di Alessandro Lutri [*]
Nello scorso novembre alcune trasmissioni televisive delle reti pubbliche (Nemo su Raidue, e I dieci comandamenti su Raitre, Data room della Gabbanelli su Corrieredellaseratv) [1] hanno mostrato i volti di quelle persone e territori siciliani che a partire dagli anni Ottanta-Novanta hanno conosciuto sulla propria pelle le conseguenze delle ingiustizie (ambientali e della salute) perpetrate dalla modernizzazione industriale, diventando vittime del benessere. Stiamo parlando dei cittadini e dei territori costieri delle aree industriali di Augusta-Priolo-Melilli e Gela, a cui dalla fine degli anni Cinquanta è stata proposta come riscatto delle proprie condizioni economiche e sociali (quelle dell’agricoltura di sopravvivenza) il mondo della “speranza affamata” dal sogno industriale, che si sono confrontati con le profonde trasformazioni infrastrutturali apportate dalla costruzione dei siti petrolchimici industriali, che hanno fatto emergere una nuova classe di lavoratori, quella degli operai [2].
Le vittime del benessere [3] in Sicilia sono andate a unirsi ai cittadini siciliani vittime della mafia. C’è da dire però a onor del vero che se la vita biologica e economica-sociale dei cittadini vittime della mafia è stata assoggettata agli interessi criminali delle cosche mafiose, questi interessi nel corso del tempo hanno conosciuto un certo indebolimento per merito sia dell’azione repressiva delle forze dell’ordine e giudiziarie, sia della pedagogia della legalità (ma molto meno da parte delle forze politiche ed economiche) [4], producendo a seconda dei singoli contesti un certo miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Al contrario, nel caso di alcune delle vittime del benessere l’assoggettamento continua a operare sulla propria esistenza [5], rendendoli poco capaci di avviare attività produttive estranee al mondo industriale.
Le profonde trasformazioni esistenziali e territoriali sono state propagandate con toni mitopoietici da quel blocco sociale costituito dalla classe politica, imprenditoriale e intellettuale meridionale, che ha attinto al mito modernista della magia del petrolio [6] per cercare di persuadere i lavoratori agricoli locali. Un mito modernista verso cui gli studi antropologici (siciliani e italiani) hanno espresso un forte disinteresse (ritenendolo più di competenza degli studi economico-sociali [7], rivolti per vocazione verso il mondo presente e futuro), orientando il proprio sguardo, al contrario, verso quelle permanenze culturali e sociali del mondo rurale, prodotte dalla memoria lunga tramandatisi nel tempo [8].
Recentemente proprio dall’interno della ricerca sociale siciliana si è manifestata una inversione di tendenza nei confronti dell’interesse verso il mondo industriale che da alcuni anni è sempre più in declino, per merito sia di singoli ricercatori sociali (antropologi e sociologi), accademici come il messinese Pietro Saitta (2011) e indipendenti come il giovane palermitano Tommaso India (2017) e il messinese Tindaro Bellinvia (2016), che hanno documentato in maniera critica sia la percezione e gestione del rischio ambientale sulla salute da parte della popolazione e delle istituzioni nel caso delle aree industriali di Gela di Milazzo, sia le conseguenze sulla vita economica e sociale dei lavoratori del territorio di Termini Imerese a seguito della costruzione negli anni Settanta dello stabilimento FIAT, sino ad arrivare ai giorni nostri con la sua lenta dismissione.
Vicino, ma allo stesso tempo diverso, dal lavoro di questi studiosi, recentemente si è costituito presso l’Università degli Studi di Catania un gruppo accademico di ricerca finanziato da un progetto di rilievo nazionale, il quale sta indagando sia le conseguenze esistenziali e territoriali dell’industrializzazione (anni Sessanta-Ottanta) sia le percezioni e reazioni della più recente deindustrializzazione (anni Novanta-Duemila) [9]. Un lavoro di ricerca che si caratterizza soprattutto per una certa sua riflessività etica e politica nei confronti della questione antropologica delle diseguali condizioni di vulnerabilità della vita e delle possibilità di cura delle popolazioni che vivono prossime alle aree industriali siciliane, prodotte dalle varie attività petrolchimiche [10].
Le recenti trasmissioni televisive di cui si è parlato hanno dato prova di quanto le questioni delle condizioni di vulnerabilità e delle possibilità di cura siano eticamente e politicamente molto implicate nelle loro indagini giornalistiche, e inevitabile occasione per accendere il dibattito pubblico. In questi servizi giornalistici, caratterizzati da una narrazione diversa tra loro, è stata fatta una precisa scelta, quella di dar voce a coloro che hanno ricevuto ben poca attenzione e ascolto dalle conseguenze della industrializzazione (i cittadini vittime del benessere industriale, gli attivisti ambientalisti, scienziati esperti e medici epidemiologi locali).
Questa attenzione mediatica come è avvenuto in tanti altri casi ha acceso il dibattito pubblico intorno alla comunicazione del rischio in aree già dichiarate dalle istituzioni a “alto rischio ambientale” rientranti nei cosiddetti SIN (Siti di Interesse Nazionale), non solo nel territorio locale ma anche in quello nazionale. L’attuale centralità sociale acquisita a livello globale dalla dimensione del rischio riguardo l’ambiente e la salute, per Andrea Cerase è una conseguenza del fatto che
«i rischi sono diventati sempre più invisibili e immateriali, perdendo la loro aura di calcolabilità fino ad acquisire un inedito potenziale catastrofico [il quale] produce risposte diversificate: gruppi e organizzazioni sociali elaborano culture del rischio estremamente fluide e diversificate, che fanno riferimento a una pluralità di norme, valori r credenze radicate nei diversi gruppi e contesti sociali» (Cerase, 2017: 91).
Nel caso qui in questione le culture del rischio che sono andate a manifestarsi hanno visto schierati criticamente contro questo tipo di comunicazione giornalistica il mondo della politica e delle imprese, ritenendo che questa provoca dei danni sui telespettatori, orientandoli verso il declino della deferenza, ovvero nello specifico verso la perdita di fiducia nei confronti delle imprese e delle istituzioni pubbliche (in particolar modo quelle preposte al controllo delle attività) [11]. Il tipo di cultura del rischio di cui sono portatori i suddetti attori sociali è legata al fatto di concepire ancora la comunicazione del rischio come uno
«strumento di persuasione, volto a correggere comportamenti e stili di vita ritenuti sbagliati […] un modello di comunicazione lineare, gerarchico, unidirezionale e deterministico, che postula la comunicazione come trasferimento di informazioni da un emittente esperto ed autorevole ad una serie di destinatari atomizzati, privi di competenza scientifica e dunque inclini all’irrazionalità e all’emotività» (Cerase, ivi: 92).
Il concretizzarsi di questa concezione della comunicazione si è avuto sia con la tempestiva pubblicazione a pagamento di un comunicato stampa dell’organizzazione locale di rappresentanza industriale, Confindustria Siracusa, motivato dalla negazione mediatica del diritto di replica, la quale a detta sua avrebbe causato la non veritiera e valida informazione inerente i controlli sulle emissioni, la sicurezza della salute dei lavoratori e dei cittadini, il degrado ambientale e lo stato delle bonifiche. Sia con la breve intervista rilasciata a una testata televisiva locale dall’attuale sindaco di Priolo, Pippo Gianni, nella quale questi ribadisce l’esercizio del proprio ruolo di “massima autorità sanitaria” locale [12], che, come dice la legge, «può anche emanare ordinanze contingenti con efficacia estesa al territorio comunale, in caso di emergenze sanitarie e di igiene pubblica» [13].
La negazione del diritto di replica a cui il comunicato stampa cerca di supplire ribattendo punto per punto le questioni critiche sollevate dai vari interlocutori coinvolti nella trasmissione televisiva I dieci comandamenti, andata in onda il 25 novembre, viene contrastata affermando che quest’ultima
«ha restituito una immagine distorta della zona industriale, suscitando ingiustificato scandalo ed allarme sociale, trascurando ogni minimo diritto di replica, non coinvolgendo le Autorità e le Istituzioni competenti (ARPA, Libero consorzio, ASP, Sindaci, Confindustria Siracusa), al fine di fornire un quadro d’insieme del territorio oggettivo, completo e basato su dati scientifici e verificati. Tutte le aziende della zona industriale e tutti quanti i loro fornitori sono oggi impegnati a operare nel rispetto delle leggi e delle normative vigenti con l’obbiettivo di promuovere il massimo impegno a favore della sostenibilità ambientale e della responsabilità sociale nei confronti del territorio nel quale operano» (tratto dal Comunicato stampa del 26 novembre 2018).
Come si può ben vedere l’estratto del comunicato stampa di Confindustria Siracusa non esprime minimamente nessuna responsabilità nei confronti dei comportamenti passati dei propri affiliati, le industrie dell’area siracusana, di cui sono stati ripetutamente accertati da parte della magistratura locale la nocività e i danni causati all’ambiente e alla salute della popolazione.
C’è inoltre da evidenziare quanto questo modo di rispondere non fa assolutamente i conti con il fatto che, come evidenzia Cerase,
«uno degli aspetti più caratterizzanti della società del rischio riguarda […] la frammentazione delle culture del rischio e la spinta alla individualizzazione, [i quali] ridimensionano il ruolo dello Stato nel controllo dei pericoli, mettendo in capo agli individui maggiori responsabilità nel prendere decisioni su come gestire i rischi».
Aspetti che nell’attuale epoca della comunicazione digitale fanno sì che «il significato sociale del rischio viene costruito dai media digitali, amplificandone o attenuandone conseguenze» (ibidem). Una riprova di questo sono i molteplici profili su facebook di attivisti spontanei ed esperti dell’area industriale di Augusta-Priolo-Melilli, i quali tra loro comunicano le loro percezioni del rischio orientandosi verso «uno scambio d’informazioni aperto, bidirezionale e negoziato tra vari attori […] volto a costruire un pubblico informato e consapevole» (ibidem).
Se lo spazio di comunicazione del rischio tra lo schieramento industriale e quello politico è abbastanza vivo, sebbene con toni e forme diverse, c’è da registrare come in questo ultimo dibattito pubblico la voce del mondo del lavoro (gli operai e le loro rappresentanze sindacali) è rimasta silenziosa. Un silenzio probabilmente motivato dal fatto che nell’ambito delle relazioni industriali esistenti in questi territori il ricatto occupazionale subito dal mondo del lavoro continua in un certo qual modo a essere un’arma strategica nelle mani delle imprese, per quanto ormai abbastanza spuntata visti i ridottissimi livelli occupazionali che in questo settore produttivo quest’ultimi riescono a garantire. Una delle conseguenze creata infatti dalla industrializzazione imposta dall’alto a questi territori è quella di non avere contribuito al loro sviluppo economico autonomo, mantenendo, al contrario, nel corso dei decenni, un forte legame di dipendenza economica e sociale verso le imprese industriali pubbliche e private presenti (Hytten e Marchionni 1970; Saitta, 2011; Trigilia, 1992). Un forte limite derivante dal privilegiare singoli settori produttivi come quelli petrolchimici, di cui solo attualmente il mondo delle rappresentanze sindacali e politiche sembra averne tardivamente preso coscienza, reclamando una programmazione politico-economica territoriale più differenziata e integrata, e non settoriale.
Al di là della attendibilità o meno di tutte le dichiarazioni rilasciate nel programma televisivo da attivisti ambientalisti e civici, scienziati e medici, oggetto di diverse contestazioni da Confindustria Siracusa e una parte della stampa giornalistica locale, la negazione del diritto di replica mi sembra di potere affermare sia il prodotto di una precisa scelta etica e politica dei curatori della trasmissione in questione: quella di dar voce alle vittime del benessere che non ci sono più (le cui vicende vengono narrate dai loro parenti, mogli e figli) e quelle ancora viventi ma sofferenti; sia a quegli esperti (scienziati e medici) che conoscono la situazione da vicino avendo avuto a che fare con pazienti malati e con condizioni di controllo e di sicurezza molto discutibili.
Riteniamo inoltre che se queste dichiarazioni fossero realmente del tutto inattendibili non si spiegherebbero le reazioni immediate sia della magistratura siracusana, la quale ha aperto delle nuove indagini per accertare la veridicità delle notizie veicolate dalla trasmissione televisiva in merito all’esistenza o meno di nuovi reati in materia ambientale, sia della Prefettura siracusana, la quale ha riattivato un tavolo tecnico sull’ambiente
«coinvolgente – come afferma il presidente di Confindustria Siracusa – le Istituzioni tecniche e scientifiche di rilievo nazionale, con l’obiettivo di porre rimedio a quei fenomeni olfattivi che periodicamente affliggono i nostri centri abitati recando disturbi e disagi alle popolazioni».
Tornando alla questione del cambiamento della comunicazione del rischio, i cui modelli e obiettivi, come sottolinea Andrea Cerase, «sono profondamente cambiati», concordiamo con questo studioso riguardo al fatto che l’attuale dibattito pubblico tra cittadini, comitati, organizzazioni di categoria e istituzioni possa conoscere dei toni e contenuti meno conflittuali quando le istituzioni e organizzazioni di categoria daranno prova di «attenzione al contesto socio-culturale in quanto dimensione cruciale per comprendere le risposte ai rischi di individui e gruppi». Prova che può concretamente manifestarsi orientando la comunicazione del rischio «verso uno scambio d’informazioni aperto, bidirezionale e negoziato tra i vari attori, volgendosi a creare relazioni di fiducia reciproca, che costruisca un pubblico informato e consapevole» (Cerase, ivi: 92) dei reali rischi in campo.