Era agosto del 2004, quando sulle pagine siciliane di Repubblica si sviluppò un dibattito intorno ad una proposta di legge regionale che prevedeva l’istituzione di un museo dei migranti a Lampedusa. A questa ipotesi reagì con la forza passionale che accompagnava il suo impegno civile Vincenzo Consolo, che scrisse: «Cosa ci metterebbe dentro quel museo di Lampedusa la signora deputata dell’Udc? Ci metterebbe tibie incrociate e teschi?» E aggiunse ironicamente: «Come sarebbe bello un museo dell’immigrazione a Lampedusa! Ah, come ci scaricherebbe dai sensi di colpa quel museo!». E alla replica della deputata Consolo alzò ancora i toni, definendo quella iniziativa «retorica e ipocrita. È retorica pensare a un museo nel momento in cui il dramma dell’immigrazione terzomondista nel nostro crasso e ameno Paese è in atto, dramma che presumo in futuro sarà sempre più acuto: i1 Terzo Mondo, l’Africa, da noi europei dominato e sfruttato in passato sta morendo ora di fame, dì malattie, di guerre. È ipocrita pensare a un museo in questo nostro indecente Paese perché in esso vige una legge razzista e disumana che si chiama Bossi-Fini» E concludeva: «Un museo, signora deputata? Un monumento piuttosto a quella giovane madre africana, alla madre africana che affida alle acque il corpicino del figlio morto sulla carretta del mare durante il tragico viaggio della speranza».
All’indignata risposta di Consolo seguì sul quotidiano una discussione a cui parteciparono voci e pareri diversi. Leoluca Orlando guardò con favore all’idea di realizzare un museo dell’accoglienza «sull’esempio di quanto fatto a Ellis Island». Non diversamente Andrea Camilleri si disse sostanzialmente d’accordo su una fondazione a Lampedusa di un’istituzione a salvaguardia della memoria dei fatti che stanno investendo la piccola isola. L’antropologo Franco La Cecla espresse la sua contrarietà perché invece «di costituire società di soccorso, di aprire una rete di solidarietà perché nessun bambino o adulto anneghi più, sembra di essere di fronte alla proposta di spettacolarizzare il massacro, di farne una buona occasione culturale». Ma più dure e taglienti furono le parole di Nino Fasullo, direttore del periodico cattolico “Segno”:
«Sul museo degli immigrati ha perfetta ragione Vincenzo Consolo: cosa ci metterebbero dentro? Le ossa e i teschi, scientificamente classificati, gli stracci smessi quando li hanno portati nei centri di raccolta, il racconto delle loro pene, le lacrime delle loro disperazioni. Che idea bizzarra questa del museo! E anche incomprensibile. Un museo si mette su quando si vogliono conservare oggetti di epoche passate appartenuti a uomini e fenomeni storicamente conclusi, i quali, appunto, fanno memoria. Ma gli arrivi dei poveri in Sicilia non appartengono alla storia. Sono solo tragica persistente cronaca di cui, come esseri umani, non possiamo che vergognarci. Fanno parte della scarsa moralità dei nostri politici (e non solo). Il discorso, allora, può restringersi a questo: non è tempo di musei e fondazioni. È tempo di politica, di iniziative concrete e efficaci, di cui ognuno deve rendersi responsabile. Tutto può attendere, tranne i poveri, da qualsiasi Paese provengano».
L’ampiezza delle citazioni restituisce alcune sfumature delle diverse posizioni assunte rispetto alle questioni poste dall’idea di dare una forma museale al fenomeno delle migrazioni, emergenza della cronaca che incede già prepotentemente nella storia. Pochi giorni prima, un lungo braccio di ferro diplomatico tra l’Italia, Malta e la Germania aveva costretto la nave Cap Anamur, dell’organizzazione umanitaria, a restare al largo con un carico di 37 naufraghi sudanesi salvati da un gommone alla deriva tra la Libia e Lampedusa. Impedita ad attraccare dal governo italiano, dopo estenuanti trattative la nave decise di forzare il blocco e di approdare a Porto Empedocle. Allo sbarco seguì l’arresto del comandante, del primo ufficiale e del presidente dell’associazione, accusati del reato di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina e rilasciati solo dopo alcuni giorni. Si avviò un provvedimento giudiziario che durò cinque anni e si concluse con il proscioglimento degli imputati.
La guerra contro le navi delle Ong che ancora oggi si combatte viene dunque da lontano, come il dramma dei salvati e dei sommersi, dei naufraghi e dei naufragi. A Lampedusa che resta al centro di sbarchi e salvataggi non è sorto un vero e proprio museo delle migrazioni ma qualcosa di più e di diverso, un luogo di conservazione e di documentazione di oggetti, «appartenuti a uomini e donne in fuga da guerre, carestie e destabilizzazioni politiche». Così scrive Giacomo Sferlazzo, artista e attivista fondatore del collettivo Askavusa, che dal 2005 raccoglie testimonianze materiali del passaggio dei migranti a Lampedusa:
«Venire in contatto con quelle cose, fu per me l’apertura ad un nuovo alfabeto, un linguaggio muto e senza regole. Esperienza che avevo già vissuto, ma mai con questa potenza e con cosi tante implicazioni, ebbi l’impressione di avere a che fare con qualcosa di molto grande, come se mi fossi messo a tirare dei fili con cui erano collegate migliaia e migliaia di persone».
Dal cimitero dei barconi approdati nell’isola furono recuperati scarpe, sacche di tela, vestiti, pettini, medicinali, lattine, utensili da cucina, ma anche foto, carte, diari, lettere, libri di preghiere. Una collezione di cose povere, quotidiane, elementari, dentro un’esposizione asciutta, semplice, antiretorica. E perfino anti istituzionale, ponendosi e proponendosi contro ogni forma artificiosa di rappresentazione, anche se salvare gli oggetti e custodirli in una qualche maniera, collocarli su una mensola, isolarli o accostarli senza alcun corredo di pannelli e didascalie, e comunque sottrarli dal loro destino di consumo e distruzione e renderli visibili e ostentarli in un contesto diverso da quello usuale è già di per sé un allestimento, un metalinguaggio – direbbe Cirese – scelte e procedure che hanno a che fare con le operazioni museografiche, così che chi ritenesse che «le operazioni di prelevamento o isolamento sono comunque (e cioè sempre, in ogni caso, ecc.) operazioni di rapina, di espropriazione o al limite di etnocidio, chi ritenesse questo dovrebbe coerentemente rifiutare qualunque tipo di museo, giacché nessun museo può mai esistere senza prelevamenti o isolamenti di oggetti», per usare ancora le parole di Cirese.
Museo dunque, anche se di grado zero, senza nome, senza aura e senza pretese, un piccolo museo che sarebbe forse piaciuto anche a Consolo, un luogo nudo e spoglio, che non evoca né racconta, documento di se stesso, che nulla offre alla suggestione delle emozioni e agli equivoci della spettacolarizzazione. Altra cosa è il Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo che più recentemente è sorto a Lampedusa, sulla spinta del movimento nato dopo la strage del 3 ottobre 2013 e sulla base di un progetto concertato tra il Ministero dei Beni Culturali, la Regione Siciliana e il Comune. Qui gli oggetti sono dentro teche sapientemente illuminate, le sale suggeriscono al visitatore un percorso guidato, audio e video originali favoriscono una straordinaria esperienza sinestetica, a partire da una stanza in cui al buio si associano le voci concitate dei naufraghi e dei soccorritori insieme alle immagini proiettate sulla parete di fondo. L’effetto produce l’illusione di essere presente sul luogo dell’evento, di vivere sulla propria pelle l’avventura della traversata, la tragedia del mare. Grazie ai materiali forniti dalla Guardia costiera, dai Vigili del fuoco e da Medici Senza Frontiere, il museo dissemina tracce narrative ed emozionali (un sandalo, un rosario, i giubbotti di salvataggio…), comunica in particolar modo le speranze e i sogni infranti di quanti non ce l’hanno fatta, dei migranti che non sono mai arrivati. Un punto di vista pressoché inedito nel panorama dei musei delle migrazioni. Un museo non dei migranti ma dei naufragati. Una sorta di memoriale, di silenziosa presentificazione degli assenti, di elaborazione del lutto. Uno spazio di rappresentazione del mare, grande collettore delle fluttuazioni umane, dei movimenti della storia, delle tragedie quotidiane.
Raccontare le migrazioni dentro un museo è impresa quanto mai complessa e problematica, dal momento che nel fenomeno per la sua doppia e ibrida natura coagulano temi molteplici e diversi ma consustanziali, orizzonti distinti e distanti ma incrociati, letture e posture differenti tra cronaca e storia, sincronia e diacronia, luoghi geografici di partenza e di arrivo, emigrazione e immigrazione. A pensarci bene, non c’è forse materia più difficile da gestire e ribelle all’idea stessa del museo, se si riflette sulla genesi ottocentesca dell’istituzione museale che, nata in simbiosi con il concetto di nazione e di unità nazionale, è oggi chiamata a documentare la dimensione transnazionale delle differenze etniche e culturali, a gestire e rappresentare il valore per se stesso della varietà e del pluralismo delle identità. In tempo di sovranismi e di razzismi lo statuto del museo, qualunque esso sia, va indubbiamente ripensato e rifondato, in funzione di un rovesciamento della prospettiva eurocentrica e postcoloniale e di una decostruzione degli stereotipi connessi alla appartenenza dei beni conservati e alla definizione della cosiddetta etnicità. Le questioni si rendono ancor più eclatanti nel caso dei musei delle migrazioni che sono per antonomasia in dialogo o in contrappunto con la contemporaneità dalle evidenti e urgenti implicazioni geopolitiche.
Come rappresentare la mobilità dei popoli nel contesto delle attuali dinamiche della globalizzazione e della reviviscenza nazionalista è l’interrogativo da cui muove Anna Chiara Cimoli nel suo ultimo libro, Approdi. Musei delle migrazioni in Europa (Clueb Bologna 2018). Una interessante riflessione su linguaggi, codici, modelli, teorie e pratiche museografiche intorno a un fenomeno che all’incrocio di parole-chiave e di concetti nodali diversi – il viaggio, il mare, le frontiere, l’alterità, il colonialismo e il postcolonialismo etc – travalica i convenzionali costrutti culturali, tracima i confini temporali e geografici e impone una rilettura trasversale e multidisciplinare delle narrazioni storiche e delle memorie antropologiche.
«Ha senso – si chiede l’Autrice – tenere distinti musei dell’emigrazione e dell’immigrazione, così cristallizzandoli in un dato momento storico, o non si dovrebbe, invece, riflettere sulla mobilità (di persone, oggetti, materiali, idee) come tema antico e contemporaneo? In che modo questi musei possono davvero contribuire alla costruzione di società aperte e plurali, in tempi di populismo e di paura?».
A queste e ad altre domande risponde unendo la sua voce a quella di tanti altri studiosi, esperti e operatori che con i loro contributi disegnano una significativa carta topografica e tematica dei musei europei, offrendo una guida teorica e metodologica dei diversi modi di farsi carico della rappresentazione del fenomeno. Da Anversa a Genova, da Parigi a Farum in Danimarca, a Sant Andrià de Besòs in Catalogna, da Bremerhaven in Germania a Gdynia in Polonia la geografia dei musei più rappresentativi delle migrazioni intreccia puntuali dati etnografici e grandi scenari storiografici, originali interpretazioni artistiche e coinvolgenti stili narrativi, consumate retoriche ideologiche e accurate ricostruzioni ambientali. Una eterogeneità di approcci che getta luce all’interno del fare museologico, dei metodi e della progettazione, dell’oscuro lavoro curatoriale che dà forma e identità agli spazi, alle collezioni e alle esposizioni. Come «scostare la tenda e mostrare che cosa avvenga dietro le quinte».
Che le migrazioni siano un “fatto sociale totale” è tesi che trova la sua dimostrazione nella complessità dei linguaggi museografici, nella pluralità degli orientamenti scientifici, delle pratiche empiriche e delle tradizioni culturali. E nel passare in rassegna i diversi casi di studio, le diverse concrete esperienze europee, le diverse storie di fondazione e di sviluppo delle istituzioni, ci si interroga con insistenza sul senso radicale e profondo del museo, sul suo ruolo come espressione e frutto della cultura occidentale, sulla sua capacità di rendere conto di un fenomeno transcontinentale e transculturale, di una realtà umana che nella sua mobilità mette in comunicazione mondi materiali e simbolici diversi. È l’Europa tuttavia il baricentro fondamentale di tutte le letture museografiche, un’Europa che è meta e mito, terra oltre il mare, orizzonte della speranza e del futuro. Debole, se non del tutto assente è lo sguardo sui Paesi d’origine, sui luoghi da cui si parte, dove si creano le tensioni e le spinte a migrare. Ricorrente è invece la scenografia del viaggio con al centro l’icona metonimica e pervasiva della valigia, la rievocazione di stazioni marittime e ferroviarie, la raccolta di biografie e di memorie orali e oggettuali. Oggetti “aneddotici”, come sono chiamati nel museo tedesco di Deutsches Auswandererhaus, ovvero “di affezione”, per usare le parole di Pietro Clemente, manufatti apparentemente banali che traggono il proprio significato dalle vicende associate alla nostalgia o ai traumi dei loro proprietari. Vite private che diventano pubbliche, da singolari a universali, storie esemplari nella sintassi del discorso museale.
Quasi sempre inevitabilmente al centro di dibattiti sui flussi contemporanei, i musei delle migrazioni, più di tutti gli altri musei, sia che documentino o semplicemente testimonino, sia che denuncino o più spesso raccontino, sono luoghi destinati a sfidare e disgregare quella statualità che dovrebbero corroborare, quell’unità nazionale da cui muovono e giustificano la loro genesi, quella stessa idea angusta di comunità e di identità costretta dentro confini ottocenteschi. Nella sua critica a certa museologia tradizionale, Anna Chiara Cimoli si chiede se non siano del tutto superati «certi clichès che i musei ancora ripetono: gli oggetti dei migranti – le valigie, più recentemente i giubbotti di salvataggio e le coperte termiche – raccontati in modo emotivo e strappalacrime, la singola storia di successo (spesso imprenditoriale) come a dire “ecco, vedi?”, l’accento sui bambini, perché i bambini, si sa, fanno tenerezza».
Il rischio è quello di far scivolare sul piano mediatico e spettacolare il tragico teatro della vita, di deresponsabilizzare i visitatori attraverso le seduzioni delle emozioni, di produrre anche involontariamente visioni edulcorate della realtà, «un’estetica del dramma» – scrive Claudio Rosati nella Prefazione – «le ambiguità e le inevitabili tossine del post-colonialismo», immagini potenti ma caduche, parole efficaci ma effimere. La verità è che, nel confronto inevitabile: emigrazione del passato/immigrazione del presente, torna ancora più drammatica la domanda che ieri si poneva Vincenzo Consolo: si può museificare quanto è sotto il cielo di tutti i giorni ancora vivo dolore e rovinosa disperazione? Si può consegnare alla storia quanto è lacerante cronaca di sangue e di morte? Non c’è un problema etico prima che estetico? Una priorità di rilevanza civile su ogni altra istanza scientifica o epistemologica?
L’irruzione della storia contemporanea nei musei delle migrazioni impone oggi, in tutta evidenza, un mutamento dei registri, dei linguaggi, dei dispositivi, dei paradigmi, del ruolo stesso della istituzione, non più rassicurante nel suo ordine rituale e sequenziale ma piuttosto, al contrario, perturbante nel suo disegno sghembo e spaesante, nel suo potenziale di attivismo e di interazione con il pubblico, nella quotidiana opera di tessitura con le scuole, le università, le aziende, i centri sociali, le associazioni dei migranti, gli operatori.
«Non sarà un museo a fermare le morti in mare; – precisa Cimoli – non basterà, da solo, a formare le coscienze politiche degli elettori; non metterà in bocca le parole giuste per far sentire a proprio agio i minori non accompagnati, a volte sperduti e traumatizzati. Ma potrà contribuire a renderci più capaci di ascoltare e a mettere in dubbio le nostre certezze».
Se un museo è per statuto luogo dell’incontro con l’altro, con il diverso, con la rappresentazione della diversità, dentro un museo delle migrazioni si acuisce il senso e si esalta il valore antropologico di questa diversità, si mettono insieme voci, memorie e narrazioni diverse nel segno del plurilinguismo e del multiculturalismo, si riconduce infine ogni diversità negli spazi inclusivi e antiretorici della cittadinanza mobile. Apparentemente in contraddizione ossimorica con l’idea statica e passatista dell’istituzione, non c’è probabilmente luogo culturale che più compiutamente prefigura e prepara il futuro, proiettando le memorie nell’orizzonte più ampio delle collettività dalle appartenenze storiche e culturali plurime. Spazi elettivi degli sguardi incrociati, aperti a quanto costitutivamente “impuro”, i musei delle migrazioni sono destinati ad essere quei “musei come zone di contatto” di cui ha scritto James Clifford, non la traduzione materiale di un’idea universale bensì la forma mutevole di una categoria culturale occidentale impegnata nel dialogo interculturale, nell’accoglienza delle differenze e nella incessante ricerca delle connessioni.
«Una prospettiva di contatto [che] – secondo Clifford – vede tutte le strategie di raccolta della cultura come risposte a particolari storie di dominio, gerarchia, resistenza e mobilitazione».
Nel mondo dei musei delle migrazioni l’Italia arriva con il lungo ritardo prodotto da rimozioni storiche e tabù sentimentali, rappresentando l’esperienza che più di ogni altra, perfino più della guerra, ha investito direttamente o indirettamente tutta la comunità nazionale, qualcosa di cui vergognarsi, lo stigma di una condizione di povertà da cancellare dalla memoria. Pur non essendo ancora entrata nella dimensione del senso comune, tuttavia in anni recenti anche in Italia si è affrancata la figura del migrante da una rappresentazione prevalentemente romantica o pauperistica e si è dato spazio e visibilità alle storie di vita e alle scritture popolari. Gli orientamenti più avvertiti della storiografia convengono che le biografie private degli emigrati, con il loro vissuto e il loro immaginario, rappresentano un prezioso contributo al lento processo di costruzione dell’autobiografia pubblica della nazione.
Oggi, nella temperie delle mobilità globali, nell’alta e complessa sfida che impongono i tumultuosi e giganteschi spostamenti intercontinentali di intere popolazioni, di profughi, di esuli, di giovani, appare evidente l’esigenza etica e scientifica che nei musei civici che raccontano le emigrazioni italiane siano accolti e raccolti gli sguardi, le voci, i sogni di quanti abbandonando le proprie terre giungono nelle nostre vivendo altre traversate, eguali odissee e nuove aspirazioni. Da qui l’urgenza di un riposizionamento museografico attento ad un ampliamento dei codici di comunicazione, ad una revisione dei paradigmi progettuali, ad una riflessione sul senso profondo della sua azione. Da qui l’utilità delle pagine di Anna Chiara Cimoli che sollecita un dibattito su questioni destinate probabilmente a restare ancora a lungo aperte. Quanta memoria può essere condivisa dai migranti di ieri e da quelli di oggi? Come possono i musei rappresentare la memoria e l’identità in una prospettiva inter-culturale? Quale poetica e quale strategia museografica sono in grado di promuovere nuove forme di cittadinanza e inediti legami di appartenenza?
Si moltiplicano gli interrogativi senza risposte univoche o definitive. Dei diversi casi illustrati dal volume come modelli museali sperimentati in Europa l’autrice non sembra privilegiarne qualcuno in assoluto. Ci descrive piuttosto uno scenario, articolato e frastagliato, ci rappresenta un bisogno, umano prima ancora che scientifico, ci consegna un’istanza, che vale non solo per i museologi ma per tutti noi.
«I musei europei delle migrazioni – scrive Cimoli – sono spesso estremamente cauti nel reagire alla cronaca politica, e pare che il loro rifugiarsi nel passato, nel racconto storico, li possa mettere al riparo da una contemporaneità confusiva: quando a BallinStadt viene messa in scena, con costumi d’epoca, l’epopea degli emigranti di inizio Novecento, ci si chiede se sia folclore, cattivo gusto o solo una trovata per attrarre lo heritage tourism».
La studiosa sottolinea i paradossi di questi musei che immobilizzati in un passato teatralizzato non riescono a secondare la «rapidità con cui la cronaca contamina la storia chiedendo di reinterpretarla». Denuncia le ambiguità e «le difficoltà di raccontare biografie senza che diventino santini o camei che finiscono per assomigliarsi tutti». Diffida dell’abuso di tecnologie sofisticate (video, tappeti sonori, device multimediali di grande effetto) in alcuni musei che, per «alzare la temperatura narrativa», si espongono al rischio di confondere il valore del messaggio con quello del medium. Poche cose sembrano valere più di tante collezioni d’apparato, specie quando da sole offrono un contributo essenziale alla riflessione del patrimonio immateriale che è quello che più conta nella storia delle migrazioni.
Cimoli così ben sintetizza le linee guida dei nuovi orientamenti museografici, anche al di là del tema delle migrazioni:
«La collaborazione fra discipline, l’apporto vitale dell’antropologia, la partecipazione come metodo e non come slogan, l’educazione come atto creativo centrale e imprescindibile, il dialogo costante con tutto ciò che sta intorno al museo, la rigenerazione di luoghi abbandonati o silenziati: questi, alcuni degli elementi portanti della “nuovissima museologia” che si sta configurando».
In questo quadro i musei non possono essere solo diligenti conservatori del passato né tanto meno algidi testimoni del presente. Né sono fortini solitari o vuoti santuari, ma «punti su una mappa relazionale, nodi entro una rete», chiamati a aprire le porte, ad uscire per strada, ad estroflettersi, ad abbattere le pareti e migrare, farsi itineranti, ad ospitare perfomance teatrali, workshop e installazioni artistiche, a infrangere l’improbabile neutralità dei curatori e la presunta passività dei visitatori, per progettare e realizzare attività che contrastino pregiudizi e stereotipi, per ricordare diritti e dignità umana nella gestione della crisi dei rifugiati, per iscrivere, oltre l’orizzonte delle contingenze economiche e politiche, nella prospettiva della longue durée la millenaria ansia degli uomini di muoversi, di partire, di sfidare i divieti, di scavalcare i fili spinati, di superare i confini. Lo sapeva bene la poetessa polacca Wislawa Szymborska:
«Oh, come sono permeabili le frontiere umane!/Quante nuvole vi scorrono sopra impunemente,/quanta sabbia del deserto passa da un paese all’altro,/ quanti ciottoli di montagna rotolano su terreni altrui/ con provocanti saltelli!».
E mentre salgono i muri dell’odio e continuano a precipitare nei fondali i naufraghi che nessuno ha salvato, Lampedusa, questo scoglio sperduto al centro del Mediterraneo, resta la piccola Ellis Island d’Europa con i suoi barconi sfasciati e abbandonati e le croci nel cimitero a segnare il passaggio infelice di alcune migliaia di pionieri che hanno aperto la strada a quanti ce l’hanno fatta. Per ricordare questi morti di cui non conosciamo nemmeno i nomi e dimenticheremo presto le vicende, forse non è inutile cercare di identificare e salvare alcune tracce della loro esistenza, brandelli delle loro vite, schegge delle loro speranze. È in fondo quello che stanno pazientemente e faticosamente compiendo gli specialisti del laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labonof), impegnati nell’esame dei corpi recuperati dal peschereccio affondato a poche miglia da Lampedusa il 18 aprile 2015, la più grande tragedia umanitaria dove annegarono circa mille persone. Centinaia i corpi trovati nella stiva contratti in posizione fetale, stipati in cinque per metro quadro.
«Ogni morto – ha scritto la direttrice del Laboratorio, Cristina Cattaneo, autrice del libro appena uscito Naufraghi senza volto (Raffaello Cortina, 2018) – porta con sé la propria storia, gli ultimi gesti prima di partire o morire. Li trovi e scopri che sono uguali ai nostri. Nel portafoglio di un ragazzo del Gambia abbiamo trovato un passaporto, la tessera di una biblioteca locale, la carta dello studente e un certificato di donatore di sangue. Cucita dentro la giacca di un adolescente del Mali c’era la pagella in francese e chissà con quali aspettative l’aveva portata con sé. Ma ciò che mi ha colpito di più è stato un fagottino ricavato da una maglietta all’altezza dell’ombelico. L’aveva addosso un ragazzo eritreo di circa 20 anni e conteneva terra. Aveva portato con sé, come fanno molti suoi connazionali, un po’ di terra del suo paese».
Mettere insieme il certificato del donatore di sangue, la pagella scolastica del maliano, il sacchetto di terra del giovane eritreo, insieme ai frammenti del barcone ripescato ad una profondità di 370 metri, non può forse bastare a fare un museo ma sarebbe sicuramente sufficiente a spiegare attraverso le cose che avevano in tasca chi erano questi sconosciuti, quali progetti e quali desideri muovevano le sorti del loro viatico, quali valori e quali sentimenti nobilitavano le loro speranze. Sarebbe un piccolo contributo a tenerne viva la memoria, a risarcirne la violenza subita, a riscattarne la dignità umana calpestata. Un modo per tentare di saldare i debiti che ogni comunità conserva nei confronti dei migranti, di tutti i migranti di tutti i tempi. Perché, alla fine, a pensarci bene, un museo delle migrazioni non è che un modo – culturale, etico, politico – per sciogliere l’infinito e doloroso rosario di questi debiti.
Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. La sua ultima pubblicazione è la cura di un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (2015).
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