Indagare in poco più di duecentocinquanta pagine i complessi dispositivi culturali su cui si struttura la civiltà greco-romana, esaminando l’inscindibile rapporto che lega l’uomo al mondo animale, è impresa che impone disciplina, intuito esegetico e soprattutto un’approfondita conoscenza delle fonti antiche e della sterminata letteratura critica a esse correlata: requisiti che Pietro Li Causi – raffinato antichista e responsabile dell’unità di ricerca di Palermo del network «GDRI Zoomathia (Trasmission culturelle des savoirs zoologiques – Antiquité-Moyen Âge)» –, con il suo recente Gli animali nel mondo antico (Il Mulino, 2018), dimostra di possedere eminentemente, unendo rigore scientifico e una scrittura di rara chiarezza. Caratteristica, quest’ultima, non proprio diffusa tra gli storici italiani, attenti per lo più a rivolgere le proprie fatiche letterarie ad accademici e ricercatori e quasi mai ai lettori colti che stricto sensu non fanno parte della suddetta élite. Possibilmente questa peculiarità deriva dalla consuetudine che l’autore ha maturato, negli anni, in seno all’attività di insegnante liceale; indicazione, tra l’altro, inserita anche nella scheda biografica presente in quarta di copertina, dove si riporta il titolo professionale di docente di materie letterarie presso il Liceo Scientifico «S. Cannizzaro» di Palermo: dato che mediamente gli studiosi con velleità accademiche, cedendo ai soliti richiami narcisistici, ometterebbero, evidenziando ben altre referenze professionali.
Di Li Causi, recentemente, i lettori hanno avuto modo di apprezzare L’anima degli animali (Einaudi, 2015), un importante volume, curato insieme a Roberto Pomelli, in cui si selezionano alcuni testi chiave sul tema: l’ottavo e il nono libro della Historia animalium di Aristotele, i frammenti degli stoici sugli animali, i tre trattati di Plutarco sul vegetarianismo e sulla «questione animale» (De esu carnium, Bruta animalia ratione uti e De sollertia animalium) e infine il De abstinentia carnium di Porfirio. Proprio quest’ultima opera, un trattato sull’astensione dal consumo carneo, fu scritta dal grande filosofo neoplatonico, allievo di Plotino, a Lilibeum, l’odierna Marsala, dove si era trasferito possibilmente per curare una grave depressione che non gli dava tregua.
Ed è proprio nel solco di questa prestigiosa antologia – recensita con toni di viva approvazione anche da Umberto Eco, in una delle sue ultime Bustine – che Li Causi ha pensato di suggellare in un’analisi complessiva almeno un ventennio di ricerche sulla zoologia antica e, in generale, sul modo in cui i Greci e i Romani si relazionavano rispetto al mondo animale, partendo dall’assunto che gli animali nell’ambito della nostra civiltà classica erano visti «un po’ come i nostri animali, e tuttavia erano di gran lunga diversi. Erano “vicini” ai nostri, ma anche molto “lontani”. Questo perché pensare un animale, relazionarsi con esso, o addirittura “costruire” la categoria stessa dell’animalità non è qualcosa di scontato o – come direbbero gli antropologi – “universale”. A ogni animale, in fondo, è associata un’“enciclopedia”, un insieme di nozioni e saperi che muta con il mutare del tempo e delle società di riferimento e che è costituita non soltanto dalle caratteristiche tassonomiche o morfologiche, bensì anche da un campionario di usi e tratti simbolici e da un insieme di pratiche e di modi – più o meno riflessi, più o meno articolati – di guardare e pensare il mondo».
L’autore sviluppa la trattazione intorno a un preciso nucleo tematico a partire dal quale è possibile scoprire – afferma lo stesso Li Causi in una recente intervista – «che l’umanità e l’animalità stesse non sono date a priori, ma sono frutto di costruzioni artificiali che mutano nel corso del tempo e dello spazio, e che possono essere sempre negoziate. In altri termini, studiare gli animali degli antichi è un modo di studiare le loro cornici culturali di riferimento; e studiare le cornici di riferimento di culture lontane da noi, nel tempo e nello spazio, è già un modo di riflettere sulle nostre stesse cornici, di uscire da esse, di guardarci dall’esterno e di prendere consapevolezza di noi stessi in maniera critica, diventando disponibili all’idea stessa del mutamento». D’altronde – ci spiega ancora l’autore – pensare l’animalità è qualcosa che dipende anche dai quadri culturali di riferimento. E sono quadri culturali che il volume esamina in sei lucidi capitoli capaci di condurre il lettore lungo i sentieri della natura plurale e multiforme in cui l’uomo dell’antichità è immerso, attraversando «i paesaggi del mito, della letteratura, della storia della filosofia e della vita quotidiana dei Greci e dei Romani dall’VIII secolo a.C. fino al IV secolo d.C.».
La distinzione dei termini zôon e animal, illustrata nel primo capitolo (“Di cosa parliamo quando parliamo di animali”), spiega l’animalità antica in un’accezione inclusiva. Il secondo capitolo (“Le zoologie prima della zoologia”) analizza, invece, con rapidità il tema della zoologia nel mondo antico. Per quanto concerne il terzo, densissimo capitolo – quasi un “trattato nel trattato” – (“L’anima e la carne. Zoopsicologia e relazioni uomo-animale nel mondo antico”), notiamo che l’autore dedica molte delle sue energie nel tracciare una vera e propria storia delle teorie sulla «mente» animale in età greco-romana.
Il palinsesto di domande con cui si apre il suddetto terzo capitolo (ne riportiamo solo alcune: «Gli animali avevano una mente simile a quella degli uomini? Ragionavano? Avevano capacità di comunicare, ricordare il passato, pianificare il futuro? Avevano capacità percettive? Provavano, cioè, dolore, emozioni, piacere? E quali erano i giusti comportamenti da tenere nei loro confronti da parte degli umani?») ci dà un’idea approfondita del lessico utilizzato dal pensiero antico per descrivere la natura degli animali in relazione a quella che i Greci erano soliti chiamare psychê, e i Romani animus (anima): un termine che – osserva Li Causi – al giorno d’oggi sarebbe più adeguato tradurre con «mente» più che con «anima».
Il quarto capitolo (“Gli animali nella vita quotidiana in Grecia e a Roma”) affronta prevalentemente la questione della civiltà materiale: dall’allevamento alla caccia, dal sacrificio agli spettacoli, dalla guerra alla magia, dalla medicina al rapporto con gli animali di affezione. Negli ultimi due capitoli, si approfondisce invece l’analisi su quegli animali «il cui statuto, agli occhi degli antichi, risultava vano ed evanescente»: si tratta, ad essere precisi, del mondo degli animali «lontani nel tempo» del mito e degli animali «lontani nello spazio» la cui presenza era attestata alla fine dell’ecumene. Sono pagine in cui l’autore dà libero sfogo al suo talento narrativo, che è un tutt’uno con quello ermeneutico, confrontandosi, con lucidità e tensione argomentativa, non solo con i principali pensatori dell’antichità, a partire da Aristotele, da Lucrezio o da Plinio il Vecchio, ma anche con alcuni tra i più attivi esponenti dell’antropologia storica e della filosofia contemporanea in Italia. Ci limitiamo a ricordare, a tale proposito, i nomi di Maurizio Bettini, filologo classico dell’Università di Siena e autore di diversi, fondamentali, studi sull’antropologia del mondo antico, alcuni dedicati alla mitologia e alle credenze antiche sugli animali, e di Felice Cimatti, filosofo del linguaggio e osservatore acuto dell’universo linguistico degli animali.
Il volume, insomma, ci presenta un viaggio nella mentalità degli uomini appartenenti a due tra le principali civiltà del Mediterraneo antico, accompagnandoci nel cuore di un sistema di pensiero, di valori culturali, di prospettive sul mondo e sulla vita, tra realtà e immaginazione, al punto da offrire allo sguardo interiore del lettore una sensazione di vicinanza «spirituale», oltre che culturale, con queste popolazioni, facendocele sentire ulteriormente vicine. È un mondo che, ancora al giorno d’oggi, continua a stimolare la nostra immaginazione. E non dobbiamo meravigliarci se, nella parte finale del volume, l’autore riporta il testo di una canzone di Marco «Morgan» Castoldi, dei Bluvertigo: «Se non esistessero i fiori riusciresti a immaginarli? / Se non esistessero i pesci / riusciresti a immaginarli? / In altre zone di questo universo / (è facile da realizzare) / esiste tutto ciò / che io non riesco ancora a immaginare. / È praticamente ovvio / che esistano altre forme di vita» proponendo un’analogia con un passo del De natura deorum di Cicerone. La familiarità con il mondo degli antichi continua, anche in questo senso, a essere sorprendente. Come la musica.