di Flavia Schiavo
Dall’immagine al senso
Le interrelazioni tra i diversi paesaggi (quello naturale e quello antropico) e tra le diverse fasi temporali, hanno sulle città un’incidenza rilevante. Il luogo originario, prima dell’insediamento, soprattutto se osservato in rapporto alla trasformazione urbana, non solo ne influenza la forma e la struttura, ma contribuisce alla genesi di una specifica “cultura”, agendo persino sui modi di vedere e sull’immaginario collettivo e dei singoli.
Se la città contemporanea, come afferma L. Mumford all’inizio degli anni Sessanta, è «a complex and unstable pattern», occorre riflettere su cosa sia o cosa entri nella costituzione del pattern e della sua variabile immagine. Sia la produzione di una presunta “identità” urbana, che di “simboli” [1], sono parte di ciò che determina il mutevole valore della città. E, oltre ad avere una stretta relazione con il paesaggio originario e con la storia, il valore, che in modo strumentale potrebbe definirsi identitario e simbolico, è fondato anche sull’osservazione visiva e sui “segni” (le immagini, le fotografie, i dipinti, i disegni) elaborati e rintracciabili nel tempo. Questi possono essere considerati dispositivi selettivi della memoria, di una “controstoria” che contribuisce alla comprensione e alla relazione delle persone con l’urbano.
Ovviamente lo sguardo sulla città produce un’enorme varietà di immagini e interpretazioni che vanno dall’estremo dettaglio al tentativo di catturare la “visione d’insieme”[2], dall’attenzione all’oggetto fisico o al soggetto alle “pratiche”: la città infatti è inesauribile, non solo per le sue qualità dimensionali, ma per la variazione nel tempo e per la “transitività cognitiva”. Essa, ancor più in città che nascono per ibridazione e meticciato, esprime una forte permeabilità relazionale.
New Yok City, certamente tra queste, specificamente dichiara, per necessità di fondazione e per cultura urbana, diponibilità all’accoglienza e alla variazione. La stessa organizzazione interna fa sì che essa estrinsechi alcuni livelli, usualmente impliciti, manifestando più apertamente, e sempre in divenire, cosa sia accolto e integrato e cosa sia ricusato e respinto. In tal senso i significati diventano un campo determinato, tra negoziazione, conflitto, simultaneità, differenziazione/integrazione, giocato in ambito più “orizzontale”; ambito che ha orientato il milieu, il luogo, gli individui e la collettività, verso l’acquisizione di un ruolo storicamente più radicato ed esplicito, sia come agenti della trasformazione, sia riguardo alla percezione.
Anche la rappresentazione urbana può essere intesa come espressione di tale sistema (negoziazione, conflitto, simultaneità, differenziazione/integrazione). In tal senso il corpus enorme e sgranato delle rappresentazioni è parte del discorso comune, un discorso che contiene le variazioni, gli impliciti culturali e gli irrisolti. A NYC ciò è visibile e, spinto alle estreme conseguenze, mostra gli aspetti creativi insiti nelle relazioni tra persone che manifestano culture non omologhe. Esse tra imprevisto, negazione, interpretazioni soggettive, variazione e costruzione anche dicotomica di scopi e significati, si dispiegano nel sistema delle relazioni trasformative avvenute e tutt’ora oggi in atto, in una tra le città più aperte, permeabili e rappresentate, tanto da configurarsi come una icona del Novecento.
L’instabilità di cui parla Mumford, è data, in sintesi, dalla complessità incrementale che contraddistingue le città in genere e che caratterizza NYC in particolare, complessità connessa al suo carattere precipuo, l’essere un luogo fortemente “instabile”, privo di solidi, astratti o invariabili nessi causali, e interrelazionale. La frase “identità culturale”, che in teoria si contrappone all’instabilità di cui parla Mumford, ha una forza retorica ma può essere discussa sia attraverso l’esperienza empirica newyorchese, sia a partire dalla distinzione, come afferma F. Julienne (2018), dei concetti di “scarto” (come passaggio) e “differenza” (come antitesi e contrapposizione). Affrontare la diversità culturale in termini di “differenza” o “appartenenza” (possesso della propria cultura) porta a isolare ogni cultura attribuendo a essa una specifica identità. Ma le specificità culturali, in un luogo permeabile e non isolato, come New York, sono in permanente trasformazione e in dinamica intersezione.
La cultura urbana si dispiega non in termini di immobilità e scontro, e nemmeno in termini di “identità multipla”, ma in termini di mescolanza, eterogeneità, ibridazione, invenzione. Ciò che si discute è, semmai, la parte che via via viene assunta come “comune”. La città, in effetti, non difende le differenti culture di appartenenza, ma la fertilità dell’incontro tra le persone, incontro da cui nascono risorse comuni. Babele, a volte utilizzata come metafora deteriore di uno spazio caotico dell’incomunicabilità, a New York manifesta, di contro, un valore stimolante. Il caos apparente, oltre a presentare alcune conflittualità irrisolte, genera un linguaggio che non necessita di “traduzioni” omologanti a una lingua originaria, né di arroccamenti mirati a conservare le identificazioni e le appartenenze. In tal senso gli “scarti” culturali aprono possibilità nuove e mettono in crisi il dogmatismo, mentre mettono in tensione le esperienze e i concetti stessi.
In questo contesto composito ogni storia è parte di un percorso conoscitivo che, per approssimazioni successive, può puntare solo a immagini fluide che nascono da differenti pulsioni e scopi. L’osservare e il rappresentare non sono mai neutrali: lo “sguardo” e le sue tracce, infatti, pur nella loro parzialità, possiedono ricadute concrete e sono parte di un sistema di feedback e retroazioni che, oltre a generare la mutevole anima culturale di un luogo (il suo genius loci) multidimensionale com’è la città di NYC, incidono, come già detto, sui modi della trasformazione. In tal senso ogni esperienza connessa al guardare e al rappresentare, tra l’estetico, l’emozionale e il cognitivo, può essere esplorata come riflesso di un articolato insieme che si relaziona con la cultura in divenire (in quanto la città è un sistema aperto), con i comportamenti, con le credenze, con le produzioni artistiche, con la tecnologia e con la scienza e con il suo paesaggio originario, cioè quell’ambito primario in cui la città s’insinua e cresce. Il processo visivo di rappresentazione urbana, che si avvale di numerosi strumenti (la veduta, la mappa, la cartografia zenitale) e tecniche (pittoriche, grafiche, fotografiche) non va ricondotto, ovviamente, solo a una questione cronologica, ma risente di numerosi fattori, e riflette, comunque, la volontà di comprendere la città e la sua trasformazione, un oggetto dotato di vita subordinata con il quale si è in relazione.
Tra le città del Novecento, NYC è quella che ha maggiormente declinato, ponendoli su un livello complanare, il travaso tra storia e contemporaneità. Quel trasferimento che nelle città europee è stato un passaggio violento e sofferto a NYC si è risolto con altre modalità e con la formazione di un innovativo “linguaggio” urbano. New York, potrebbe dirsi, è una “casa” senza muri: accoglie e declina il proprio valore simbolico “primario” (quello che la città assume quando il suo ruolo si definisce e stabilizza) in modo variabile e lo restituisce in rivoli diversificati mantenendo la stretta relazione con la percezione umana e culturale. In una città vitale questo valore viene costantemente ridiscusso, è in parte soggetto a modificazione e si trasforma in base alle relazioni che la città intrattiene con il mondo. In alcuni casi ciò avviene attraverso totali stravolgimenti (Dubai, era in origine un villaggio di pescatori, che si muta nella città contemporanea) in altri casi tramite un arduo rapporto con il proprio incombente fantasmatico passato (Roma, che tenta di declinare con continuità il proprio “archetipo”). L’interezza urbana, la conservazione, la negazione, il ripensamento del proprio senso, pur essendo irrappresentabile nella sua totalità, costituiscono allora una sfida e insieme un limite verso cui tendono le città e le raffigurazioni urbane, sia complessive sia di dettaglio.
Come rappresentare una città? E come affrontarne la complessità, anche attraverso la sua “rappresentazione”? Soprattutto quando essa sia contraddistinta da una natura fortemente mutevole?
Riflettere sull’immagine di una città come New York, città che pienamente incarni i caratteri prima esposti, equivale a esplorare un album di fotografie di una persona che abbia avuto, e ancora abbia, una lunga e complessa esistenza, un articolato passato familiare, che viva in un presente multi-diretto verso un futuro imprevedibile fatto di innumerevoli componenti e che racconti innumerevoli relazioni.
Per esplorare la “lezione” che New York ha dato al Novecento, innovando nel complesso la cultura urbana, potrebbe essere proficuo osservare come in analogia, durante il XX secolo, il romanzo, inteso come ambito di sperimentazione della stessa rappresentazione, abbia riformato le strutture del racconto. Borges, con l’esposizione a spirale e con la meta-narrazione, mette in relazione la logica con l’eresia, tramite vie oblique in cui la “sua” Babele pone in essere l’inesauribile e il limite, lo stupore e la “normalità” dello spazio. Il dominio di una ragione illusionistica manifesta quanto l’urbano possa essere qualitativamente illimitato e insieme ripetitivo. La “pagina vuota” della città al momento della sua nascita si riempie di “segni”: Perec e Queneau, e in Italia Calvino, esplorano in letteratura questo campo. Il disallineamento con il pregresso, che non viene nemmeno realmente considerato, in quanto il tema costante della città è il suo farsi.
I “lettori” sballottati in cerca di un approdo, osservano New York: un enigma costituito da incongruenze logiche e ibridazioni. Eccesso o penuria? Villaggi ramificati? Metropoli? Unità o frammento? Per districarsi in questo affascinante labirinto, tra immagini e corrispondenze è, forse, opportuno indentificare alcuni percorsi di esplorazione. In questo caso essi si dirigono verso l’opera di due autori, molto differenti tra loro, sono un insider e un outsider, L. Mumford e Le Corbusier; e verso un oggetto precipuo della rappresentazione newyorchese: lo skyline. Una forma specifica e rinnovata di “veduta” che nella grande metropoli americana ha trovato pieno compimento: potrebbe dirsi che lo skyline contemporaneo nasce a New York, nel rapporto tra paesaggio originario e sviluppo urbano.
Mumford (1895-1990) che tenne su «The New Yorker», per un trentennio, una rubrica, oltre a avere rinnovato in modo fertile il campo delle discipline territoriali, tendenzialmente, in «The Sky Line» (questo è il nome della rubrica, sul popolare Magazine) si occupò di questioni più specifiche, così come altri prima di lui, ad esempio W. C. Bryant, e con spirito civico avevano fatto. Con l’atteggiamento proprio di un insider, Mumford, infatti, percepì e descrisse la città “dall’interno”. La abitava e ne leggeva la trasformazione in termini assai differenti dall’europeo Le Corbusier (1887-1965) che giunse per la prima volta a NYC nell’autunno del 1935, quando aveva già consolidato la propria idea dell’architettura e dell’urbanistica. Egli, come molti dei visitatori a NYC, colti e non, guardò la città con stupore e, pur cercando le regole ordinative del caos (come qualunque tra i padri del Movimento Moderno avrebbe fatto), esperì l’impatto di NYC, come se questa fosse un dirompente fenomeno naturale:
«New York è una città in piedi, sotto il segno dei tempi nuovi. È una catastrofe, ma è una catastrofe bella e degna: quella in cui un destino troppo affrettato ha finito per opprimere gente di fede e di coraggio. Niente è perduto: New York si agita nelle sue difficoltà. Madida ancora del sudore di una tale fatica, essa è al punto in cui uno asciugandosi la fronte intravvede la propria opera e improvvisamente pensa: mi è andata male; daccapo! New York è in forma, e in tale stato di coraggio e di slancio che tutto può ricominciare, esser posto di nuovo in cantiere, e camminare verso qualcosa di più grande ancora, ma ben dominato! È gente che non sta per addormentarsi. In realtà questa città non ha più di vent’anni, la città che intendo io: quella che è in piedi, alla scala dei tempi nuovi».
Da un lato il quotidiano e il suo valore universale, che emerge dagli scritti di Mumford; dall’altro l’eccezionalità, lo choc e il valore totalizzante e straniante dell’unicità newyorchese, le cui tracce si ritrovano pienamente nel volume di Le Corbusier, Quand les cathédrales étaient blanches. Voyage au pays des timides, pubblicato nel 1937, nel quale si rileva l’antitesi con la città europea, si critica apertamente New York City, si manifesta stupore e meraviglia, si punta, sulla scorta dell’analisi urbana, a elaborare un modello servile all’idea di città che già l’architetto svizzero aveva concepito. Le Corbusier, con l’eccezione del suo esser parte del gruppo che progettò il complesso delle Nazioni Unite, non costruì nulla in città, ma ebbe con essa un rapporto ambivalente, e indirettamente ne influenzò vari aspetti [3].
Alcuni quartieri, molti a Manhattan e molti di essi edificati sui confini dell’Isola (e dunque visibili nello skyline urbano), contraddistinti da gruppi di torri nel verde costruite soprattutto tra gli anni Quaranta e i Settanta, testimoniano, sebbene a volte in termini deteriori (il social housing voluto da Roger Starr, ad esempio), gli ideali della sua “Ville Radieuse”. L’architetto espresse in tal senso il suo pensiero, sostenendo quanto le sue idee avrebbero trovato in America il «loro naturale terreno». Critico riguardo a New York, anche prima del suo arrivo, Le Corbusier si espresse con forza nei confronti di uno dei must newyorchesi, i grattacieli, non intesi come semplice “tipo” architettonico, ma osservati come parte sostanziale del sistema urbano. Secondo l’architetto, infatti, essi erano troppi e privi sia di identità architettonica, sia di spazio libero alla base.
«Il grattacielo» sosteneva «non è un pennacchio da mettere in testa alla città (…). Il grattacielo è invece uno strumento. Strumento magnifico di concentrazione di persone, di decongestione del suolo, di ordine, di efficacia interna, una sorgente prodigiosa di miglioramento delle condizioni di lavoro, creatore di economia e per questo dispensatore di ricchezza. Ma il grattacielo-pennacchio, moltiplicandosi sul territorio di Manhattan, ha screditato l’esperienza. Il grattacielo di New York ha fatto torto al grattacielo razionale che io ho chiamato: grattacielo cartesiano».
Anche Sigfried Giedion nel suo Space, Time and Architecture, critica il grattacielo newyorchese affermando quanto esso fosse: «lacked scale, dignity, and strength… where [it] went astray was in the exaggerated use of the tower, with its intricate mixture of pseudo-historical reminiscences and its ruthless disregard of its surroundings, as well as of the entire structure of the city»[4]. Eclettismo, verticalizzazione, assenza di considerazione sia per lo spazio intorno agli edifici sia per la struttura urbana, sono gli attributi che Le Corbusier e Giedion utilizzano per descrivere NYC che cresceva all’incrocio tra fatti diversi e dicotomici, senso civico, spregiudicata azione capitalista, speculazione, rapidità, circostanze fortuite.
Il grattacielo di Le Corbusier (come la Ville Radieuse) è soggetto a un ipercontrollo: sui materiali, sulla tecnica, sulla dimensione (il grattacielo deve essere grande), sull’orientamento (gli uffici a nord), sulla presenza di finestre e sull’insolazione, sulle altezze massime consentite (circa sessanta piani), sulla forma, che nega il setback inutile nell’organizzazione che l’architetto svizzero prevedeva, riguardo alla distanza prestabilita tra gli edifici. In tale sforzo supremo di codifica, affermando quanto New York fosse priva di armonia, Le Corbusier evidenziava la distanza dal “suo” modello, marcando con le sue parole quello stesso disorientamento critico in cui, da un lato, riecheggiava la “voce” di H. James in The American Scene, dall’altro emergeva il disallineamento cognitivo che suscitava e ancora suscita l’impatto del difforme linguaggio urbano newyorchese.
Sia che si tratti di una persona comune sia di un Maestro europeo del Movimento Moderno, com’era Le Corbusier, dall’ibrido paesaggio urbano, anticlassico e anti monumentale per eccellenza, privo di un disegno sovraimposto, promanava un’energia diversa, rispetto alla città europea: assenza di controllo metrico e quantitativo dello spazio (compiuto attraverso il Piano e il Progetto); governo urbano organizzato secondo modalità diverse da quelle delle città europee; differente intreccio con il Capitale, la finanza, i sistemi di produzione e con l’Informazione; diverse modalità di localizzazione dei nodi della produzione; altra organizzazione degli spazi sociali (confini più permeabili); differente rapporto con la corruzione in ambito urbano e con il controllo del “lavoro”; e inoltre “porosità” e “compenetrazione” tra edifici eterogenei e tra spazi eterogenei; sostituzione semplificata e ripetuta di edifici storici; assenza di enfasi monumentale; nessun reale controllo sulle altezze o sui distacchi; azioni individuali o portate avanti dalla “gente comune”; poche prospettive assiali intenzionalmente costruite (come a Parigi); moltiplicazione dei punti di vista identificati da una rete instabile di punti e linee, maglia non-lineare, né geometrica; altissima densità differenziale; elevato coefficiente di interdipendenza e differenziazione tra i Five Boroughs; spazi pubblici e giardini non contemplati da un Piano (come a Barcellona); assenza di eufonia classica (come a Vienna, Berlino o a Londra).
Ciò che NYC esprimeva era ed è: la distanza dal Piano, come era stato concepito post Rivoluzione Industriale, quale strumento di controllo dello sviluppo urbano; la distanza dal Progetto, così come la cultura francese post Ottocento o il Movimento Moderno l’avevano concepito; la distanza dal modello di controllo del potere istituzionale centralizzato, sulle trasformazioni urbane. Il Piano ottocentesco era fondato sulla concentrazione del potere decisionale, sulla determinazione degli esiti, su un disegno formale, a terra e in alzato, sulla determinazione di spazi pubblici. Il progetto del Movimento Moderno era incluso all’interno di un processo di conoscenza del reale; mirando all’analisi e alla sintesi, l’analisi stessa puntava ad esplorare il luogo che il progetto intendeva trasformare con l’opera di architettura, spesso concepita secondo un’ottica autoriale. In questo processo il “tipo” svolgeva un ruolo fondamentale perché strutturava la forma e la funzione, agendo potenzialmente sullo spazio urbano anche in termini di rapporti tra pieni e vuoti.
Se il piano e il progetto di architettura e la tipologia erano parte di uno statuto formale “trasmissibile” fondato su leggi e regole, lo stravolgimento del linguaggio urbano, sia per forma sia per realizzazione, che contraddistingueva NYC, sollecitava uno slittamento cognitivo ed emozionale colto come antitesi da un modello razionale, autoritativo, autoriale e predittivo, partorito dall’Urbanistica post Rivoluzione Industriale e dall’Architettura agli inizi del Novecento.
Lo skyline
La locuzione «The Sky line» venne introdotta, a New York, nel maggio del 1896, come titolo di una litografia di Charles Graham sul supplemento a colori del «New York Journal». L’espressione si diffuse rapidamente e nel 1897 Montgomery Schuyler, giornalista e critico attivo durante la Gilded Age, promoter non ingenuo e difensore dei nuovi edifici alti, scrisse su «Harper’s Weekly» in un saggio dal titolo The Sky-Line of New York, 1881-1897: «it is in aggregation that the immense impressiveness lies. It is not an architectural vision, but it does, most tremendously, look like business!» [5]. I grattacieli, sebbene avessero conferito a NYC un’immagine unitaria, non venivano sempre identificati uno per uno, ma erano riconosciuti come sistema aggregato dotato di enorme impatto evocativo riguardo al senso attribuito: quello economico.
Ma l’immagine urbana complessiva di New York nasceva prima della codifica verbale, grazie all’arrivo dal mare e alle vie di comunicazione che connettevano la città all’hinterland, registrando solo in seguito il rapido cambiamento avvenuto con la comparsa dei grattacieli e con il dominio della città verticale, osservata da più punti, man mano che essa si espandeva e si dotava di edifici scioccanti e significativi.
In un’ottica generale può essere sostenuto che lo skyline rifletta il cambiamento graduale della “veduta” destinata a trasformarsi in immagine contemporanea: da imago urbis a figura dell’immediatezza e della sincronicità. Tale metamorfosi iniziò intorno al XVIII secolo, quando la cartografia si era già affermata, con la diffusione dei panorami urbani, come quelli londinesi o parigini, per poi evolversi drasticamente con la fotografia. Lo skyline, in quella fase, iniziò a far parte della cultura di massa e fu largamente diffuso, non solo attraverso litografie, disegni o foto, ma con le postcards e nelle scenografie, a teatro e nel cinema. Storicamente, a una rappresentazione di insieme, prodotta a volte dopo una calamità che riguardava l’ambito urbano, era collegata la rinnovata celebrazione della “forza” civica o economica della città. L’immagine, anche in quel caso, si avvaleva di nuovi canoni che includevano nel paesaggio rappresentato alcune informazioni nodali necessarie ad orientare il sottotesto veicolato: la presenza della folla, il rapporto, ove esistente, con il contesto naturale (il cielo, l’oceano, le montagne, il fiume), l’enfasi monumentale di specifici oggetti urbani, di alcuni edifici, del porto.
Lo skyline realizzato con varie tecniche, ad esempio la “presa” da luoghi reali o immaginari, come la veduta a volo d’uccello, trovava il modo di rappresentare da punti nuovi e sempre più elevati la città in crescita. In tal senso, a NYC, una veduta del 1849, dal campanile di Trinity Church è un esempio emblematico, perché mette in evidenza l’importanza della chiesa e la dominante antropica del cityscape governato da una apparente geometria. Prima dell’invenzione del neologismo “sky line”, l’11 agosto del 1894 sull’«Harper’s Weekly» era comparsa una fotografia orizzontale di New York presa da Brooklyn; nello stesso numero della rivista un ulteriore disegno riproduceva il paesaggio urbano evidenziato nel sistema costruito dal livello del suolo, denotando con un numero e con il nome gli edifici più importanti.
In quella fase sono ancora i disegni, per la imperfetta tecnica fotografica, a rendere maggiormente i dettagli. Infatti è tramite un disegno del 1897, di Fred Pansing, commentato da M. Schuyler, con il saggio citato in precedenza (The Sky-Line of New York, 1881-1897), che viene reso l’insieme, il dettaglio e la relazione tra i singoli edifici nella New York metamorfica e potente, alle soglie del Consolidamento del 1898 che la rese enorme e unificata. Lo scritto di Schuyler che accompagnava tale efficace raffigurazione faceva, in parallelo, il punto sull’identità newyorchese marcando la differenza con le città europee: se in Europa la città appariva dominata da una cattedrale o da un castello, a NYC protagonisti erano un grattacielo sede di un Newspaper o di una Insurance Company. Se le città europee erano regolate da ritmo e geometrie, a NYC il caos denso dominava l’insieme e lo rendeva organico. Ciò che restava era una «impressione immensa», come affermava Schuyler, mentre le anime contrastanti di New York emergevano: da un lato si iniziava a introiettare nell’immaginario collettivo la presenza delle costruzioni di grande altezza, dall’altro i conservatori rilevavano il disordine e la sfida perenne nei confronti del modello della città classica (tipo ricorrente nel confronto tra New York e le “altre” città, comprese alcune tra quelle americane, es. Washington, D.C. o Chicago).
Figura generata dallo sguardo rivolto verso l’Isola di Manhattan da lontano o dall’alto o dall’interno della stessa Isola, lo skyline era ed è fortemente interconnesso con il paesaggio originario, con la forma e con la tridimensionale struttura in divenire della città. E potrebbe essere considerato tra i pochi dispositivi di “appercezione” d’insieme. Manifesta ancor oggi una frattura lessicale nella rappresentazione e inaugura, al momento della sua nascita, una nuova modalità del “vedere” e del “narrare”, concretamente attiva sulla storia urbana e sulla percezione di New York a livello locale e globale. L’affermarsi di tale “figura” visiva si genera alla convergenza di una serie di fattori, tra questi: la piccola dimensione dell’Isola, i fiumi, la vicinanza dei territori frontalieri (il Bronx, i Queens, Brooklyn, Staten Island; il New Jersey), la diffusione dei grattacieli, la presenza di economie in competizione che utilizzavano l’altezza degli edifici come qualità denotativa di potenza, il real estate market che prosperava per i flussi di investitori e di persone che sceglievano Manhattan per la localizzazione delle sedi di rappresentanza delle proprie imprese.
Non considerato come un’immagine unitaria e fissa che raffigura i “monumenti” come accadeva a Parigi o a Londra, a NYC lo skyline va osservato in sequenza, come una figura anticlassica e multipla che nel tempo ha manifestato più di ogni altra la concitata e rapsodica trasformazione urbana. Lo skyline “moderno”, che forse nasce a NYC, è una evoluzione della veduta contemporanea: più della mappa, è un oggetto estetico, cognitivo e più affine alla percezione soggettiva ed emozionale di chi abiti o attraversi una città. Ciò che emerge non è una summa tra differenze, ma una originale integrazione. Lo skyline è una specifica “impronta” urbana visuale che riflette l’intersezione tra polimorfe identità, in termini temporali, spaziali, storici, sociali, culturali ed economici. Sia nel passato, sia nella contemporaneità, gli edifici visibili da lontano, generatori di un sistema unitario, rivestono un preciso ruolo sulla determinazione del significato, dei vantaggi promozionali e competitivi di una città, esprimendo, nel tempo, i valori simbolici.
Lo skyline può essere definito come forma attuale di una specifica rappresentazione, la “veduta” che, soprattutto prima della mappa e della cartografia zenitale, restituiva una città o un territorio nel suo complesso. Intersezione tra un atto artistico e istituzionale, la “veduta” era spesso commissionata dagli organi di governo o inserita in rappresentazioni volute da differenti forme di potere, altre volte riguardava la necessità civica di rappresentare il luogo di appartenenza o di osservazione, utile al radicamento e all’orientamento spaziale, alla conoscenza o alla delimitazione delle proprietà o ancora mostrava la città nel “suo” paesaggio o era infine una celebrazione della bellezza, del potere urbano e dei suoi caratteri. La veduta, in termini generali, restituiva non solo le città europee, ma una pluralità di insediamenti, in quanto riflesso di culture locali ed esito di una diretta modalità di rappresentazione: immediatamente connessa al vedere, infatti, la veduta trasferisce su un piano ciò che la visione soggettiva registra.
Ancor prima della nascita della fotografia che ha moltiplicato e reso seminali gli skylines, l’arte, in particolare la pittura, ha rappresentato la forma urbis con restituzioni che, oltre ad avere valore storico, ci mostrano quanto esse non descrivessero il semplice corpo materico della città, ma dichiarassero il peso simbolico di un insediamento. A volte presenti come sfondo, altre volte come immagine dominante, gli skylines urbani hanno contraddistinto l’universo della rappresentazione umana. E hanno messo in evidenza il sistema di relazioni intrinseche che è costitutivo di ogni luogo abitato. Dalle città murate medievali, come San Gimignano o Siena rappresentata nell’allegoria di Ambrogio Lorenzetti, le vedute sono state tra i documenti più significativi per la interpretazione del fenomeno urbano, perché inclusivi e densi di informazioni, e a volte depositari del “volto pubblico” di una città. Connessi ad alcuni elementi comuni degli insediamenti, la posizione su un’altura, su una riva fluviale, o sul mare, gli skylines storici sono stati oggetto di rappresentazione di alcuni architetti o artisti: Carcassonne di Viollet-le-Duc, tra campi e vigneti; Edimburgo o la città di Londra o la Parigi ottocentesca sono “figure” dal cui esame comparato è possibile comprendere l’articolazione e le relazioni interne, le fasi, le fratture storiche.
In epoca contemporanea, quando la moltiplicazione dei mezzi di rappresentazione rende la forma urbana oggetto di analisi tramite la fotografia e il cinema, lo skyline urbano diviene occasione di costruzione di un contesto che, a dispetto dell’apparente generalizzazione, indaga i dettagli. Pasolini, ad esempio, nel documentario La forma della città del 1974, riprende lo skyline di Orte, riflettendo sulla trasformazione della forma urbis, comparando il paesaggio storico, evocato, e quello contemporaneo, cercando le “deformazioni” della storia.
Lo skyline non mostra solo le relazioni e la posizione dei fabbricati, ma la trasformazione e la costruzione di edifici eminenti o significanti. Evidenzia allora quanto il cambiamento della città agisca sulla propria rappresentazione complessiva e attivi, talvolta, un percorso di re-immaginazione, situandosi diversamente all’interno della mappa globale, del network degli insediamenti più o meno importanti. Il progetto e la sua rappresentazione, dunque, operano concordemente, non sempre coerenti ma sempre in relazione. Anche le immagini visibili e rappresentate rivestono un ruolo politico, attivando condizioni di rinforzo e/o negazione del senso di una città. Lo skyline non è, dunque, una rappresentazione innocente ma, comunicando cosa la città sia o stia per essere, attrae o respinge persone ed economie, produce cultura, mentre induce azioni e risponde a determinate questioni locali o globali.
Lo skyline, oltre ad essere una figura denotativa, è quindi un “ritratto culturale e politico”, era ed è l’immagine di un complesso feedback, attraverso cui una città è immediatamente riconoscibile. La sua trasformazione ci mostra quanto l’identità urbana sia variabile, quanto venga messa in discussione, in base alle opportunità e ai vincoli, alla cultura in divenire, e ci dimostra come da una immagine, o da una sequenza di immagini, si possa comprendere cosa sia accaduto, come abbia agito la linea del tempo, quali siano i settori di produzione emergenti, dove le forze socio-economiche abbiano lasciato tracce e dove esse richiedano, o abbiano richiesto, l’espansione e lo sviluppo fisico, dove e se, sia stata tutelata una immagine pregressa, e come, in alcuni casi, essa sia stata continuamente ri-sindacata tra fragilità e forza.
La trasformazione dello skyline può essere osservata anche come replica agli eventi e come termometro della rapidità del tempo della trasformazione urbana. Ogni città, infatti, ha un proprio specifico tempo cronologico. A NYC lo skyline costituito da grattacieli, non è una figura denotativa nata dopo la II Guerra Mondiale, come accade in altre città storiche, tra cui Parigi e soprattutto Londra, ma è un fattore determinante fin dalla fondazione. Sottolineando la relazione tra paesaggio primario e paesaggio antropico, egualmente determinanti nella formazione dell’immagine percettiva nodale, che per NYC potrebbe essere il sistema degli skylines, va considerato quanto conti la matrice geografica nell’immagine percepita. Certo non sono solo i caratteri geografici ad avere agito sulla potenza dell’immagine urbana ma essi devono essere considerati.
Punto di arrivo e di partenza, di persone, merci, luogo di sperimentazione e innovazione, fin dalla prima metà dell’Ottocento, New York si configurò come uno tra gli ombelichi dell’Occidente. Meta di migranti e hub di distribuzione, in e out di prodotti e di persone, la città divenne sede di rappresentanza, e di produzioni multiple. In questo percorso di potere, senso, configurazione percettiva, lo skyline ebbe un ruolo determinante. Soprattutto per la presenza di un territorio esteso che nel tempo contenne l’espansione e che fu configurato come unitario, pur fossero presenti innegabili soluzioni di continuità e confini specifici. Se il limite classico, pre Rivoluzione Industriale, la cinta di mura, venne negato in Europa con l’espansione urbana, anche per il ripensamento della relazione città/campagna, il bordo costituito da fiumi o dell’oceano non può con la stessa facilità essere cancellato. I ponti newyorchesi elementi di congiunzione, attraversamenti, passeggiate, anch’essi servili alla costruzione dell’immagine urbana, non annullano l’interruzione tra territori e paesaggi differenti. Potrebbe dirsi che la città di New York possieda due caratteri apparentemente antitetici: continuità e discontinuità che si integrano con novecentesca armonia in uno stesso ambito urbano non rapportandosi con alcuna forma urbis pregressa: a New York non esisteva, di fatto, nessun palinsesto da mantenere, il passato urbano aveva e ha un peso ben più leggero, anche se complesso [6], di quello delle città europee. Fu, inoltre, la stessa configurazione dell’Isola di Manhattan, la sua dimensione esigua, la relazione con il resto del territorio, oltre agli eventi stessi, a determinare la nascita dello skyline che ha nello sviluppo, nella geografia e nelle ragioni della localizzazione degli edifici alti, poi skyscrapers, la sua ragion d’essere.
Fin dal primo Ottocento i “grattacieli” iniziarono a comparire senza regole e senza distacchi, con una periodizzazione che vede l’uso di differenti forme e generazioni, trasformate sempre secondo una modalità eclettica e anti classica, sia nell’architettura sia nella disposizione a terra. Alcune soglie storiche possono essere ricordate, una dal 1849 al 1870, che contempla alcune differenziazioni tra il 1868 e il 1870; una seconda dal 1878 al 1880 quando la mansarda francese fu abbandonata e prevalse il tetto piatto o differenziato; un’ulteriore fase invece culminò con il 1916, anno fondamentale per l’adozione dello Zoning resolution e del setback che strutturò gli edifici alti, i grattacieli, attraverso una forma rastremata che impedì anche che le ombre portate degli edifici eminenti oscurassero le costruzioni circostanti, producendo un crollo del valore immobiliare; una fase successiva fu quella degli anni Trenta che produsse edifici iconici che agivano a livello del suolo, in alcuni casi, e soprattutto a livello del “cielo”. Dopo la II Guerra Mondiale cominciò a dominare uno stile internazionale, espressione di differenti intenzioni tendenti a dare vita a un differente sistema di skyscrapers fortemente differenziato, che ha reso più denso e complesso lo skyline e ha modificato interi ambiti urbani. Sempre utilizzando sostituzione, saturazione, conflitto tra differenti gruppi e comunità.
Un aspetto fondamentale nella formazione dello skyline newyorkese è l’attenzione alla parte sommitale dei grattacieli. La “testa”, elemento fortemente riconoscibile riveste nella città di New York un ruolo forse più importante dell’attacco a terra. Un ribaltamento, dunque, rispetto alla matrice storica della città, riconducibile alla città europea, che mostra un differente attraversamento visivo ed esperienziale, dato proprio dalla visione e dalla persistenza dell’immagine delle porzioni sommitali nella selva dei grattacieli, in competizione più in cielo che a terra, “attori” dell’icona urbana nel suo complesso. I “monumenti” newyorchesi, potremmo dire, non si colgono a livello del suolo, ma si percepiscono da lontano, tramite la molteplicità degli skylines.
Esistono, infatti, numerosi skylines. Alcuni interni, altri esterni. Come già detto i fiumi, l’Hudson e l’East River, la presenza di Staten Island, l’arrivo a Ellis Island dei migranti che vedevano per la prima volta la propria futura patria dal mare, cogliendone lo skyline urbano, la frontaliera Brooklyn, i Queens con il Queensboro Bridge, la selva dei ponti, determinano gli skylines esterni, la visione urbana a grande distanza, a volte mobile, perché prodotta da uno spostamento disvelante che consentiva e consente di scoprire via via gli edifici, i rapporti reciproci, il nascondimento di alcuni, sebbene enormi, coperti da altri che poi via via sparivano in una visione multipla e cinematica, fatta di lampi e occhiate improvvise, le quali, emotivamente, contribuivano e ancora contribuiscono alla sorpresa e alla formazione di un immaginario poetico collettivo, oltre che individuale.
Potenza, variazione, sorpresa, radicamento, affezione, rapidità, sono attributi urbani e sono i sentimenti che ognuno prova davanti agli infiniti skylines di NYC. Tra i ponti quello che inaugurò tale nuovo modo di vedere lo skyline, fu il Brooklyn Bridge che determinò un fortissimo impatto, sia modificando lo skyline urbano, sia come prima piattaforma di osservazione dall’alto. Nel ponte era infatti integrata una passerella sopraelevata per i pedoni, che offriva punti di vista in ogni direzione. Fin dall’inizio il ponte divenne una delle maggiori attrazioni di New York. In una città dove nulla era pianificato, dove lo spazio pubblico spesso era frutto di azioni individuali o collettive ma non era previsto dal Piano del 1811, la promenade sul Brooklyn Bridge assumeva un grande valore: consentiva ai newyorchesi, spesso confinati in strade gremite e dense di imprese capitalistiche, di stare all’aperto in una sorta di piazza lineare meno affollata da cui si godeva, in distanza, uno strepitoso panorama.
Altri skylines, invece, sono interni: quelli visibili da alcuni edifici alti, dagli Observation Decks [7] localizzati su iconici e accessibili grattacieli o su edifici storici (come il campanile di Trinity Church); o visibili dall’interno, da alcuni luoghi cardine di New York, tra essi il Central Park. In altri casi era ed è possibile determinare visioni dall’interno per la costruzione anche di un singolo edificio che agiva o agisce improvvisamente modificando lo skyline, e determinando cityscape d’insieme da un nuovo punto di vista. Tra essi il Flatiron, completato nel 1902, definì un nodo urbano “aperto” da cui guardare ampie vedute cittadine da un nuovo luogo riorganizzato. Tra gli skyline interni possono essere annoverati quelli che mettono in evidenza l’effetto canyon, lo strapiombo e la vertigine delle grandi altezze, enfatizzate dal rapporto con l’esigua larghezza delle strade. Grazie all’attraversamento è possibile, dunque, cogliere micro skyline interni che confermano i sentimenti di sorpresa e che rendono ingannevoli e fittizie le regole urbane. Apparenza, negazione, stupore. Contraddizione tra la regola della maglia ortogonale e la sua totale negazione, nella concitata rapidità del presente urbano, visibile e instabile. Che mostra come a NYC siano declinati il concetto di “centralità” e la stessa percezione.
Molti tra gli skylines newyorchesi sono figure condivise e consensuali. Immagini di un determinato luogo che le persone acquisiscono e conservano, o perché mutuate dai romanzi o da alcuni film. Sono quindi rappresentazioni culturali e insieme figure mnestiche. Tale fatto incide non solo sulla configurazione di un immaginario collettivo, nel caso di NYC attivo a livello globale, ma agisce sulle scelte di trasformazione e sui “programmi”: se lo skyline newyorchese è introiettato come figura iconica e metamorfica, il Governo urbano, gli investitori, la Finanza, spingeranno per la sua trasformazione. La modificazione è, in tal modo, esposta e si traduce in “spettacolo”, anche agendo sulle demolizioni e sostituzioni di contesti non redditivi, sulle localizzazioni e rilocalizzazioni di edifici alti, in aree centrali o diramate, raramente al di fuori di Manhattan. L’immagine comunicata dello skyline che veicola potenza, si genera edificando, cambiando e nel contempo tutelando alcuni edifici che hanno un potere innegabile sulla formazione dell’Icona: nessuna amministrazione demolirebbe il Brooklyn Bridge o il Woolworth Building, l’Empire o il Rockefeller Center.
Pur esistendo un lungo elenco di demolizioni di edifici notevoli (uno per tutti la Singer Tower, nata nel 1908, morta nel 1968), attualmente i portatori di interesse si concentrano, invece, su territori fragili ma centrali, dove la comunità non ha un ruolo tale da poter attuare difesa e appropriazione come invece accade a Harlem dove non ci sono edifici alti per il radicamento della black community. Diventa, in tal modo, interessante osservare come sia declinata e resa visibile la trasformazione e chi siano i fautori della stessa, dove gli edifici alti compaiano, dove siano eventi isolati, dove siano sistemici, dove, di contro, emergano altre azioni, comunitarie e non, di opposizione, di tutela, ascrivibili alla trasformazione ma di differente natura: esempi emblematici e dicotomici, il Bronx Museum (un edificio alto in un contesto dove prevalgono i condomini popolari); il sistema dei giardini comunitari (che tutelano i “vuoti” con un intervento bottom-up); Essex Crossing (un recente progetto che promuove una riqualificazione sconnessa dal contesto in cui sta sorgendo, Lower East Side, dove erano assenti gli skyscrapers sino alla costruzione di alcuni edifici che hanno innescato una variazione del contesto, tra essi The Blue Tower, in Norfolk Street, progettato da Bernard Tschumi, e inaugurato nel 2007).
L’osservazione della sequenza storica dello skyline, quindi, ci fornisce informazioni sul ruolo della comunità locale, sulla relazione con le preesistenze e sulla loro valutazione. Tale concetto può essere più chiaro se si guarda la timeline di localizzazione dei grattacieli. Inizialmente siti a Downtown, nel distretto finanziario, gli edifici alti, intorno agli anni Venti e Trenta, migrarono verso Midtown. Negli ultimi anni essi, in una città satura che tende a conservare poco le preesistenze, si sono localizzati, attuando una importante modificazione dello skyline (percepibile da più punti, sia interni che esterni a Manhattan), a Hudson Yards, mastodontico e recentissimo quartiere misto, affari e residenze, posto all’apice Nord dell’High Line. La costruzione di questo enorme distretto è stato previsto da una variante dello Zoning, ha comportato ingenti fenomeni di gentrification, ha espunto la comunità insediata che non è stata ascoltata, ha comportato un gigantesco giro di affari, ha uno stretto rapporto con la riqualificazione del viadotto sopraelevato (oggi l’High Line) e ha effetti di lungo termine indotti sul contesto, macro e micro, della città, persino a livello del microclima. Controverso per alcuni residenti, appoggiato e promosso dalla Città, ha un grande ruolo sulla percezione globale quale elemento denotativo di vitalità economica: le immagini dello skyline rinnovato da Hudson Yards, sono on line e fanno il giro del mondo, agendo come attrattore.
Anche tra le costruzioni storiche (es. il Woolworth Building o il David N. Dinkins Municipal Building), ve ne sono alcune che agiscono sulla determinazione del senso complessivo del luogo: lo skyline rappresenta la città nel suo insieme e, a differenza di alcune città storiche che conservano la propria forma pregressa, New York manifesta la propria eterogeneità. Una eterogeneità che ha una estetica e una forza simbolica che elude, travalica, le regole geometriche della città classica. Lo skyline in tal senso incide e permane, ma sfida la memoria e l’“occhio” a ricomporre il senso, come se in un testo poetico cambiassero alcuni termini, mantenendo la forza originaria. In tale testo, né indifferenziato, né omogeneo, alcuni “termini” storici racchiudono la potenza complessiva, mentre “termini” nuovi altrettanto potenti compaiono. Il già citato Brooklyn Bridge, esteticamente dominante rappresenta simbolicamente una delle porte dell’Occidente, la connessione tra due Distretti, Manhattan e Brooklyn, rimandando al Consolidamento del 1898, alla nascita della Greater New York. Il ponte è visibile da lontano; è attraversabile ed è occasione per la visione mobile di una molteplicità di skylines urbani; è stato fin dalla sua edificazione, elemento sul quale salire per osservare le nuove vedute urbane da angolazioni inesplorate. Il nuovo grattacielo del World Trade Center, costruito dopo l’11 settembre 2001, rappresenta la reazione a un attentato, celebra la memoria delle morti, ridisegna a grandissima scala uno spazio nodale per l’intera città e per il pianeta.
Gli skylines agiscono sul riposizionamento delle economie a livello globale, e possiedono una differente incidenza nel locale e nel globale. Per gli abitanti, infatti, l’esperienza del luogo si compie attraverso il quotidiano in contesti familiari. Le variazioni vengono registrate secondo una modalità più critica, che si misura con l’appropriazione, la fruizione diretta, il ruolo civico e politico che le comunità esercitano. Tale differente status attiva una risposta diversa rispetto alle trasformazioni registrate dagli skylines. Un esempio è dato dalle modificazioni post l’11 settembre 2001; il crollo delle Twins Tower e la saturazione del “vuoto tragico” di Ground Zero con il nuovo World Trade Center, hanno un diverso impatto sui residenti e sul mondo. Nel primo caso la ricostruzione rimanda a un dramma la cui memoria innesca paura, rabbia, dolore per la perdita umana, e per quella connessa a una porzione del paesaggio urbano che, dagli anni Settanta, aveva rinnovato una vasta area del Financial District, divenendo familiare, identitario, e innescando un radicamento attivo non solo a livello della percezione. Quel paesaggio introiettato, potente anche a livello planetario, è stato sostituito da uno scenario che agisce sull’immaginario globale come un indicatore di potenza e di capacità reattiva. Per i cittadini comuni riflette la cancellazione della storia e l’espressione di una forza speculativa che ha negato agli abitanti l’eventuale consenso e la partecipazione alle scelte; per la “macro società” internazionale riflette la “fallica” e autoritativa risposta americana a un attacco, il nuovo World Trade Center ha il proprio fulcro nella nuova One World Trade Center, nota colloquialmente come Freedom Tower, alta 1776 piedi. Se la comunità l’ha subita, essa ridisegna uno skyline diffuso a livello globale, ed è una chiara risposta di una potenza internazionale, dopo il crollo delle torri gemelle.
Mumford e Le Corbusier
Alla ricerca della restituzione dell’immagine di New York e del suo senso, cercando quali siano state o siano le “regole” dello skyline e della rappresentazione urbana, occorre tenere in conto sia la percezione visiva, sia la continua metamorfosi, influenzata, come già affermato, da innumerevoli circostanze, dalla rete di interconnessione, alla struttura sociale, agli incendi, all’assenza di leggi di salvaguardia delle preesistenze (sino al 1965), alle crisi di “Panico”, all’impasse urbana degli anni Settanta. Il multiplo “macro oggetto” che ne restituisce l’immagine della città, di insieme e di dettaglio, si produce tra oscillazione e convergenza tra la forma, la storia, le persone: le immagini dei frammenti e lo skyline. Esso potrebbe essere definito l’Urban Landscape newyorchese d’elezione, che consente di osservare la città in distanza e, nel contempo, avvertire l’intersezione tra l’insediamento inteso come “luogo umano” e come spazio dell’esperienza storica e percettiva.
In un certo senso lo skyline, sia visivo che verbale, è l’unica traccia osservabile, densa di contenuti permanenti e smarriti, evidenziabili dalla comparazione: l’osservazione in sequenza rileva la fragilità, la resilienza, la trasformazione e le sue ragioni. Se NYC ha una figurazione complessiva essa è racchiusa proprio nello skyline, la prima “fonte” da cui emergono il divenire culturale e sociale. E il “primo” paesaggio visibile, sul quale si strutturò il ruolo urbano a livello planetario. Il carattere con cui, sebbene in modo diverso sia Mumford che Le Corbusier si confrontarono, come ogni semplice viaggiatore o cittadino che abbia avuto a che fare con NYC, è proprio la visione di insieme e il portato simbolico comunicato da questa.
Chiunque visiti o abiti a NYC, infatti, si chiede quanto sia possibile conoscere e comprenderne l’interezza, esplorare l’identità culturale estremamente sfuggente, profondamente eterogenea e mutevole, e chiedersi se esista di tale presunta identità un traslato visuale o una “narrazione” in grado di fissare gli elementi portanti della cultura urbana newyorchese. Chiunque descriva, visiti o abiti a NYC si misura con una sfida “lessicale”: sfuggire al cliché, detestarlo come fosse una prigione cognitiva, e trovare una chiave interpretativa che restituisca la complessità culturale del XX secolo di cui la città è luogo nodale. NYC, infatti, potrebbe rappresentare la frontiera urbana di innovazione del Novecento, così come altre città, tra cui Roma, Londra, Parigi, Singapore, lo furono in momenti differenti della storia urbana.
In questa relazione tra il cliché e l’innovazione, tra il quotidiano e l’insieme, è interessante leggere un passo tratto dal volume di Le Corbusier, Quand les cathédrales étaient blanches. Voyage au pays des timides, e un passo, tratto dalla autobiografia di Mumford, Sketches From Life, in cui egli descrive una passeggiata giovanile, sul Brooklyn Bridge, il primo ponte storico che collega Downtown, Manhattan, con Brooklyn. Non si tratta di un semplice sguardo da una qualunque tra le infrastrutture di collegamento, ma un attraversamento su uno dei canali, esso stesso un simbolo, di interconnessione, tra due nuclei ancora autonomi al momento del completamento del ponte (il 1883). Fu infatti il Consolidamento del 1898 che costituì The Greater New York formata dai Five Boroughs.
La passeggiata sul Brooklyn Bridge, è una esperienza disvelante. E Lewis Mumford, nato nei Queens, guardando la città da lontano, si allontana dal vivere quotidiano e appare influenzato dall’unica possibile visione di insieme (lo skyline), che sia in grado di restituire il senso che la città, a livello globale, stava assumendo. Camminare e osservare Manhattan dal ponte allontana il giovane urbanista dal proprio ritmo problematico pieno di dubbi, e mostra la «fleeting glimpse of the utmost possibilities life may hold for man»[8], assoggettandosi al topos ricorrente che vedeva in NYC la terra promessa, il fulcro del sogno americano, la golden door, la “porta” della Nazione in crescita.
In termini più descrittivi, nello stesso volume, l’urbanista newyorchese restituisce un bozzetto complessivo della città:
«Yes: I loved the great bridges and walked back and forth over them, year after year. But as often happens with repeated experiences, one memory stands out above all others: a twilight hour in early spring – it was March, I think – when starting from the Brooklyn end, I faced into the west wind sweeping over the rivers from New Jersey. The ragged, slate-blue cumulus clouds that gathered over the horizon left open patches for the light of the waning sun to shine through, and finally, as I reached the middle of the Brooklyn Bridge, the sunlight spread across the sky, forming a halo around the jagged mountain of skyscrapers, with the darkened loft buildings and warehouses huddling below in the foreground. The towers, topped by the golden pinnacles of the new Woolworth Building, still caught the light even as it began to ebb away. Three-quarters of the way across the Bridge I saw the skyscrapers in the deepening darkness become slowly honeycombed with lights until, before I reached the Manhattan end, these buildings piled up in a dazzling mass against an indigo sky.
Here was my city, immense, overpowering, flooded with energy and light; there below lay the river and the harbor, catching the last flakes of gold on their waters, with the black tugs, free from their barges, plodding dockward, the ferryboats lumbering from pier to pier, the tramp steamers slowly crawling toward the sea, the Statue of Liberty erectly standing, little curls of steam coming out of boat whistles or towered chimneys, while the rumbling elevated trains and trolley cars just below me on the bridge moved in a relentless tide to carry tens of thousands homeward. And there was I, breasting the March wind, drinking in the city and the sky, both vast, yet both contained in me, transmitting through me the great mysterious will that had made them and the promise of the new day that was still to come.
The world, at that moment, opened before me, challenging me, beckoning me, demanding something of me that it would take more than a lifetime to give, but raising all my energies by its own vivid promise to a higher pitch. In that sudden revelation of power and beauty all the confusions of adolescence dropped from me, and I trod the narrow, resilient boards of the footway with a new confidence that came, not from my isolated self alone but from the collective energies I had confronted and risen to» [9].
In questo lungo frammento, dotato di forza poetica, emergono alcune delle figure ricorrenti di riferimento che strutturano l’identità “universale” della città, comune a ogni impressione. Essa emerge nella tensione, negli “scarti”, tra le visioni di insieme, possibili, forse, solo quando New York sia guardata in distanza e quando, comunque, si assuma anche in termini impliciti la relazione tra il “soggetto”, la città e il suo paesaggio originario. Il testo di Mumford, come quello di molti altri scrittori che tratteggiano NYC da lontano, tra essi F. S. Fitzgerald [10], può esser considerato un significativo “skyline letterario”, e dunque, una visione dalla quale emergano prepotentemente: potere e vitalità, energia collettiva, meraviglia, rapporto con la luce e con i caratteri naturali e inevitabili cliché.
Un insieme di qualità fluide, sintesi di ciò che per l’urbanista americano di meglio New York possa offrire, osservato da lontano, grazie all’attraversamento dal Brooklyn Bridge. Non è un caso che i ponti siano elementi centrali non solo nella costruzione di un sistema metropolitano, ma nella edificazione dell’immaginario; è infatti attraverso di essi che la città diventa un grande insieme, potente, unitario e differenziato, ed è attraverso di essi, nel mantenimento dei legami e delle interrelazioni tra i Five Boroughs, che nasce l’immagine di Manhattan.
Le Corbusier, guardando la città in distanza, la prima occhiata al suo arrivo, afferma:
«Lunedì mattina, quando il piroscafo Normandie si è fermato alla quarantena ho visto levarsi nella foschia una città fantastica, quasi mistica. ‘Ecco il tempio del nuovo mondo!’. Ma il piroscafo avanza e l’apparizione si trasforma in immagine di una brutalità inaudita. Certamente è questa la manifestazione più appariscente della potenza dei tempi moderni. Una brutalità e una barbarie che non mi dispiacciono del tutto. È così che iniziano tutte le grandi avventure: con un atto di forza».
Una eufonia nuova, destrutturata, un riempimento lento e non pianificato di una città che trova la sua massima espressione in una veduta, definita da Montgomery Schuyler, come una «collective vista, a work of art», «the single visual phenomenon which embraces the maximum amount of urban form.»
Due autori, De Certeau e Lévi-Strauss, tra i tanti che si sono misurati con New York, hanno ragionato intorno al duplice aspetto del cliché e della “posizione” (dell’osservatore), dimostrando come la città, che produce un suo proprio idioma, sfidi la “rappresentazione”, compreso quella “etnocentrica”, producendo un innovativo linguaggio verbale e visuale.
Il primo, De Certeau, in Camminare per la città (2001), guarda NYC dall’alto del 110° piano dell’estinto World Trade Center.
«È un’ondata di linee verticali. Un’agitazione che non si arresta, per un attimo al nostro sguardo. (…) New York non ha mai imparato l’arte di invecchiare giocando su tutti i passati. Il suo presente si inventa, di ora in ora nell’atto di gettare l’acquisito e di sfidare il futuro. (…) Salire in cima al World Trade Center, significa sottrarsi alla presa della città. (…). Ma coloro che vivono quotidianamente la città stanno “in basso”. Forma elementare di questa esperienza sono i passanti il cui corpo obbedisce ai pieni e ai vuoti di un “testo” urbano che essi scrivono senza poterlo leggere (…) è come se un accecamento caratterizzasse le pratiche organizzatrici della città abitata. Le intersezioni di queste scritture avanzanti compongono una storia molteplice, senza autore né spettatore, formata da frammenti di traiettorie e di modificazioni dello spazio, che in rapporto alle rappresentazioni resta quotidianamente e indefinitamente altra. Vi è un’estraneità del quotidiano, sfuggente alle totalizzazioni immaginarie dell’occhio, che è priva di superficie o è soltanto un limite avanzato, un bordo che si staglia sul visibile. Da questo insieme, cercheremo di sceverare le pratiche estranee allo spazio o delle costruzioni visive, panottiche o teoriche. Pratiche dello spazio che rinviano a una forma specifica di operazioni (“modi di fare”), a “un’altra spazialità” (un’esperienza “antropologica”, poetica e mitica dello spazio) e a una dipendenza opaca e cieca della città abitata: Una città transumante, o metaforica, s’insinua così nel testo chiaro di quella pianificata e leggibile».
Il secondo, Lévi-Strauss, nel 1941, in un maggio che l’antropologo definisce “tropicale”, descrive New York come «uno sterminato disordine orizzontale e verticale attribuibile a qualche sollevazione spontanea della scorza urbana piuttosto che ai meditati progetti dei costruttori»; rievocando Le Corbusier, Lévi-Strauss, manifesta il proprio disorientamento cognitivo sostenendo che NYC «non era una città, bensì, in quella scala colossale di cui si apprezza la misura solo quando si mette piede nel Nuovo Mondo, un agglomerato di villaggi. In ciascuno di questi si sarebbe potuto trascorrere un’intera vita senza uscirne, salvo, forse, per andare al lavoro».
Entrambi si rapportano con il tentativo di restituzione dell’intero: l’antropologo rievocando la metafora della catastrofe sovra-umana che rende NYC distante dalle città europee, descrivendone l’apparente frammentazione attribuibile alla presenza di comunità etniche definite, leggendo, però, l’esistenza di «affinità più segrete» connesse ad alcuni luoghi, giungendo a percepire le diverse atmosfere politiche e affermando infine che il «fascino» urbano promanasse dal sentire quanto essa fosse «una città in cui tutto sembrava possibile», sostenendo ancora che «ad immagine del suo tessuto urbano, il tessuto sociale e culturale appariva crivellato di fori. Bastava sceglierli e attraversarli per trovarsi, come Alice, dall’altra parte dello specchio, in mondi così pieni d’incanto da parere irreali. (…) New York mi doveva insegnare che il concetto di bellezza può subire strane reincarnazioni.»
Nella selva delle infinite descrizioni che sfidano l’irriducibile New York, tentandone una restituzione, Quando le cattedrali erano bianche di Le Corbusier, segna una “meta”. Si tratta, infatti, di un libro ridondante, eccessivo, autobiografico, assertivo. Intende contenere l’intera città che è, per l’architetto svizzero, un cupo oggetto di desiderio. Tra odio e amore egli affronta una realtà che mette in campo, libera e privata del controllo del razionalismo, i fonemi del “suo” linguaggio architettonico, decisamente svuotati da quel senso che il Movimento Moderno gli aveva attribuito. I grattacieli, in particolare, sono l’elemento su cui la critica di Le Corbusier si rivolge, mentre egli coglie uno degli aspetti più interessanti della città: New York, sostiene l’architetto, è «una città in divenire». Un’affermazione che contiene, in questo caso, un dissidio, negando il valore degli aspetti innovatori che trasformavano lo spazio in sprezzo delle regole del tardo Ottocento e del primo Novecento. L’immagine che Le Corbusier costruisce di NYC è oscillante tra la passione e il dissenso: tra l’apprezzarne la bellezza, la forza del sapere tecnico [11], l’onda d’urto del superamento della regola e il timore per il fallimento dell’urbanistica europea:
«un fresco mattino di novembre – l’estate indiana prolunga le belle giornate di sole fino alla soglia dell’anno nuovo – mi sono fatto condurre all’estremità del Ponte di Brooklyn, alla riva sinistra dell’East River e, attraverso il ponte, a piedi, son rientrato a Manhattan. (…) davanti a noi gli spuntoni dei grattacieli di Wall Street che occupano il cielo; sono rosa, allegri nel cielo Marino. Sono irti, incoronati d’oro o con architetture discutibili. Un sentimento violento vi afferra: l’unanimità».
Passeggiando per New York è, invece, un libro di memorie intime. Puntiglioso e autobiografico per eccellenza, pur toccando grandi temi di portata generale, mette la nativa New York in diretta relazione con l’esperienza vissuta, sin dall’adolescenza da Mumford, presente in prima persona nel racconto. L’esplorazione dello spazio, i confini trascesi, la sperimentazione dell’autonomia di un ragazzo che diviene adulto, è compiuto in stretta alleanza con le “parole” dei “padri”, come Emerson, Thoreau, Whitman o William James, e con la poliedrica cultura urbana, vissuta per strada, quella degli immigrati di seconda generazione, figli di coloro che, intorno alla metà dell’Ottocento, avevano abbandonato l’Europa per la giovane New York.
Il libro di Mumford è un preziosissimo documento soggettivo, uno spaccato della città che cambiava durante il trentennio in cui l’urbanista la esplorò e descrisse. Egli, tra l’altro, inaugurò la sua rubrica «The Sky Line» mentre l’America viveva la tragedia della Great Depression del ‘29. Una fase di stasi, sebbene in quegli anni e proprio a New York, venissero su mastodonti come il Rockefeller Center, l’Empire State Building o il Chrysler. Tutti oggetti di riflessione per Mumford che osservava il cambiamento non con l’occhio di chi si limitasse a guardare la consistenza fisica, bensì leggendo le relazioni tra i fenomeni: il Capitale, gli effetti, la società degli individui, i ruoli. Tutto incluso in una narrazione personale che esaltava il quotidiano, tra generale e dettaglio.
«Il caos non ha bisogno di esser progettato», sosteneva, mentre nel contempo esercitava una vis critica rivolta sia ai grattacieli, più volte espressa, sia all’assenza di pianificazione. Il suo libro che ha lo spessore vivo delle cronache urbane, celebra alcuni riferimenti, tra cui l’architettura e l’idea di città di Frank Lloyd Wright, mentre simmetricamente, esprime un’avversione per l’opera di Le Corbusier. In assenza di sistematicità i saggi brevi, contenuti nel volume, manifestano la capacità di rilevare, attraversando a piedi la città, la trama urbana, i luoghi pubblici, e quegli edifici, spesso di altezza non elevata che, secondo l’urbanista, declinavano una maggiore delicatezza estetica e un migliore rapporto con la strada. Tema cardine a New York, presente negli scritti di numerosi insider, una tra tutti, Jane Jacobs.
Entrambe le restituzioni, pur nella diversità che le contraddistingue, possono essere definite un reportage di “viaggio” che si confronta con le metamorfosi antropologiche newyorchesi. In esse permangono ed emergono la dissoluzione delle cronologie classiche e il rapporto con la storia, la territorializzazione atipica che la città declinava, la nebulizzazione dell’identità, il disorientamento che assume il valore di sfondo e non di paradigma dominante, come era stato in Europa, durante il primo Novecento. La mappatura di tale insieme è parte di un discorso trasversale e si ritrova nella descrizione di molti tra quelli che avvicinarono a NYC e ne rappresenta, forse, il tessuto comune. L’immagine, allora, si pone come luogo di costruzione di un discorso condiviso e come spazio in cui il conflitto possa essere elaborato, forse trasceso. New York supera alcuni concetti storici, producendone altri: la cristallizzazione cede il passo alla metamorfosi.
Se il Brooklyn Bridge ha il merito di aver reso reale e rilevante lo skyline di Lower Manhattan, gli anni successivi al 1883, data in cui fu possibile salire sul ponte, furono caratterizzati da una battaglia tra azioni, interventi e pensieri diversi orientati sia ad un controllo della città e della sua immagine d’elezione, sia a una libera espressione di un nuovo linguaggio urbano. Dal 1910 al 1930, quando la stagione degli skyscrapers era oramai matura e identitaria, possono, comunque, leggersi alcuni risultati tesi a rendere unitario e composto lo skyline: un documento storico, un canovaccio emozionale, un oggetto di desiderio e uno strumento mediatico [12]. In esso si osservano tutte le tensioni tra il laissez-faire dello sfrenato capitalismo e la pianificazione urbana orientata a bilanciare il braccio di ferro tra l’individualismo speculativo e le ragioni dei riformisti e della comunità. La veduta urbana, il panorama mutevole di New York, è insieme esito e artefice della città, raccontando di questa lo stridore e i densi contrasti. Rapsodica e incostante, brutale, come un romanzo d’avanguardia, New York sfugge a ogni teoria, e come ogni avanguardia destruttura, sconvolge e innova.
Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019
Note
[1] Vd. M. Berman, In the Forest of Symbols: Some Notes on Modernism, in: AII That is Solid melts into Air. The Experience of Modernity; ed. originale del 1982. Berman con energia critica, e dall’interno, in un libro ricchissimo e impossibile da sintetizzare, si esprime in merito al cliché (potenza economica, opportunità offerte), sostenendo che New York rimandi a un’immagine di rovina e devastazione, soprattutto per il declino del Bronx a opera di Robert Moses, quel dirompente soggetto autoritativo che incarnò quella modalità di pianificazione “estranea” a New York e che caratterizzava le città europee del tanto Ottocento. Il rapporto di Berman con il Bronx era legato al suo esserne nativo e al valutare come il potere istituzionale, quando svincolato dalle tensioni e dal discorso comunitario, fosse in grado di imporre una trasformazione violenta che rendeva estranei i luoghi: in questo caso attraverso lo scempio compiuto con la realizzazione del sistema tagliante delle highways. Uno dei temi implicitamente contenuti nel capitolo su New York è quello del discrimine tra il linguaggio di trasformazione “comune” e quello alieno e impositivo che rende la città “un altrove estraneo” rispetto alla percezione degli abitanti.