perentoriamente di essere immaginato, ascoltato, visto.
L’importanza del lavoro di Marilena Maffei risiede nell’appassionata operazione di recupero e di conservazione mnemonica dei beni culturali “volatili”, immateriali, ai fini del mantenimento di un’identità territoriale e comunitaria preziosa per le comunità eoliane nella più generale strategia di negoziazione delle rispettive identità in direzione della quale il processo di globalizzazione in atto continuamente ci interpella.
L’ultimo lavoro in ordine di tempo, oltre a fornirci ulteriori tessere per la composizione del variopinto mosaico che è l’immaginario eoliano, offre elementi di riflessione per una riconsiderazione complessiva della sociologia della famiglia e dell’economia eoliana. Inoltre, caso raro che la sorte riserva all’opera di un antropologo, il volume Donne di Mare ha innescato un processo virtuoso a seguito del quale, proprio l’estate scorsa, quattro donne eoliane (Santina Lo Presti e Nicolina Rosina Mirabito di Lipari; Nicolina Mirabito nata a Lipari e residente a Bronte; Rosina Taranto di Alicudi) sono state insignite motu proprio dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica. Si tratta di quattro pescatrici nate fra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento, uniche superstiti di una schiera un tempo assai nutrita, che nelle Isole Eolie ha esercitato il duro mestiere della pesca. L’economia eoliana è stata infatti da sempre basata sulla compresenza di attività legate alla terra (agricoltura, pastorizia) e al mare (pesca).
Fino a qualche anno fa sembrava che detentori esclusivi delle attività marinare fossero stati gli uomini. Marilena Maffei ha scoperto che non è così. Le cause di tale epocale processo di rimozione risiedono solo in parte nell’essere percepita l’attività piscatoria come lavoro umile e vergognoso. Di fatto, le donne pescatrici hanno svolto tale attività alternandosi e spesso sostituendo del tutto i mariti, oltre a continuare ad occuparsi delle attività e a ricoprire i ruoli che la cultura nella quale esse vivevano attribuiva loro: domestiche, fattrici, madri, mogli, lavoratrici. A tale occupazione femminile, opaca, non visibile e sostanzialmente rimossa è sotteso un duplice processo di subalternità: le donne hanno faticato oltre misura in quanto appartenenti a classe popolare e in quanto donne. Alla loro condizione subalterna hanno cioè concorso i pregiudizi e i meccanismi di esclusione che i loro uomini hanno coltivato nei loro confronti a prescindere dalla classe cui appartenevano, come aveva già da tempo dimostrato Luigi M. Lombardi Satriani nei suoi studi sui contenuti ambivalenti del folklore.
Le donne e il mare dunque. Un elemento acqueo simbolicamente assimilato alla femminilità, luogo di avventure vissute all’interno di una dimensione magica (i voli sciamanici, le apparizioni, gli esseri fantastici, le stregonerie), ma al contempo luogo in cui attraverso l’esercizio di un’attività materiale come la pesca si verifica un ribaltamento che riscatta le donne dal mero ruolo di “agente domestico”.
La dialettica servo-padrone nella Fenomenologia dello spirito hegeliana rivela un meccanismo non diverso da questo. Il padrone, nel rischiare la propria vita pur di affermare la propria indipendenza, ha raggiunto il suo scopo ed esercita un’egemonia su colui che è divenuto suo servo, avendo preferito la perdita della propria indipendenza per salvare la vita. Anche il servo tuttavia diventa necessario al suo signore poiché lo stesso mantenimento in vita di quest’ultimo dipende dal suo lavoro. Il servo, lavorando, fornisce infatti al padrone ciò di cui questi ha bisogno, sì che il padrone non riesce più a fare a meno di colui che lo serve. Il rapporto di subordinazione si rovescia. Il padrone diviene servo poiché è strettamente legato al lavoro del servo, e il servo attraverso la sua attività produttiva diventa padrone del padrone.
Le donne eoliane divengono quindi (e adesso si scoprono) creatrici di storia. Certamente non la storia evénémentielle, ma piuttosto quella della lunga durata scoperta dalle Annales e richiamata da Bertolt Brecht nella sua mirabile poesia Domande di un lettore operaio:
«Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettante la riedificò?
In quali case di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori?
Roma la grande è piena d’archi di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide la notte che il mare li inghiottì,
affogavano urlando aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con se nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la flotta gli fu affondata.
Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni.
Chi, oltre a lui, l’ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende, tante domande» (B. Brecht, 1934).
Per concludere. L’identità di un luogo si declina avendo riguardo tanto alle determinazioni materiali, territoriali, monumentali etc., quanto a quelle immateriali (le storie, le credenze, le narrazioni, i sogni). Dai mestieri del mare alle fabulazioni che intorno a questo elemento si sono prodotte, dalle emergenze antropologiche alle tracce delle ideologie elaborate in quest’angolo di mondo lungo l’arco di secoli, l’autrice di queste pregnanti ricerche ci suggerisce sommessamente che ogni realtà presentata concorre a delineare l’identità del sito; che tale identità è preziosa; che non esiste identità senza memoria di essa. Ogni lacerto di bene culturale, ancorché sopravvissuto il più delle volte tra l’indifferenza degli uomini, rimane pur sempre la preziosa tessera di quel complesso mosaico che è il tempo passato. Ma questo passato (bene lo sapevano Sant’Agostino ed Hegel) è tutto compreso nelle dolorose scelte del nostro presente.