di Silvia Pierantoni Giua
Casa è pace e libertà, è il riflesso della propria identità. Casa è quel che abbiamo costruito negli anni, quel che ci portiamo dietro ovunque andiamo. Casa sono le nostre radici, la nostra cultura; l’educazione, l’amore trovato negli incontri importanti della vita. È quello che siamo. Casa dunque non è solo un luogo, le mura di un’abitazione ma un’appartenenza e se questo manca è come perdere ogni riferimento, sentir mancare il suolo da sotto i piedi.
Figlia di un padre che durante l’arco della mia vita è migrato tra Italia, Centro e Sud America, porto dentro l’intermittenza che ho vissuto attraverso il rapporto con lui, i viaggi continui, l’indecisione e l’instabilità data dall’incapacità di scelta tra una terra e un’altra. Una spaccatura, una vita a metà, un’appartenenza dimezzata.
Da quattro anni Gianfranco vive in Liguria dove, a più di sessant’anni, ha deciso di rimettervi radici dopo la situazione di grande crisi del Venezuela di Maduro.
Come ti descriveresti? – gli chiedo per togliermi dallo sguardo soggettivo di figlia.
«Chi azzeccò meglio la definizione di me stesso fu Eusebio Leal Splengler, storico direttore della Sovrintendenza dei beni architettonici di La Habana Vieja: “Franco, el muchacho grande”, ovvero la testa e il cuore di eterno ragazzo, sempre alla ricerca di nuove sfide, ma dentro il corpo di un uomo adulto. Insomma, più portato ad assecondare la mia passione per la creatività e la mia inclinazione nello svolgere esperienze in tutti gli ambiti – da architetto ad artista, da impresario a contadino – che a una pianificazione più lineare della mia vita, con tutti i pro e i contro che tale attitudine implica.
Il mondo evolve in modo molto accelerato e l’eclettismo, la creatività, il voler conoscere e sperimentare tanti mestieri, luoghi, ambienti se da un lato mi ha permesso di adattarmi, dall’altro mi rende persona poco “specializzata”, specializzazione che oggi sembra essere indispensabile per poter operare e resistere a quest’epoca del virtuale e dell’iper tecnologia. Ma non è possibile rifare da zero il proprio mondo.
Penso di essere un po’ “fuori tempo” ma a sessantacinque anni non credo di cambiare e forse non sarebbe poi così producente. Posso imparare ad usare il computer ma non riuscirei ad essere “sempre connesso”, stare in un modo di pensare ed agire fatto di relazioni virtuali e standardizzate. In questo aspetto mi sento vicino a uno dei tanti migranti africani che arrivano da una cultura semplice e pratica, abituati a risolvere con poche risorse la loro vita. Apprezzo molto questa logica che utilizza mente e corpo nella quotidianità; lo considero un patrimonio a cui non posso e non voglio rinunciare. Alcuni si trovano a dover spazzar via buona parte del loro modo di vivere e questo è un costo umano molto alto da pagare».
Nato a Caracas nel ’53, a causa del colpo di stato del ’58 capeggiato dal militare Marcos Pérez Jiménez, Gianfranco, i suoi tre fratelli e sua sorella seguirono i genitori in Spagna, uno dei Paesi a quell’epoca più economici d’Europa, dove un amico si offriva di dare una mano alla famiglia. Restarono un anno a Barcellona e, una volta eletto il presidente Betancourt, tornarono in Venezuela e vi restarono circa un paio d’anni. Fu poi la volta di Madrid, dove soggiornarono fino al ’62, anno in cui il padre, Arturo, scelse per i figli l’educazione severa del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri di Torino; vi rimasero per sei anni e si stabilirono poi in Liguria: vissero prima a Chiavari, poi a S. Ambrogio di Zoagli e lì vi restarono quattordici anni.
«In quell’occasione sì che misi radici! – mi dice ancora commosso Gianfranco – tanto che quando mio padre vendette tutte le proprietà nel ’74 per tornare in Venezuela, per me lasciare quella casa fu un dramma: insieme ad essa perdevo anche la mia famiglia perchè per la prima volta non la volli seguire nella sua ennesima migrazione».
Ecco, cosa vuol dire per te migrare? – chiedo allora io seguendo la scia di tutti quegli spostamenti.
«Migrare significa lasciare una terra, un luogo preciso dell’anima e della mente per entrare e mettere o tentare di mettere radici in un altro posto, quasi sempre sconosciuto. Ma averlo fatto per scelta o necessità della famiglia ha creato in me la compresenza di più mondi (Venezuela, Spagna, Italia, Cuba) e questo me lo porterò dentro con tutti i vantaggi e gli inconvenienti per tutta la vita. Non è possibile staccarti da un pezzo di tutte le tue tante migrazioni, non puoi rinunciare a niente di ciò che ti ha segnato.
Però, a differenza dei migranti africani di adesso, il mio era diventato un migrare da un Paese conosciuto ad un altro comunque noto, nonostante la realtà, negli anni, fosse cangiante. Ad esempio, il Venezuela che ho vissuto da bambino e che avevo idealizzato era un altro Paese da quello in cui tornai trent’anni fa e un altro ancora da quello di questi ultimi anni».
L’idealizzazione di un luogo è assimilabile al processo che avviene nel lutto, ovvero a quel processo di privazione dell’oggetto amato. Come sottolinea Freud in Lutto e melancolia, nell’esperienza di lutto avviene una perdita di interesse per la realtà perchè «tutti i ricordi e le aspettative in cui la libido era legata all’oggetto vengono evocati individualmente e subiscono una ipercarica» [1]; ovvero quando il soggetto perde la relazione con un oggetto d’amore – la propria cultura, società, famiglia, casa ecc. – per far fronte al dolore causato dal distacco, egli riversa nel ricordo l’affetto che provava per questi, attribuendo all’amore un’ipercarica, ovvero un valore maggioree quindi il sentimento viene deformato rispetto a quello provato nella realtà. In altre parole, questo esubero di investimento affettivo nei confronti dell’oggetto amato perduto si traduce in un’idealizzazione dello stesso. Ciò è facilmente riscontrabile nella propria esperienza: defunti, ex fidanzati e paesi lontani diventano magicamente perfetti, meravigliosi.
«La mia migrazione – continua Gianfranco – era ed è sempre stata una condizione mentale permanente che io chiamo la “malattia del gitano”. Questa malattia, difficile da curare, proviene da ragioni di necessità e mi appartiene in quanto l’ho respirata da mio padre. Quando si spostava era perché credeva di trovare la terra promessa, quindi non sempre lo faceva per ragioni obiettive e ponderate».
In che senso “malattia”? – incalzo io.
«La considero una malattia nel senso che è l’illusione della fuga; credi ci sia un luogo dove i problemi, il disagio, le difficoltà si risolvano, mentre con te migrano anche quelli. Tra i miei dubbi e questioni c’era sempre una domanda di fondo: Quanto starò qui? Dove dovrò andare domani? Cosa deciderà mio padre? Non sapevo se valeva la pena sforzarsi di metter radici e questa condizione non mi ha permesso di porle stabilmente in un solo posto, salvo una lunga parentesi, ovvero quando decisi contro l’ordine di mio padre di non seguire la famiglia in quella migrazione del ’74 di cui parlavo poc’anzi. In quel momento, finalmente, decisi di non migrare e di mettere radici, restando in Liguria dove mi sposai e mi laureai in architettura. Nel ‘92 mi separai e mi sentii di nuovo straniero. Vivendo la separazione come un vero e proprio sradicamento, mi tornò dopo vent’anni anni la “malattia del gitano” e tornai a migrare tra Cuba e Venezuela, facendo ritorno in Italia per vedere le mie figlie. Cercavo di ricostruirmi un’identità, di riscattarmi, perché pensavo di sentirmi meno straniero là. Ma questa volta migravo senza famiglia, situazione per me anomala e che mi lasciava in una condizione di sospensione, perché sono giunto a conclusione che la terra sia la famiglia».
Ecco che emerge un’altra parola chiave – straniero – dalla testimonianza della migrazione di Gianfranco. Un concetto che ben illustra questa sensazione di estraneità e distacco è quello di gurba presente nella cultura araba; come scrive la linguista e scrittrice M. Grazia Negro, questo termine significa insieme viaggio/espatrio/esilio/nostalgia; discende dalla stessa radice di igtirāb (emigrazione) e di garaba, ovvero “tramontare”. Dalle stesse radicali (gain, rā’, bā‘) derivano anche le parole garīb, ossia, strano/straniero/curioso/meraviglioso/oscuro/astruso e garb (Occidente), termine corrispondente alla zona del Maghreb (luogo dove tramonta il sole) [2].Dall’etimologia sembrerebbe quindi essere molto forte il legame tra viaggio, nostalgia ed estraneità: il viaggio è dunque anche un percorso interiore dove, per citare la psicoanalista J. Kristeva, il primo straniero siamo noi stessi. Nel processo di migrazione l’io si sente smarrito poichè fuori dal proprio contesto; il soggetto ha quindi bisogno di tempo per ritrovarsi, per ri-definire se stesso. La propria identità, come già detto, si costruisce infatti anche in base al senso di appartenenza al proprio Paese d’origine. Ma qual era e qual è dunque quello di Gianfranco? Da dove si sente provenire?
«Ero un po’ straniero in Italia e un po’ straniero là, per cui questo saltare da una terra a un’altra era il riflesso dell’incapacità di far fronte ai problemi e alla fine rischiavo di non avere radici da nessuna parte. È stato un frantumarsi psicofisico, situazione che a me ha insegnato che il dramma più grande della migrazione è quello di riconoscersi in un posto, di mettere radici; io le avevo sfilacciate. Si può viaggiare ma non si può essere migranti permanenti. Questa esperienza mi ha fatto capire che rischi di “seccare”, di non avere né dare più frutti».
A proposito di radici – ribatto io – è possibile porle nuovamente per un migrante nel Paese di approdo?”
«È molto difficile, a meno di non avere già parenti e/o amici nel luogo in cui si arriva o non si ha capacità o fortuna di trovare un lavoro; perché la famiglia è la prima terra che ti porti dietro e senza lavoro non sussisti. Un impiego implica che già ti stai inserendo, fai parte di quella realtà e hai la tua dignità; in questo caso incominciano le vere amicizie e piano piano si può parlare davvero di una nuova terra; altrimenti il problema resta irrisolto e si tende a cadere nella vita da borderline, da marginalizzato.
In questi termini penso di poter in parte capire la difficoltà dei migranti che approdano sulle nostre coste nel ricostruire una personalità da zero. Essi, infatti, partono facendo una vera e propria scommessa: lasciare il loro conosciuto, che per quanto duro e atroce è comunque la loro identità, per un luogo totalmente ignoto, non avendo alcuna idea della nuova realtà a cui vanno incontro. In questo senso la mia migrazione si differenzia: spostandomi con il nucleo familiare, sono sempre stato un migrante “protetto”.
È nell’ultima esperienza che mi sono avvicinato alle serie difficoltà a cui si trovano davanti i migranti: casa e lavoro le avevo lasciate a Jajì, un villaggio in provincia di Merida. Da circa quindici anni avevo fatto fruttare la “finca” e la piantagione di caffé che avevo ereditato da mio padre sulle alture andine fino a ritrovarmi testimone di un precipitoso declino sociale, politico ed economico a cui il Paese stava andando incontro».
Come noto, il Venezuela di oggi infatti sta vivendo una profonda crisi. L’attuale Presidente Maduro, dalla sua elezione nel 2013 si è trovato a far fronte ad un alto tasso di inflazione e a grandi carenze di beni, eredità delle politiche precedenti di Chàvez. La situazione economica, unita ad accuse di corruzione e cattiva gestione del governo del Paese, ha portato a forti proteste popolari che hanno provocato più di cento morti e centinaia di feriti e arresti. La crisi economica ha messo in ginocchio il Paese. L’inflazione oscilla tra il 700 e il 1.100% annuo e il bolivar, la moneta nazionale, è ormai carta straccia. Alla base di questa crisi c’è stata la caduta del prezzo del petrolio, risorsa su cui il Venezuela fonda il 95% della sua economia. Secondo le stime della Caritas, nel Paese ci sono circa 280 mila bambini denutriti e un bambino su tre presenta danni fisici e mentali irreversibili. Il governo incolpa le potenze occidentali per la crisi in corso e ha deciso di non accettare aiuti umanitari.
La situazione diventa ogni giorno più critica. La mancanza di beni di prima necessità sta portando all’esasperazione la popolazione: si susseguono le notizie di saccheggi e violenze, lunghe code si formano di fronte a negozi semivuoti, guardie armate scortano i rifornimenti per impedire che i furgoni vengano assaliti per strada. Mancano beni di prima necessità e sono insufficienti anche le scorte di farmaci. Affamare un popolo è uno dei modi più subdoli per dominarlo: le poche energie che gli restano non le dedica più a protestare ma a cercare di sopravvivere a fame e malattie. È’ a causa delle condizioni in cui riversava il Paese che Gianfranco ha deciso di tornare in Italia con l’intenzione di restarvi.
«Quest’ultima migrazione – continua – scelta e definitiva, è stata una prova, certo non così drammatica ma simile per alcuni aspetti di base a quella dei migranti che fuggono per necessità. Mi riferisco al mettersi alla prova, ad esistere e persistere fino quando l’albero della propria vita non mette radici di nuovo. Dovermi re-inventare a più di sessant’anni è stata una sfida non da poco. Senza lavoro non ti senti parte di un luogo e non riesci a rafforzare, rendere solida la tua identità».
C’è una grande differenza tra migrazione scelta o imposta?
«Dipende dal tipo di migrazione. Il migrante africano sceglie di partire perché la situazione lo obbliga; quindi non ha davvero un’alternativa. Nel caso invece dei giovani laureati che vanno all’estero, essi decidono di migrare per svolgere esperienze professionali e sociali migliori e più stimolanti. È una scelta tra una vita umana mediocre e la possibilità di realizzare le proprie aspettative, professionali ed economiche. Per quanto riguarda me, fino all’adolescenza hanno deciso per me i miei genitori, in particolare mio padre – unica fonte di guadagno – che stabiliva i trasferimenti secondo le situazioni politiche, sociali ed economiche del Venezuela. Egli aveva combattuto per sei anni come giovane volontario fascista nella diverse campagne militari in Africa, tornando infine sconfitto nel ‘45. L’Italia era distrutta e nessuno immaginava il boom degli ‘50 ‘60, mentre a Caracas alcuni amici italiani che vi si era già stabiliti dicevano che la situazione di lavoro era molto promettente. Mio padre ha deciso dunque di andare a fare fortuna; ma oltre all’aspetto economico a guidarlo vi era anche una ragione più profonda: la disfatta dell’epoca fascista che lui aveva vissuto appieno. Il crollo dell’ideologia, tornare in patria da perdente e vedere il disprezzo degli italiani era stato uno shock. Desiderava riscattarsi da una sconfitta».
Ecco che ritorna l’aspetto ideologico della migrazione, il sogno della terra promessa sulla quale si proiettano le illusioni del riscatto da un presente insoddisfacente, da una situazione scomoda o insofferente. Dall’altro, l’impatto con la realtà che frantuma il mito, spesso ne inverte il senso e lo proietta nella terra lasciata alle spalle. In ogni caso, l’essere umano ha necessità di fare appello a quel senso di appartenenza che dia un significato alla propria esistenza, a quell’esigenza di domesticità, di casa, di trovare le proprie radici, di costruire la propria identità; questa condizione la si ripercorre nei versi della canzone “Radici” del cantautore Guccini che terminano facendo approdare quel sentimento di identità ad un conforto, a un senso di pace e di dolcezza che solo quel che per noi è casa può darci: